Abbiamo conosciuto da sempre il Gesù dei Vangeli, il Gesù dei Padri, il Gesù dei teologi, quello delle religioni e delle chiese, quello degli eretici e dei non-credenti, quello delle culture e delle arti: una delle indagini più belle è quella sul Gesù dei poe-ti. Parlando dei nostri giorni, penso non dimenticheremo facilmente le brucianti pagi-ne di Corpo d’amore. Un incontro con Gesù (2001) o Poema della Croce (2004) o Cantico dei Vangeli di Alda Merini. Né potremo archiviare a cuor leggero i tre volu-mi dei “Volti di Gesù nella letteratura moderna” (1990-1995) del padre gesuita Fer-dinando Castelli. Ci consola negli ultimi quindici anni la ricostruzione delle figure di Gesù nelle filosofie moderne compiute da Xavier Tilliette, soprattutto col suo Filosofi davanti a Cristo (1989), e quelle di Silvano Zucal nei suoi due volumi su Cristo nella filosofia contemporanea (2000-2002). Ora – è la bella sorpresa – andiamo conoscen-do anche il Gesù dei Papi, non quale oggetto di magistero, ma come il Gesù da loro conosciuto, creduto e vissuto.

Da Giovanni XXIII  a Benedetto XVI

Lo sappiamo. La pietà di Giovanni XXIII era intrisa del mistero di Cristo, come si constata leggendo Il giornale dell’anima e altri scritti di pietà, a cura di Loris F. Ca-povilla, Edizioni Storia e Letteratura, Roma 1964. Come pure, granitica appariva la fede cristologica di Paolo VI, del quale è bello ricordare qualche frammento dell’indimenticabile Omelia durante la santa messa al “Quezon Circle”, a Manila, nelle Filippine, il 29 novembre 1970: in essa si manifesta l’innamoramento personale e magisteriale di Montini per Cristo: «Io, Paolo, successore di San Pietro, – scrive con commosso sentire – incaricato della missione pastorale per tutta la Chiesa, non sarei mai venuto da Roma fino a questo paese estremamente lontano, se non fossi fermissimamente persuaso di due cose fondamentali: la prima, di Cristo; la seconda, della vostra salvezza. Di Cristo! […] Io sono mandato da lui, da Cristo stesso, per questo. […] Io devo confessare il suo nome: Gesù è il Cristo, Figlio di Dio vivo (Mt 16, 16); Egli è il rivelatore di Dio invisibile, è il primogenito d’ogni creatura, è il fon-damento d’ogni cosa; Egli è il Maestro dell’umanità, è il Redentore; […] Egli è colui che ci conosce e che ci ama; Egli è il compagno e l’amico della nostra vita; Egli è l’uomo del dolore e della speranza; è colui che deve venire e che deve un giorno esse-re il nostro giudice e, noi speriamo, la pienezza eterna della nostra esistenza, la nostra felicità. Io non finirei più di parlare di lui. […] Ricordate e meditate: il papa è venuto qua fra voi, e ha gridato: Gesù Cristo!».
Benedetto XVI, da parte sua, completa questo stile dei papi di “gridare” Cristo: lo fa mettendo a nostra disposizione la sua conoscenza teologico-esistenziale di lui con due libri poderosi: dopo il primo, Gesù di Nazaret (Rizzoli 2007), dedicato a riflettere sugli avvenimenti che vanno dal battesimo al Giordano alla confessione di Pietro e al-la Trasfigurazione, da giovedì 10 marzo abbiamo il secondo volume, che continua la narrazione meditata della vicenda messianica di Gesù. In nove capitoli Benedetto XVI ricostruisce gli episodi decisivi della vita di Gesù, quelli che sono come l’asse misterico della fede cristiana e che sono contenuti nell’arco temporale-teologico, che va dall’ingresso a Gerusalemme fino alla risurrezione.

