Il 25 ottobre scorso, a Torino-Valdocco, si è ritrovata la commissione mista del Piemonte (vescovi, vicari episcopali, Cism, Usmi e Istituti secolari) per un primo confronto sull’eventuale redazione di una “Dichiarazione d’intenti” analoga a quella approvata, nel gennaio del 2010, dalla commissione mista del Triveneto. Dopo alcune parole introduttive del vescovo di Saluzzo, mons. Giuseppe Guerrini, incaricato per la VC, e dopo il saluto dei presidenti nazionali Cism e Usmi (don Alberto Lorenzelli e madre Viviana Ballarin), p. Pier Luigi Nava, monfortano, della presidenza nazionale della Cism, ha approfondito il tema di una “nuova cultura” nei rapporti tra Chiesa locale e VC.
La tematizzazione di questo rapporto, ha esordito, è piuttosto recente. Si è sviluppata a partire soprattutto dalla Ecclesiologia di comunione del Vaticano II. «Quando la Chiesa universale prevaleva fino al punto che la Chiesa locale era appena riconosciuta come entità geografica, ha detto rifacendosi a una riflessione di p. Gerardo Cardaropoli, i religiosi si trovavano pienamente a loro agio, perché erano a servizio della Chiesa universale. Adesso invece che la Chiesa locale non solamente è stata riscoperta, ma ha prevalso sulla Chiesa universale, essi si trovano disorientati non essendo inseriti pienamente nella Chiesa locale e essendo diminuito il loro impatto sulla Chiesa universale».
Anche secondo p. Tillard, grazie al concilio, le comunità religiose hanno potuto «prendere coscienza del vero significato della loro appartenenza alla Chiesa di Dio, della loro autentica “comunione” con il popolo di Dio». Per essere in una Chiesa «non basta lavorare per essa. Bisogna vivere di essa».

Le inascoltate “Mutuae relationes”


Se è stato possibile instaurare rapporti autentici di comunione e di collaborazione con vescovi, sacerdoti e laici, lo si deve, almeno in parte, anche alle stimolazioni di un documento come Mutuae relationes (1978), sicuramente il più impegnativo sul nostro argomento. Purtroppo le lucide chiarificazioni di questo testo, ha commentato p. Nava, «non sempre sono state ascoltate fino in fondo». Nonostante tutti i bei documenti postconciliari sulla VC, anche per quanto concerne il rapporto tra Chiesa locale e VC, sopravvive ancora oggi una “situazioni di stallo” che «non può essere banalmente imputabile né a presunte sopraffazioni da una parte né a sistematiche latitanze dall’altra».
Il più delle volte il rapporto VC e Chiesa locale continua ad essere di «buona vicinanza e di cordiale collaborazione». Ci si pensa sostanzialmente l’uno di fronte all’altro, senza cogliere l’importanza di «una reciproca appartenenza, quella cioè, come aveva osservato il card. Martini, della comunità religiosa che è Chiesa con la Chiesa locale, e quella della Chiesa locale che si realizza anche attraverso i consacrati».

Quando la inutilità della VC è di sapore prettamente evangelico, serve a poco rammaricarsi, come è stato fatto in occasione del secondo Sinodo dei vescovi sull’Europa, del fatto che alla VC non sia stato riservato un adeguato riconoscimento nei documenti ufficiali della Chiesa. «Noi consacrati/e, aveva scritto nel 2000 p. Agostino Gardin, già segretario del dicastero vaticano per la VC e attuale vescovo di Treviso, non siamo più “dentro la Chiesa” perché figuriamo maggiormente nei suoi documenti (o negli Annuari pontifici), ma perché viviamo più fedelmente il Vangelo e lo testimoniamo con più intensità. Ciò che ci deve preoccupare maggiormente non è un certo mancato protagonismo di tipo esteriore, più facilmente riconosciuto dalla Chiesa ufficiale. Si tratta di essere protagonisti in senso evangelico, prima ancora che ecclesiale o ecclesiastico» .

Una volta che la VC è diventata consapevole dell’importanza delle relazioni umane, spirituali e pastorali della Chiesa del nostro tempo, non ci si può più estraniare, non ci si può più ripiegare su di sé. Anche la VC «va riscoperta nella sua originaria relazione alla comunità cristiana in cui è chiamata ad essere leggibile e credibile». Un carisma riconosciuto e approvato, infatti, «non è mai autoreferenziale, bensì si legittima nella propria originaria relazione con la Chiesa e nella Chiesa». L'insistenza sul recupero delle radici carismatiche non dovrebbe mai distogliere dalla presa d’atto che esse «affondano e crescono in un terreno comune a ogni comunità ecclesiale».

