La domanda che la Vita Religiosa deve porsi è suggerita dal documento
sinodale Vita Consecrata: «come rispondere con sapienza evangelica alle domande
poste oggi dall’ inquietudine del cuore umano»? (VC 81). Teilhard de Chardin
scriveva: «Vuoi trovare Dio nel regno di Dio? allora legati profondamente alla
terra»; e ancora: «Una religione che sia giudicata inferiore al nostro ideale
umano, per quanti miracoli vanti, è una religione perduta». Con queste
espressioni intendeva dire che il modo che ci è dato per essere fedeli
all’eterno è quello di essere fedeli al tempo. Nel cristianesimo, come religione
dell’incarnazione, per trovare Dio, qui nel suo regno, è necessario prendere le
distanze da ciò che aliena dall’ umano autentico, non essendoci fedeltà al
divino che non sia fedeltà a ciò che è nell’uomo. Nella Gaudium et spes (1) è
detto: nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel cuore dell’uomo,
eco del dire di s. Ireneo: «gloria Dei, vivens homo». Allora non si può più
parlare di salvezza in termini cristiani senza avere davanti agli occhi la
salvezza di tutto l’uomo, non solo per la vita eterna ma anche per il ben-essere
quaggiù in coerenza con la sua vocazione terrena.
Inseriti nella storia
«Essere uomo significa vivere in una data cultura» (Giov.Paolo II°) . Da qui la
domanda: l’ impianto della VR rispetta questo modo di essere-nella-storia?
L’identità attualmente espressa dalla VR è datata storicamente e teologicamente,
chiusa nel suo saputo di cui gli artefici sono stati i monaci, da qui l’immagine
classica del discepolo caratterizzata prevalentemente dalla rinuncia che implica
una radicale spoliazione di sé. Fino al IV° secolo la santità era vista come
“martirio”; successivamente, il martirio – quale modello di santità – è stato
intravisto nello stile di vita povero, austero, mortificato, distaccato dal
mondo, penitente, accentuando per la donna alcune connotazioni: doveva essere
riservata, modesta, non mettersi in mostra, prudente, umile, pudica, silenziosa,
uscire accompagnata. Inoltre, la donna, erede della tradizione sia romana sia di
quella biblica ebraica, doveva essere sottomessa alla tutela del maschio o
subordinata all’uomo (marito, padre, fratello, figlio maggiore, zio) e nella
vita monastica a una autorità maschile o al direttore spirituale. Anche il
medioevo, tranne alcune eccezioni, si è nutrito di una concezione
sostanzialmente negativa del mondo, ne fa fede il De contemptu mundi di papa
Innocenzo III. Il ritenere che l’umano, la terra, la passione per la vita
fossero in qualche modo un intralcio è arrivato quasi fino a noi. Scriveva una
suora: «si dovevano letteralmente mettere da parte, dimenticare le doti, le
qualità, i doni, i valori ricevuti dalla natura, dalla famiglia». Com’è stato
possibile questo? Noi veniamo dal credere che l’amore di Dio si meriti e che ai
primi posti della graduatoria del merito ci sia la sofferenza, e dunque, in
quanto meritoria, salvifica in sé. Da qui al credere che il cristianesimo sia
una proposta di sofferenza il passo è breve. Non meraviglia allora se in
filosofi come M. Onfray, in scrittori come K. Follet, in scienziati come R.
Dawkins, l’accusa convergente mossa ai cristiani è di condurre la loro vita
nella morsa del dolorismo operando in tal modo come derubatori di felicità . Ma
oggi per la persona, lo sviluppo di nuove possibilità non nasce dal doverle fare
quale tributo sacrificale, ma dalla potenza delle “passioni gioiose”, entro cui
ci stanno anche quei sacrifici che sono al servizio della vita. È interessante
quanto scrive C.M.Martini in riferimento a s. Paolo il quale mette in guardia
dalle dottrine devianti: «perfino in mezzo a voi sorgeranno alcuni a insegnare
dottrine perverse per attirare discepoli dietro di sé». «Ci domandiamo –
prosegue Martini – quali sono queste teorie perverse? In genere nella Chiesa
primitiva le perverse non erano quelle che rendevano più facile l’osservanza
della legge, ma quelle che indebitamente le rendevano più severe e rigide. … per
noi oggi una dottrina perversa è quella in cui si prendono le cose con
superficialità, ma ancora più perversa è quella che esagera le esigenze della
santità, quella che impone atti di ascesi e di devozione assurdi» . Veniamo dal
tempo in cui si pensava che in ordine alla salvezza, la spiritualizzazione
disincarnata («angelizzazione») fosse preferibile alla «umanizzazione».