Gesù di Nazaret e di Gerusalemme

Nel primo volume papa Ratzinger aveva voluto «fare il tentativo di presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il “Gesù storico” in senso vero e proprio» dicendosi «convinto» che la «figura» di Gesù «è molto più logica e dal punto di vista storico anche più comprensibile delle ricostruzioni con le quali ci siamo dovuti con-frontare negli ultimi decenni» e affermava: «Io ritengo che proprio questo Gesù – quello dei Vangeli – sia una figura storicamente sensata e convincente» (p. 18). Il nuovo libro su Gesù di Nazaret è legato al precedente con i fili forti della coerenza teologica interna che non spezza mai in due il discorso su Gesù, in una gesuologia (discorso solo su Gesù di Nazaret) da una parte e una cristologia dall’altra e, eviden-temente, non per motivi di coerenza letteraria e di buona retorica, ma perché né la fe-nomenologia dei Vangeli conosce questo spezzamento, né la teologia lo permette.
Considerare Gesù dentro gli argini di una gesuologia chiusa in sé porterebbe a sviluppare un discorso che riguarderebbe solo l’Uomo di Nazaret, che evidentemente, se fosse solo questo, non potrebbe essere il Redentore dell’uomo. Come pure, fare una cristologia in occasione di Gesù, quasi prendendo solo spunto da lui, non sarebbe discorso teologico completo e convincente: parlerebbe di un Messia capace di salva-re, ma di lui non avremmo un radicamento storico e, in concreto, della sua persona, delle sue azioni e delle sue parole non avremmo una contestualizzazione né spaziale né temporale: ignoreremmo che cosa fa per noi e quello che cosa noi dovremmo fare per lui. Ma un Salvatore da noi lontano, fuori del nostro mondo e della nostra storia sarebbe ancora il nostro Salvatore? Papa Ratzinger tiene perciò strettamente unite ge-suologia e cristologia, il Gesù della storia e il Cristo della fede, il Gesù di Nazaret e il Cristo di Gerusalemme: i suoi due testi su Gesù, più che preferire una “cristologia dall’alto” nei confronti di una “cristologia dal basso” (pp. 8-9), elaborano – in modo narrativo e meditativo – una affascinante e convincente cristologia di Gesù, una cri-stologia radicata in una esplicita base gesuologica.

Salvatore contemporaneo di ogni uomo

L’impegno continuo del Papa a mostrare la figura unitaria di Gesù Cristo non impedisce di constatare che questo suo libro celebri, con concentrazione di fede e di pensiero particolarmente intensa, i misteri gloriosi della sua esistenza. In una parola, nel secondo volume è presentato da Ratzinger, Gesù è anzitutto il Messia pasquale, il cui ultimo approdo è il cielo con la sua condizione di elevato e di glorificato (cfr. l’intero volume). L’insistenza di Papa Ratzinger sul Gesù della Pasqua è dettata da un’importante ragione teologica: il Salvatore, per essere tale davvero, dev’essere con-temporaneo di ogni uomo. Nessuno, più e meglio di Kierkegaard, si è posto con u-guale serietà il problema della contemporaneità di Cristo, trovando in essa anche il fondamento della saldatura fra la teoria e la prassi, fra la dogmatica e l’etica
Egli rinviene la contemporaneità del vero e della salvezza in quel Singolo (con quel volto!), che è Gesù Cristo, nel quale l’assoluto s’è relazionato ai singoli esistenti nel tempo: «In rapporto all’assoluto non c’è infatti – egli scrive – che un solo tempo: il presente; per colui che non è contemporaneo con l’assoluto, l’assoluto non esiste affatto. E poiché Cristo è l’assoluto, è facile vedere che rispetto a lui è possibile solo una situazione: quella della contemporaneità» . Papa Ratzinger sottolinea questo a-spetto dell’esistenza di Cristo e attribuisce alla sua risurrezione la causa della sua contemporanei o vicinanza all’uomo di tutti i tempi: è la risurrezione di Gesù che fa di Dio il Dio vicino e rende contemporanei il Cristo: «Se Gesù sia soltanto esistito nel passato o invece esista anche nel presente – ciò dipende dalla risurrezione. Nel “sì’” o “no” a questo interrogativo non ci si pronuncia su di un singolo avvenimento accanto ad altri, ma sulla figura di Gesù come tale» (p. 270).

