Tra i problemi a cui stanno mettendo mano quasi tutti gli istituti religiosi,
almeno qui nel nostro mondo occidentale, vi è senza dubbio quello della
ristrutturazione e del ridimensionamento delle opere. È un’esigenza che ha
origine da diversi fattori. Anzitutto dalla diminuzione delle vocazioni e
dell’invecchiamento degli effettivi, da cui deriva l’impossibilità di continuare
a gestire opere apostoliche significative per la società e la Chiesa. In secondo
luogo perché oggi la società provvede in gran parte a quei bisogni a cui un
giorno nessuno pensava; bisogni che hanno toccato il cuore di tanti fondatori e
li hanno spinti a fondare tanti nostri istituti. In terzo luogo, perché è
cambiata soprattutto la società che non è più quella di un tempo, ed è cambiata
anche l’approccio pastorale della Chiesa che oggi può fare affidamento su una
grande varietà di iniziative e di interventi all’interno del popolo di Dio. Gli
istituti religiosi non sono più i detentori esclusivi del servizio della carità
nella Chiesa, come era un tempo.
Il rischio dell’insignificanza
Questa premessa ci serve per giungere a riflettere su un argomento a cui oggi
forse non viene dedicata la dovuta attenzione, ma che riguarda molto da vicino
le persone delle nostre comunità: è il problema dell’inerzia in cui sono
lasciati tanti religiosi/e pur avendo ancora delle energie da spendere. Dopo
avere impiegati i loro anni migliori a servizio della missione dell’istituto,
per esempio nella scuola, negli ospedali, nel servizio ai bisognosi di ogni
categoria, nella pastorale… oggi, con le sempre più frequente chiusure delle
case, si trovano “disoccupati”, costretti cioè a vivere senza qualcosa di
significativo che dia senso alla loro vita e che alimenti in essi la gioia di
sentirsi utili, di continuare generosamente a donarsi, avendo ancora delle
risorse da impiegare.
Il problema fa quasi un tutt’uno con quello degli anziani che sono sempre più
numerosi, persone che rischiano di sentirsi emarginate e destinate a vivere il
resto dei loro anni nell’insignificanza.
Sono situazioni su cui ci pare opportuno riflettere. A indurci a farlo è stata
una lettera di una religiosa che in poche righe delinea molto bene il problema.
Si tratta di una suora che ha speso diversi anni in varie attività come la
scuola materna, il servizio degli anziani e in occupazioni di altro genere, ma
che ora si trova praticamente “disoccupata e messa ai margini”. Il suo problema
non è tanto quello dell’età anziana, di cui diremo dopo, ma della
semi-inattività. Tra parentesi, occorre osservare che la vita religiosa
femminile è più esposta a queste forme che non quella maschile, dove uno va a
cercarsi, magari per conto suo, qualcosa da fare, ma il più delle volte
attraverso scelte che non si integrano più direttamente nella missione della
comunità e nel suo progetto apostolico. Le suore, invece, hanno meno autonomia e
quindi soffrono di più di questa sua insignificanza.
«… Non è la carriera che cerco – scrive la suora – ma ho occhi per vedere i
bisogni sul territorio, l’animazione parrocchiale, le visite negli ospedali e a
domicilio, gli anziani. La religiosa certamente non può prendere nessuna
iniziativa, anche se viene a conoscenza di un bisogno, a differenza di tutti i
fondatori… Ritengo buona cosa pensare anche a noi. Nessuna religiosa è entrata
per essere maestra o infermiera, però anche l’eremita non vive solo di
preghiera; anche lui si dedica a qualche lavoro. La suora non può di colpo
chiudersi solo tra Sorelle senza più nessun rapporto con l’esterno. La fede ci
dice di vivere serenamente il momento presente; tutti i santi hanno praticato la
mortificazione dei propri sentimenti, delle spinte interiori verso il bene, ma
la Chiesa perde una testimonianza di presenza di vita religiosa… Ecco perché
scrivo: per evitare l’impoverimento alla Chiesa…».