Saper riconoscere che è finita un’epoca
È dalla metà del novecento che sul cielo della VR si addensano nuvole
minacciose. Ma «la Vita Religiosa questo tempo non lo ha saputo giudicare» (Lc
12,54-56). Non si è sentita sfidata a essere parte viva delle grandi
trasformazioni che stava vivendo il nostro continente, conseguenza
dell’incapacità istituzionale a vivere la fatica del trapasso culturale. Non
prendere di peso il significato di fine di un’epoca, ha portato strutture e
persone a essere imbalsamate. È quello che avviene quando un gruppo tende a
conservare immutata la propria situazione, ovvero le proprie norme e i propri
modi di vita, continuandoli a ritenere i più espressivi del Vangelo, senza
accorgersi che intanto nella Chiesa sono apparse forme nuove non meno ricche e
più ampie di appartenenza al Vangelo. Le tante risposte adattive quali
l’aggiustamento delle posizioni, l’aggiornamento, il rinnovamento non hanno
creato sufficiente dinamica evolutiva. C'è stato tanto cambiamento che ha
cambiato ben poco, per aver configurato ogni proposta di novità ai parametri
della classicità. Se un problema resiste significa che i suoi fondamenti
insistono su qualcosa che deve essere radicalmente cambiato. Perché, allora, non
cogliere a monte delle resistenze, la provocazione a inventare forme nuove di
pensiero, di stili di vita, che rendano la VR praticabile, desiderabile e quindi
capace di costruire ancora esistenze affidabili e serene? Oggi a dichiarare
d’essere entrati irreversibilmente in un tempo in cui le immagini tradizionali
della vita consacrata non tengono più è lo stesso presidente della CISM che, a
Milano-Sagrate disse: la Vita Religiosa classica è «priva di futuro». Il “male”
che l’ha condotta a questo è l’insignificanza, che consiste nel non essere
riconosciuti e conseguentemente nell’essere tagliati fuori dalla vita della
gente e dai suoi veri problemi, in particolare dai progetti di avvenire dei
giovani. Lo si desume dal riscontrare che il modello attuale non aggancia più le
sensibilità oggi prevalenti, per cui la scelta vocazionale, privata di vari
elementi un tempo promozionali quali la plausibilità, il riconoscimento sociale
ed economico, non incuriosisce più. L’insignificanza ha portato al crollo della
visibilità non solo tra la gente ma anche in campo di riflessione teologica. Nei
nuovi trattati di ecclesiologia – scrive p. Cabra – alla VR vengono riservate
poche paginette frettolose, come se si trattasse di un corpo estraneo e quasi
non esistesse un capitolo della LG. Inoltre – continua il padre – dal 2010 è
stato tolto dalla ratio studiorum della formazione del clero in Italia il corso
sulla VC. Tutto ciò fa pensare che sia lo stesso tessuto culturale della VR a
essere sentito fragile e sfilacciato e che la VR sia considerata una delle
forme, tra le tante altre, dell’azione dello Spirito nella sua Chiesa.
I giovani e la storia che è loro propria
È connettendosi con le domande della storia che si mette l’ agire sui sentieri
di senso. Le nuove generazioni non sono refrattarie all’idea di vocazione
intendendo con essa un progetto e un’idea di fondo cui ancorare la propria
esistenza, a condizione però che sia un progetto che rifletta i tratti culturali
emergenti nella storia che è loro propria, tenendo conto – come ha fatto Cristo
nella presentazione della verità evangelica – di tutta la complessità
dell’umano, tanto della mente quanto della ragione come del cuore» .