I passi di Cristo  nel cuore dell’Ora

Papa Ratzinger dedica tre capitoli e molte pagine a passare sulle orme di Gesù nei passi dati prima della sua morte e della sua risurrezione (119-126). Li attraversa, per così dire con intensa concentrazione: è la parte più analitica, quella scritta con il mas-simo dell’acribia storica, esegetica e teologica. A noi può bastare raccogliere, qualche fiore, or qui, magari caduti dal suo cesto pieno. Lampeggia, nel discorso sull’ultima Cena, il gioco dialettico con cui Gesù entra nella storia della salvezza: «Al “no” di Adamo Egli risponde con una nuova premura per l’uomo. Al “no” di Babele egli ri-sponde inaugurando con l’elezione di Abramo un nuovo approccio alla storia. […] Nonostante ogni negazione da parte degli uomini, egli dona se stesso, prende su di sé il “no” degli uomini, attirandolo destro il suo “sì” (cf. 2 Cor 1,19)» (pp. 138.141).
Commentando lo «spezzare il pane» da parte di Gesù, così papa Ratzinger com-menta: «Spezzare e condividere: proprio il condividere crea la comunione. […] Il ge-sto di Gesù è divenuto così il simbolo di tutto il mistero dell’Eucaristia» (p. 147). Questa considerazione del Papa sollecita forse una considerazione per noi: quella di considerare l’Eucaristia, prima che come un’iniziativa ecclesiale, una convocazione di Dio, un suo invito, una sua intrapresa salvifica e di grazia. Non è pensata l’Eucaristia come un’ora soprattutto ecclesiale, una nostra convocatio fidelium? Ma è così? Papa Ratzinger prosegue correggendo la prospettiva: «[Nell’Eucaristia] benefi-ciamo dell’ospitalità di Dio, che in Gesù Cristo crocifisso e risorto si dona a noi» (p. 147).
In questo contesto del libro il papa annoda il Pane donato (lo riannoda piuttosto) alla gloria del giorno migliore, alla Domenica, la “piccola Pasqua della settimana”. Ma è davvero così piccola questa Pasqua settimanale se i martiri di Abitene (Tunisia), tramite il loro compagno Emerito, sentirono dire: «Non possumus sine Dominico», senza Domenica non possiamo vivere? Il Papa scrive: «La nuova articolazione cri-stiana della settimana è modellata in modo chiaro il giorno della risurrezione è il Giorno del Signore e con ciò anche il giorno dei suoi discepoli, della Chiesa» (p. 162). Una nota intriga parecchio a questo punto perché il discorso del papa, sebbene con toni tenui, si fa netto nella sostanza sulla necessità di non svuotare, in nessun modo, il particolarissimo significato dell’Eucaristia celebrata nella domenica: «Un arcaismo, che volesse tornare a prima della risurrezione e della sua dinamica e imita-re soltanto l’ultima cena, non corrisponderebbe affatto alla natura del dono, che il Si-gnore ha lasciato ai discepoli. Il giorno della risurrezione è il luogo esteriore ed inte-riore del culto cristiano, e il ringraziamento quale creatrice anticipazione della risur-rezione da parte di Gesù è la maniera in cui il Signore fa di noi persone che rendono grazie con Lui, la maniera in cui egli, nel dono, ci benedice e ci coinvolge nella tra-sformazione, che a partire dai doni deve raggiungerci ed espandersi sul mondo: “fin-ché egli venga” (1 Cor 11,26)» (p. 163).