La lettera, ci pare, tocca dei punti che meritano di essere ripresi. C’è
anzitutto un aspetto psicologico che riguarda la “sofferenza” di chi, abituato
alle relazioni, si trova all’improvviso tagliato fuori da tutto. In ognuno di
noi esiste infatti un bisogno profondo di socializzazione, ossia il desiderio di
incontrare persone, parlare, dialogare, creare amicizie, di sentirsi cioè
immerso in una realtà viva e dinamica che non può essere soddisfatta chiudendosi
nella piccola cerchia di una comunità, tagliati fuori dal mondo. Inoltre,
ognuno, quando è ancora in grado di essere utile e di svolgere delle attività
proporzionate alle sue forze, sente il bisogno di continuare a donarsi
concretamente e di dedicare il meglio di sé al prossimo, altrimenti finisce col
vanificare energie ancora valide e i doni che il Signore gli ha dato. Non si
possono semplicemente seppellire i “talenti” ricevuti da Dio: ciò
rappresenterebbe una specie di negazione anche della propria consacrazione che
consiste essenzialmente nel dono di sé per tutta la vita. Ciò costituirebbe
anche un impoverimento della stessa comunità che ha ricevuto queste vocazioni, e
in definitiva della Chiesa che è sempre e dovunque missionaria. Ogni persona
deve essere valorizzata per quello che può dare. Non basta dire a uno/a che il
gran tempo libero ora a disposizione può essere impiegato nella preghiera.
Certamente questo è importante, ma accanto alla preghiera occorre anche
impegnarsi là dove è possibile e dove ci sono dei bisogni a cui poter
rispondere.
Forse la nuova situazione di sofferenza che si è creata in tante comunità, in
seguito ai cambiamenti intervenuti, rischia di sprecare dei “tesori” che ancora
si possiedono e che vengono invece sepolti.
Problema analogo anche per gli anziani
Il problema si intreccia così con quello dell’età anziana; un’espressione questa
che sarebbe oggi da ridefinire, dato il notevole prolungamento della vita. Lo
stanno facendo anche le società moderne con il tentativo di spostare in avanti
l’età del pensionamento. Nel numero del 3 marzo scorso di Vita pastorale,
Antonio Mazzi, in un articolo dedicato alle “fasce d’età”, scriveva: «Gli
ottantenni potrebbero diventare la vera risorsa del domani. La vita si è
allungata. L’integrità fisica e mentale c’è tutta. L’esperienza di un anziano è
insostituibile. La pensione che arriva ancora, secondo le vecchie regole della
menopausa, lascia una ventina d’anni alla “mercé” delle bocciofile, dei circoli
Acli, dei viaggi ai centri commerciali, e con fila ai Bingo. Gli anziani sono un
tesoro, una riserva non solo come nonni. Se li convincessimo ad accontentarsi
delle pensioni che hanno, facendo volontariato, saremmo e sarebbero tutti
salvi».
In una ricerca effettuata nella prima metà del decennio appena trascorso, e
coordinata dal presidente don Allario dell’Università sperimentale decentrata su
coloro che sono definiti i “nuovi anziani”, ossia le persone comprese idealmente
tra i 55 e i 70 anni, si osserva che diventare anziani o pensionati oggi «è
diverso da come avveniva nelle società precedenti. Le cose sono cambiate. Oggi
si parla di “giovani anziani” nel senso che il mondo degli anziani è vivo e ha
ben diritto di essere studiato e approfondito come parte integrante della
società, Perciò tutti gli sforzi fatti per scoprire le attese e gli interessi di
queste categorie non possono non essere salutati con favore». Dall’indagine
emerge un interesse particolare per una “spiritualità umana” ben vissuta, vale a
dire il desiderio di vivere la totalità delle doti umane.
Opportunamente i curatori dell’indagine attirano l’attenzione sulla differenza
che c’è fra tempo libero e tempo disponibile. Spesso, nella vita di un anziano,
il tanto tempo libero diventa anche tempo perso; questo accade quando vien meno
lo stimolo a destinare spazi e tempi per cose utili e per altri interessi.
È ricco di proposte, per esempio, il riferimento alle attività parrocchiali. I
curatori della ricerca, parlando del posto dei nuovi anziani in parrocchia,
rilevano che essi potrebbero essere determinati per l’impostazione di molte
attività: basti pensare a settori come l’anagrafe parrocchiale, la caritas,
l’oratorio, le feste e celebrazioni, gite, soggiorni, catechesi, missioni,
vocazioni, ripetizioni, corsi di informatica, di lingue straniere…
È importante inoltre il rilievo che non si tratta di una semplice questione di
numero, ma anche e soprattutto di una nuova visione teologica ed ecclesiale del
problema.