Recentemente mons G.Pasini indicava come urgenza per i religiosi/e quella di
tradurre i valori che scaturiscono dalla consacrazione in termini percepibili
dalla sensibilità comune e valutabili in termini razionali . Se la ragione senza
la fede dà il razionalismo, la fede senza la ragione dà il fideismo, secondo cui
la ragione andrebbe contro la fede; da qui il credere che più si mortifica la
ragione più si eleverebbe la fede. Ma non è così: ogni atto umano per essere
tale non può prescindere dalla ragione. Diceva J. Tillard nella sua ultima
intervista: «Io sono domenicano, per la tradizione tomista l’intelligenza
(ragione e intuizione) e la coscienza, conservano i loro diritti inalienabili in
virtù della stessa creazione a immagine e somiglianza di Dio». Ora, diversamente
da un tempo, la sensibilità attuale non sente razionali varie espressioni che
vengono da lontano e ancora correnti quali ad esempio: «l’obbedienza per essere
vera, deve essere cieca come la fede»; «chi obbedisce non sbaglia mai»; «ciò che
comandano i superiori è sempre volontà di Dio»; «nell’obbedienza non ci sono
eccezioni», espressioni che per essere state proclamate vere in modo assoluto e
recepite senza senso critico, hanno contribuito non di rado, ad anestetizzare le
coscienze e a far sì che l’atto di obbedienza e quello di fede smettano di
essere un vero ossequio sensato, per diventare qualcosa di irrazionale.
Persone pensanti prima che obbedienti
Un altro tratto culturale oggi irrinunciabile è dato dalla “libertà di
coscienza”. Fu soprattutto il concilio a riscattare dottrinalmente questo
diritto inalienabile come «conseguenza – è detto – della odierna consapevolezza
della dignità della persona umana» . Uno dei grandi fili conduttori della
riflessione conciliare – scrive il filosofo G. Savagnone – oltre a liberare la
laicità è stato il liberare la libertà nella Chiesa. Non una libertà anarchica o
nichilistica che non conosce assoluti e valori, ma concepita come orientamento
alla volontà di Dio la cui interprete è innanzitutto la propria coscienza,
essendo questa il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo
con Dio, la cui voce risuona nell’intimità, origine di responsabilità non
delegabile. Bisogna allora poter coniugare obbedienza con libertà ed etica della
responsabilità. La difficoltà, ancora attuale, è dovuta al fatto che il termine
“libertà” nella Vita Religiosa non è mai stato considerato un termine virtuoso,
lo era invece la sottomissione o la dipendenza. La storia ricorda che Gregorio
XVI nell’enciclica Mirari vos dichiarava che la libertà di coscienza «è un
delirio» (deliramentum).
Questi sono i presupposti oggi alla base di una organizzazione istituzionale in
grado di dare spazio a nuove forme di vita individuale e collettiva, con inediti
codici di esperienza e appartenenza, il cui valore non sia meramente quello
funzionale ma quello di essere annuncio di un modello di relazioni fraterne
fatte di fede, per le quali essenziali sono la consonanza di vedute, la
preoccupazione per il bene degli altri, la disponibilità ad aiutarsi, la
familiarità, la condivisione del proprio mondo interiore. Una fraternità dunque
che non consiste nel dire ci vogliamo bene, siamo tutti bravi, che bello stare
insieme, ma nel riconoscere di aver bisogno del dono dell’altro, e aiutarsi
reciprocamente nell’ esercitarlo. A tal fine si tratta di riequilibrare
l’esercizio di governo, oggi sbilanciato sul versante strutturale-gerarchico.
Nella Chiesa l’autorità è tale in quanto “serve”, e per essere servizio
occorrono persone capaci di dare attenzione alle coscienze, con il bandire quel
dottrinarismo che considera la legge più importante dell’uomo concreto;
occorrono persone capaci di formare gente pensante prima che obbediente, a
partire dal concepire l’obbedienza come libertà di arrendersi alla incessante
novità di Dio in ordine a un progetto che supera gli orizzonti individuali;
persone che sappiano donare non verdetti ma emozioni nel cammino discepolare;
persone per le quali “autorizzare” non significhi solo “concedere” ma rendere
ognuno in qualche modo “autore”, o “attore” di una esperienza.