Il 2 marzo scorso è stato barbaramente trucidato in Pakistan il ministro Shahbaz Bhatti, dai fondamentalisti musulmani, responsabili di difendere pubblicamente, compreso il parlamento, la causa delle minoranze religiose e di quelle cristiane in particolare. La notizia ha fatto in un baleno il giro del mondo suscitando ovunque indignazione.
Il papa la ha ricordato all’Angelus di domenica 6 marzo dicendo: «Chiedo al Signore Gesù che il commovente sacrificio della vita del ministro pakistano Shahbaz Bhatti svegli nelle coscienze il coraggio e l’impegno a tutelare la libertà religiosa di tutti gli uomini e, in tal modo, a promuovere la loro uguale dignità».
Nel turbolento Pakistan, con 160 milioni di musulmani, gli attentati non meravigliano più. Tuttavia l'assassinio del ministro per le minoranze, Shahbaz Bhatti, è sorprendente: pure essendo nel mirino dei terroristi, si muoveva tra casa e ufficio senza scorta. La protezione gli era stata tolta con la fine del precedente governo.
Shahbaz Bhatti aveva previsto la sua morte in un video registrato meno di tre mesi fa, in cui ribadiva che avrebbe difeso le minoranze fino alla fine.
La Conferenza episcopale del Pakistan, riunita in assemblea generale a Multan, nel Punjab, dal 20 al 25 marzo, ha inoltrato alla Santa Sede la richiesta di dichiarare ''martire'' il ministro cattolico.
Secondo Andrew Francis, vescovo di Multan e presidente della Commissione episcopale per il dialogo interreligioso in Pakistan, «'Bhatti è un uomo che ha dato la vita per la sua fede cristallina in Gesù Cristo. Occorre ricordare il suo richiamo forte alla libertà di religione, di parola e di coscienza».

Nato in una famiglia profondamente cristiana

Bhatti era nato il 9 settembre del 1968, in una famiglia profondamente cristiana, originaria del villaggio di Kushpur. Suo padre Jacob, dopo un lungo periodo nell’esercito, si dedicò all‘insegnamento e fu presidente del consiglio delle Chiese di Kushpur. Nell’autunno del 2010, avvertì i primi sintomi di una malatia che ben presto si aggravò, soprattutto in seguito alla notizia – il 4 gennaio 2011 – dell’assassinio del governatore del Punjab, Salman Taseer, e il 10 gennaio morì. Alla cerimonia funebre del padre, Shahbaz disse che sarebbe ritornato in quella chiesa per i suoi stessi funerali. Era sotto tiro e lo sapeva bene, tuttavia aveva da tempo rinunciato a cedere alla paura e alle intimidazioni.
L’importanza di Jacob Bhatti nella vita del figlio è stata grande. Una testimonianza apparsa sui giornali pakistani al momento della morte lo descriveva così: «Era un uomo coraggioso ed era la principale fonte di forza per suo figlio. Lo incoraggiava e lo aiutava ad affrontare le situazioni più rischiose e precarie».
Shahbaz Bhatti, dopo aver completato i suoi studi, intraprese la carriera politica nel Pakistan People's Party, la formazione politica più riformatrice del Paese. Molto rapidamente si impose all’attenzione dei quadri dirigenti del partito, e in particolare di Benazir Bhutto. Shahbaz lavorò a stretto contatto fino al momento dell’assassinio della leader carismatica pakistana (27 dicembre 2007). Da allora si dedicò sempre più intensamente alla difesa dei diritti umani. Diventò presidente dell'Apma (All Pakistan Minorities Alliance): un'organizzazione rappresentativa delle comunità emarginate e delle minoranze religiose del Pakistan, che opera su vari fronti in sostegno dei bisognosi, dei poveri, dei perseguitati.

Uno straordinario testamento spirituale

La sua onestà intellettuale, il coraggio e la fede emergono in maniera intensa e commovente dal testamento spirituale che ci ha lasciato :
«Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia. Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio, e nella crocifissione di Gesù. Fu l’amore di Gesù che mi indusse ad offrire i miei servizi alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un venerdì di Pasqua quando avevo solo tredici anni: ascoltai un discorso sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico. Mi è stato richiesto di porre fine alla mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora — in questo mio battagliero sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan— Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo paese».