I due fuochi dell’ellissi pasquale

Il secondo Gesù di Nazaret, come si è detto a lungo, è un’organica meditatio sul mistero dell’Ora, nella quale papa Ratzinger ci invita ad entrare e ci fa fare l’esperienza della morte (pp. 227-267) e della risurrezione di Cristo (pp. 269-307), non interrompendo mai la mutua attrazione di esse, ma conservando per intero la mi-steriosa dialettica interna all’ossimoro dell’evento pasquale. Papa Ratzinger, a questo punto, inserisce un suo giudizio su alcune ipotesi che sono state elaborate o almeno ripresentate con molta insistenza negli ultimi decenni: l’ipotesi della morte come luo-go della stessa risurrezione (L. Boff, G. Greshake, G. Lohfink…). Ratzinger si pro-nuncia con chiarezza: «Oggi si sono sviluppate idee di risurrezione per le quali il de-stino del cadavere è irrilevante. In tale ipotesi, però, anche il senso della risurrezione diventa così vago da costringere a chiedersi con quale genere di realtà si abbia a che fare in un tale cristianesimo» (p. 283).
Breve e stimolante l’interpretazione del “grido della nona Ora”. È presentato co-me il Cristo che grida e prega come il capo: «Prega come “Capo” – come Colui che ci unisce tutti in un solo soggetto comune e ci accoglie tutti in sé» (p. 240). Questa in-terpretazione ratzingeriana permette di dire che nel “grido della nona Ora” di Gesù si strettiscono i gridi di Adamo, di Giobbe, di Lazzaro, di Abele e anche il “grido” di Eva, ossia della chiesa, la sposa-madre ferita che eleva a Dio la sua voce spezzata dal dolore per il peccato dei suoi figli e dal pianto dei figli di Adamo. Nell’ora pasquale, sotto la croce di Gesù, stabat Mater dolorosa: papa Ratzinger, dà una pennellata rapi-dissima ma preziosa della sua silenziosa figura. Ella è l’autenticazione estrema che il Maestro dà al discepolo: «Al discepolo, che è veramente discepolo nella comunione d’amore col Signore» (p. 248). Il che significa, che non si dà il discepolo (cioè il cri-stiano) né la comunità dei discepoli (cioè la Chiesa) senza Maria. Questo significa che Maria è essenziale per il cristianesimo, per la Chiesa e per la vita del singolo cri-stiano, come afferma con espressione impressionante un importante problematico ma geniale teologo da poco scomparso: «Tutto è importante: teologia, scienza, cultura, pro-gresso, tutto è molto importante, però, senza Maria, la nostra vita cristiana è monca e qualsiasi concezione che si tenta di dare del cristianesimo diventa fallita» .

Diverso nel morire e nel risorgere

. Ancora insistendo sul secondo fuoco dell’elissi pasquale, la risurrezione, papa Ratzinger scava dentro il densissimo grumo di mistero contenuto in 1 Cor 15,14s, il famoso frammento paolino che interpreta la risurrezione come la prova regina della credibilità del cristianesimo: «La fede cristiana sta e cade con la verità della testimo-nianza secondo cui Cristo è risorto dai morti» (p. 269). Questo perché la risurrezione di Gesù, da un lato «è il seme più piccolo della storia» (p. 275), dall’altro è il seme che fa nascere una vera creazione nuova. Gesù vive una morte radicalmente diversa da quella degli altri uomini. Papa Ratzinger parla della morte di Gesù che muore di una morte singolare, dal momento che le morti non sono tutte uguali: «La morte di Gesù è d’altro genere: non proviene dalla presunzione dell’uomo, ma dall’umiltà di Dio. Non è la conseguenza inevitabile di una hybris contrastante con la verità, ma è la messa in atto di un amore in cui Dio stesso discende verso l’uomo per attrarlo nuo-vamente in alto verso di sé» (p. 281).
Parimenti, anche la risurrezione di Gesù è unica. Essa non è la semplice «rianima-zione di un morto» (p. 271); «se nella risurrezione di Gesù si fosse trattato soltanto del miracolo di un cadavere rianimato, essa ultimamente non ci interesserebbe affat-to» (p. 271). Di questo tipo sono le risurrezioni del giovane di Nain, della figlia di Giàiro o di Lazzaro (p. 271). Per Gesù è diverso: come differente da quella degli altri uomini è la sua morte, così è unica e in paragonabile la sua resurrezione: «La risurre-zione di Gesù è stata l’evasione verso un genere di vita totalmente nuovo, verso una vita non più soggetta alla legge del morire e del divenire, ma posta al di là di ciò – una vita che ha inaugurato una nuova dimensione dell’essere uomini . […] Nella ri-surrezione di Gesù» (p. 272).