Rimanere attivi il più a lungo possibile
Queste considerazioni riguardano in senso ampio la fascia degli anziani delle
nostre società, ma toccano da vicino anche la realtà delle nostre comunità
religiose. A dire il vero, negli istituti religiosi attualmente il problema
dell’età avanzata è molto sentito e non mancano riflessioni e iniziative al
riguardo. Possiamo citare, per esempio, la lettera che p. Heinz Wilhelm
Steckling, ex superiore generale degli Oblati di Maria Immacolata, ha scritto
nel 2001 agli anziani dell’istituto. Egli li chiama “i fratelli maggiori”; ad
essi, sottolinea, compete un importante «ruolo come missionari ed
evangelizzatori». Li considera e definisce un “tesoro nascosto”, una “ricchezza
e una fonte di vita per la congregazione. Accennando poi all’importanza che
riveste la contemplazione nell’età anziana, sottolinea però: «In verità, molti
di voi hanno avuto la grazie di condurre una vita attiva anche dopo gli
ottant’anni ed è bene rimanere attivi il più a lungo possibile, adattando le
proprie attività».
Interessante è anche un articolo apparso su Review for Religious (maggio giungo
2000) del benedettino Benedict Auer, riguardante i problemi, inerenti
all’aumento, sia in campo maschile sia femminile, di coloro che ritornano dalle
terre di missione, “costretti” ormai al ritiro. Si tratta di persone, osserva,
che «non sono preparate a tornare “a casa”, in luoghi cioè diventati ormai per
loro estranei, quasi pianeti diversi; vi rientrano come “forestieri”.
Il problema si pone, ancora una volta, sul piano psicologico. Scrive il padre:
«dopo aver servito l’istituto per gran parte della loro vita e aver donato la
loro esistenza a servire il Signore, il giorno in cui sono “costretti” a tornare
è come se venisse tolto loro il terreno sotto i piedi. Essi lasciano dietro di
sé un sistema di sicurezze di cui hanno goduto per tanti anni… Ora, si sentono
più soli che mai, proprio nel momento in cui avrebbero più bisogno di amici e di
persone che li sostengano.
La loro sofferenza è che avvertono di essere psicologicamente abbandonati. Hanno
speso la vita per un apostolato che ora li ha messi da parte, almeno questa è la
loro convinzione. E il posto in cui sono attualmente mandati a vivere non
corrisponde a quanto si aspettavano.
In una condizione del genere è facile che alcuni avvertano dentro di sé “forti
risentimenti” e che si sviluppi in essi un “processo psicologico” che li induce
a pensare che le cose per cui hanno dato la vita non hanno ora più bisogno di
loro.
A. Benedict sottolinea che non serve molto dire a queste persone, come afferma
di aver sentito ripetere da certi superiori: «Bene, ora hai tempo per riposare».
Questa, rileva, «è la peggior risposta che si possa dare». Si tratta infatti di
persone che «non hanno alcuna voglia di riposare… hanno invece bisogno di
programmi che li aiutino a scoprire in se stessi aspetti che erano stati
dimenticati».
Benedict cita il caso di una religiosa che, tornata a casa dalla vita
missionaria in Cina, fu inviata in una comunità di anziane. Qui, lontana dal
convento e dalla casa madre, si sentì abbandonata dalle sue consorelle e dopo
pochi anni morì, «penso, sottolinea il padre, non di malattia, ma di
crepacuore”.
Ci sono certamente, prosegue Benedict, delle malattie che richiedono cure
speciali… Ma ci sono anche istituti che hanno creato dei conventi o monasteri
che sono come delle “discariche” per i religiosi anziani o ritirati, per
metterli, come si dice, “fuori dai piedi”. Cita ancora il caso di un superiore
che gli aveva fatto osservare: «Stanno meglio insieme». Ma, si chiede p.
Bendedict, «è proprio vero? La verità è piuttosto che la loro vita ora priva di
significato».
A suo parere, «ciò che è importante per questi religiosi, è dare loro qualcosa
da fare, anche perché la loro vita sembra ad essi diventata vuota e
insignificante. Spetta alla comunità trovare delle risposte a questa domanda.
Ciò è vero sia per il caso prospettato inizialmente dalla lettera della suora e
sia anche per le persona anziane. I problemi sono analoghi e sarebbe davvero
imperdonabile far finta di niente.