Il suo impegno politico come ministro

Prima come leader della società civile, poi come politico, Shahbaz Bhatti è stato il primo pakistano di fede cattolica a diventare ministro federale nel 2008. Era stato spinto ad assumere l’incarico del ministero da Benazir Bhutto, poco prima del suo assassinio avvenuto il 27 dicembre 2007 in un attacco suicida, e confermato successivamente. Non era una carica a cui avesse mai aspirato, ma la accettò con la coscienza che fosse l’unica barriera istituzionale allo strapotere di un certo islamismo e, ancor più, di radicate consuetudini di prevaricazione e sfruttamento. La sua carriera, più che politica, era sempre stata di attivismo per i diritti dei cristiani e di tutte le minoranze, fin dal 1985. Era disposto a morire per la libertà di coscienza perché riteneva che fosse compito di un politico cattolico dare la vita per affermare la giustizia attraverso il dialogo e la non violenza. Molte le opere nate dal suo impegno per la libertà religiosa. Dall’introduzione, nel 2008, di una quota del 5% per le minoranze di posti di lavoro a livello federale, al riconoscimento delle festività non musulmane. Dalla predisposizione di seggi per i gruppi di minoranza in Senato, anche per le donne, all’impegno per la creazione di una rete di comitati locali per l’armonia interreligiosa. E appena due mesi fa aveva accettato di restare al suo posto - unico cristiano nel nuovo governo guidato dal premier Yusuf Said Raza Gilani - nonostante fosse nel mirino degli estremisti islamici per la sua richiesta di grazia ad Asia Bibi, la donna cristiana, mamma di 5 figli, condannata a morte perché accusata di aver offeso il profeta Maometto, e aver manifestato la necessità di una riforma della legge sulla blasfemia. Nel filmato, messo in rete dal First Step Forum, un'organizzazione europea di promozione del dialogo interreligioso, Bhatti si diceva minacciato da talebani e da Al Qaida.
«Credo in Gesù Cristo che ha dato la sua vita per noi» e «sono pronto a morire per la causa. Vivo per la mia comunità e la gente che soffre, e morirò per difendere i loro diritti»,disse. Bhatti è il secondo uomo politico pakistano, assassinato a Islamabad in due mesi, dopo il governatore della provincia del Punjab, Salman Taseer, anche lui favorevole a una modifica della legge sulla blasfemia, difesa con violentemente dai potenti gruppi religiosi islamici.

Non aveva paura del martirio


Shahbaz Bhatti è stato ucciso in pieno giorno, crivellato da 25 proiettili, mentre lasciava in auto la casa della madre a Islamabad. È stata una nuova e immensa tragedia per il Pakistan e i suoi cristiani. I tre uomini che l’hanno attaccato con i kalashnikov sono riusciti a fuggire lasciando sul posto volantini firmati Al Qaeda e Talebani del Punjab, promettendo lo stesso destino a chiunque si oppone alla legge che punisce chi insulta il Profeta. Ovvero il crudele articolo 295 introdotto nel codice penale nel 1986 dal dittatore Zia ul Haq, che prevede la pena di morte per chi offende Maometto, l’ergastolo per chi oltraggia il Corano.
Parole commoventi ha detto il fratello di Bhatti, Paul, da anni in Italia, chirurgo che vive in Italia, a Treviso. «Shahbaz voleva solo giustizia e libertà per tutti i pakistani, soprattutto per le minoranze. A questo ha dedicato la vita. Spero che il suo sacrificio serva per costruire un futuro di pace e speranza».
Dopo l’uccisione di Shahbaz Bhatti sembrano chiudersi le porte a qualunque ipotesi di revisione della legge antiblasfemia. Il premier Gilani ha annunciato che «non saranno tollerati abusi della legge».
Di fatto, però, questa resta in piedi, continuando a creare tensioni nei rapporti tra la maggioranza islamica e le minoranze. E a mettere in costante pericolo le vite degli stessi musulmani moderati. Per non parlare dei pericoli che corrono le persone incarcerate con accuse arbitrarie. I timori per la vita di Asia Bibi sono oggi ancora più forti. Asia, condannata a morte in prima istanza, ora vive segregata nel carcere di Sheikhupura, nel Punjab, in attesa del processo d’appello.

Un odio coltivato nelle scuole pubbliche

«Il ministro Bhatti è stato ucciso per l'odio religioso», e questo odio «viene coltivato e alimentato nelle scuole pubbliche pakistane»: così padre Robert McCulloch, missionario di San Colombano da oltre 20 anni in Pakistan e amico della famiglia di Shahbaz Bhatti, commenta con l'agenzia vaticana Fides l'assassinio del ministro pakistano. Gli omicidi motivati dalla religione sono perorati pubblicamente in Pakistan da estremisti islamici che li definiscono «atti che fanno piacere ad Allah e che garantiscono l'immediata salvezza». Una delle ragioni della diffusione di tale mentalità "è un sistema educativo distorto". La distorsione dei fatti nei libri di testo scolastici è la fonte maggiore delle tendenze estremiste, che hanno un devastante impatto sulla società.
Il mondo ha perso con l’uccisione di Bhatti un testimone e difensore della fede: «Il vuoto lasciato da Shahbaz Bhatti è difficile da colmare. E sarà ancora più difficile se il mondo libero non si renderà conto che la dignità dell’uomo e la libertà che tutti cercano, non possono prescindere dal riconoscimento di una verità che è per tutti e che si intravede passando attraverso la legittimazione totale e senza condizioni della diversità dell’altro».