L’Asceso, stella polarendella storia degli uomini

La corona dei misteri di Cristo ha una gemma preziosa nell’Ascensione. Eusebio di Cesarea, che ne dà la prima menzione, la chiama festa solennissima (cf. De so-lemm. paschali, c. 5). È un mistero che conosce la vertigine della kénosi dell’Incarnazione, possiede la radicalità della Croce, pareggia la profondità della di-scesa agli inferi, condivide la glorificazione della Risurrezione, è causalmente legata alla Pentecoste, profetizza la condizione parusiaca del Cristo Giudice e Pantocratore (dal gr. pantocrator = “sovrano di tutte le cose”). Papa Ratzinger, con l’ultimo capi-tolo del suo libro (pp. 309-324), ci aiuta a inchinarci con pietà sul segreto di grazia e di gloria che questo mistero di Cristo conserva. Egli inizia col sottolineare che l’Ascensione non ci ha allontanato il Cristo, ne è segno la gioia dei discepoli al dipar-tire del Cristo (cfr. Lc 24,50-53): «Noi ci aspetteremmo il contrario. Ci aspetteremmo che essi fossero rimasti sconcertati e tristi» (p. 311). Ma la ragione di quella gioia dei discepoli c’è ed è questa: «La gioia dei discepoli dopo l’ “Ascensione” corregge la nostra immagine di tale evento. L’ “Ascensione” non è un andarsene in una zona lon-tana del cosmo, ma è la vicinanza permanente che i discepoli sperimentano in modo così forte da trarne una gioia durevole. […] Dio non si trova in uno spazio accanto ad altri spazi. […] La sua presenza non è spaziale ma, appunto, divina. “Sedere alla de-stra di Dio” significa una partecipazione alla sovranità propria di Dio su ogni spazio» (pp. 312. 314).
Poi papa Ratzinger inizia a scrivere le pagine più belle del libro. Lo fa incomin-ciando a chiosare con fini osservazioni l’espressione di Gesù, riportata in Giovanni: «Vado e vengo a voi» (14,28). «Il suo andarsene – spiega – è proprio così un venire, un nuovo modo di vicinanza, di presenza permanente…» (p. 315). Questa è ancora solo un’affermazione, mentre la prova è questa: «Siccome Gesù è presso il Padre, E-gli non è lontano, ma è vicino a noi» (p. 315). Poi un guizzo geniale. Per sviluppare questo pensiero il Papa evoca l’episodio evangelico nel quale Gesù ordina ai discepo-li di salire sulla barca e di precederlo sull’altra riva, verso Betania; egli si ritira «sul monte» a pregare, mentre i discepoli sono nel guado e si spaventano per la tempesta delle acque. E qui viene l’interpretazione originale di papa Ratzinger: «Il Signore sembra lontano, in preghiera sul suo monte. Ma siccome è presso il Padre, egli li ve-de, viene da loro camminando sul mare, sale sulla barca con loro e rende possibile la traversata fino alla meta. […] Il Signore è “sul monte” del Padre. Per questo egli ci vede. Per questo può in ogni momento salire sulla barca della nostra vita» (pp. 315-316).
Il «vado e vengo a voi» di Gesù dura ancora per papa Ratzinger; questo significa che come si parla di una Pasqua continua, di una Pentecoste continua, deve parlarsi di un’Ascensione continua. «Anche oggi la barca della Chiesa, col vento contrario della storia, naviga attraverso l’oceano agitato del tempo. Spesso si ha l’impressione che debba affondare. Ma il Signore è presente e viene nel momento opportuno. “Vado e vengo a voi” – è questa la fiducia dei cristiani, la ragione della nostra gioia» (p. 316). Ora, come tutti i misteri di Cristo, anche l’Ascensione va imitata dai discepoli. Ma come imitare l’ascendere di Cristo nella gloria? Papa Ratzinger dà una risposta sor-prendente, ma affidabile proprio per la sua severità: «E ricordiamoci che, secondo Giovanni, il luogo dell’ “elevazione” di Cristo è la sua croce e la nostra “ascensione” di Cristo è la sua croce e che la nostra “ascensione” che è sempre nuovamente neces-saria, il nostro salire per toccarlo, deve essere un camminare insieme col Crocifisso» (p. 317).
La sottolineatura di papa Ratzinger sulla presenza di Gesù nel nostro oggi cristia-no è espressione sintetica che merita di essere aperta nei molti sensi che essa possie-de. Il Cristo asceso è il Cristo della nostra vita: il nostro attuale Maestro, Sacerdote e Pastore. È il Cristo Maestro che ci parla con la parola viva del Vangelo, della Chiesa e dei segni dei tempi. È il Cristo Sacerdote che accoglie la nostra preghiera: è colui che la presenta al Padre e ce ne consegna i frutti. È il Cristo della nostre messe, delle nostre esperienze sacramentali. È il Cristo Pastore che ci guida sulla strada dell’esodo attraverso l’opera di fratelli di battesimo che ha costituito per noi padri e pastori, i quali non lo sostituiscono, ma lo vicariano rappresentandolo e rendendolo presente. Bisogna partire dal Cristo asceso perché è ormai libero dai limiti spazio-temporali e vive la sua misteriosa contemporaneità con la comunità degli uomini e con ogni sin-golo uomo, ed è presente con la leggerezza della sua esistenza gloriosa in ogni tempo e in ogni luogo rendendo il Dio trinitario un Dio vicino.

Sotto le mani  benedicenti di Cristo

Il libro di papa Ratzinger si chiude con un sigillo di bellezza teologica. Egli torna a riflettere sulla chiusa del Vangelo di Luca, che racconta: «Alzate le mani, li bene-disse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo» (24,50s). l’ultima mezza pagina del Gesù di Nazaret di Ratzinger è di un nitore pieno, che non va ombrato da nessuna riga di commento. «Gesù – conclude il papa – parte benedi-cendo. Benedicendo se ne va e nella benedizione egli se ne va e nella benedizione e-gli rimane» (p. 324). Ancora una volta vince l’ossimoro, la difficile verità cristiana che, più di ogni altra sa alludere al Mistero di Cristo. E si vede, fra l’altro che, pur nella sua severità, l’ossimoro ha la sua dolcezza, la sua consolazione: «Le sue mani restano stese su questo mondo. Le mani benedicenti di Cristo sono come un tetto che ci protegge. Ma sono al contempo un gesto di apertura che squarcia il mondo affinché il cielo penetri in esso e possa diventarvi una presenza. […] Nella fede sappiamo che Gesù, benedicendo, tiene le sue mani stese su di noi. È questa la ragione permanente della gioia cristiana» (p. 324). Il papa chiude il suo libro con la parola che più gli pia-ce, gioia. Il Suo libro non poteva avere uno approdo più convincente. Il Glorificato è per tutti e per sempre, l’autore della nostra gioia: la parola più dolce del cristianesi-mo, ma anche la più severa perché essa spunta come stella sulla nostra vita solo quando abbiamo praticato per intero l’imitazione di Cristo e gli saremo stati fedeli fi-no al martirio, come chiede la regola più severa del codice dei discepoli, forse la pa-rola più ripetuta nel secondo Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI.

Nel momento della glorificazione, lo stesso Figlio ha elevato la sua e la nostra umanità, fino a portarla dentro la realtà più profonda di Dio. Tuttavia, l’Ascensione fa del cristianesimo una ‘religione’ nuova; è infatti religione solo dopo averne dichiarato la fine: è religione per mezzo di quel Figlio che, venendo dal cielo in questo mondo, ha inaugurato l’intima compagnia personale di Dio con l’uomo in una forma umile e kénotica, velando la sua gloria; il Cristo, salendo da questo mondo in cielo, farà con-tinuare tale compagnia per l’eternità in modo glorioso. Senza la risalita al Padre non si comprenderebbero né la venuta del Figlio dentro la storia umana, né la sua vita ter-rena, né la sua passione, né la sua morte, né la sua risurrezione.