Le responsabilità dei consacrati

Gli istituti di VC, nella relazione ecclesiale, hanno oggi una grande responsabilità, quella di «produrre un servizio qualificato e significativo più per la capacità di provocare domande alla comunità dei credenti che per la pretesa di assolvere al ruolo di distributori di servizi». Ora, provocare domande significa «sapersi allenare a rispondere alle reali aspettative delle comunità ecclesiali secondo le proprie possibilità». Se la VC, infatti, «venisse meno a questa capacità di pro vocazione, si attenuerebbe non poco la sua testimonianza profetica», con il rischio reale di diventare una “profezia di retroguardia”.
Interrogarsi oggi sulla propria identità a partire dal carisma fondazionale «significa anche farsi interpellare dalle domande della Chiesa che aspettano una nostra risposta». Un’autentica relazione ecclesiale non può prescindere da «un reciproco riconoscimento tra i diversi soggetti ecclesiali (Chiesa locale, parrocchie, movimenti, altri istituti di VC, ecc.) che insieme individuano e insieme rispondono alle domande». Una relazione ecclesiale non può semplicemente cercare di “farsi spazio” per rimanere significativa e creativa. Dovrebbe piuttosto «sottrarsi alla tentazione di un omologante conformismo su modelli e stili di presenza, che alla lunga celano scarsa significatività ecclesiale». Forse oggi il “vero problema” è proprio quello di riuscire a proporsi come “alternativa credibile” nel medesimo spazio ecclesiale. L'alternativa non si gioca solamente assumendo nuove proposte o servizi “di frontiera”, ma, in modo ancor più impegnativo, «nel rendere nuove anche le proposte tradizionali».
Secondo p. Nava, la presa di coscienza di una ecclesiologia di comunione a livello locale e quindi la progressiva accentuazione della diocesanità ecclesiale, dovrebbe essere una “strada di non ritorno”. La diocesanità, infatti, è una nuova “visione di Chiesa” anche se i suoi effetti sono ancora in parte da verificare. Va anche preso atto che oggi nella Chiesa locale si confrontano, insieme a quella della VC, anche altre “visioni”, fino a fare della Chiesa locale un vero “crocevia” di soggetti ecclesiali ognuno dei quali, è portatore di una sua specifica “visione”.
Potrebbe quindi succedere che l’offerta dei consacrati incroci o forse anche si scontri con le offerte degli altri. Non solo. L’offerta dei consacrati, da qualcuno potrebbe essere percepita non solo “una delle tante”, ma forse anche «non sempre la migliore o più affidabile», anche perché «deleghe in bianco nessuno è più disposto a sottoscriverle». La pluralità dei soggetti ecclesiali inevitabilmente «postula non solo una qualificazione dell’offerta – dimensione scontata – quanto di affidalibilità». Oggi, cioè, si è disposti anche a rischiare, a condizione che i patners siano affidabili. L’affidabilità, infatti, è un patrimonio di valori in cui si coniugano credibilità, professionalità, esperienzialità.

La condivisione dei progetti

Anche la VC non può rinunciare a rendersi “proposta desiderabile” agli occhi di tutti gli altri interlocutori ecclesiali. Anzi, dovrebbe investire sempre di più in fatto di relazione «nella consapevolezza che la pluralità dei soggetti ecclesiali ha ridisegnato la mappa della stessa interazione ecclesiale, i cui impatti sul “sistema Chiesa locale”, sono ormai sotto gli occhi di tutti».
Dopo aver chiarito i criteri di verifica e di valutazione di una “cultura della relazione”, e cioè la ricollocazione “locale” della VC, l’investimento delle risorse che qualificano il servizio dei consacrati, la flessibilità nel sapersi adattare alle situazioni di emergenza, la scadenza di un progetto, riferendosi a quest’ultimo aspetto p. Nava ha osservato che questa mentalità e questa prassi faticano non poco a decollare in Italia. Infatti, «tutte le volte che si apre una nuova comunità sembra che sia in una prospettiva atemporale, o se si preferisce, a tempo indeterminato». Ci si dovrebbe invece convincere che «determinare la scadenza di un progetto – rinnovabile nel caso – non significa oggi renderlo precario, bensì sostenibile». L’istituto, in questo modo, verrebbe posto non solo nelle condizioni di rispettare gli impegni presi, ma, al momento della scadenza, sarebbe libero «di non prenderne ulteriormente, qualora si verificassero situazioni non più rispondenti al progetto».
Anche la VC non dovrebbe mai rinunciare sia a pensare che a progettare il suo rapporto con la Chiesa locale. «Pensare e progettare è un binomio che si esplicita nel dare nuovo senso alla presenza dei consacrati». Va da sé che tutto questo comporta un cambiamento di mentalità. Non è per nulla facile «porre oggi le condizioni per saper gestire domani situazioni forse tendenzialmente irreversibili (invecchiamento, calo di vocazioni, decessi…) e, soprattutto, per saper rispondere a nuove domande socio-ecclesiali».
La semplice condivisione di un progetto, vissuta nell’ascolto reciproco e in un dialogo leale, pone in essere un atteggiamento di apertura mentale, grazie al quale, nel progettare la propria presenza, diventa possibile «partire dal punto di vista della Chiesa e non solo dal nostro esclusivo punto di osservazione». Un progetto condiviso, se non viene accompagnato, sollecitato, valutato in itinere ... e realizzato in stretto coordinamento tra la Chiesa locale, i suoi organismi e l’istituto, «rimane un confortante esercizio cartaceo».
Mentre, però, a volte si guarda con eccessiva fiducia a presunte novità, «con troppa disinvoltura si accantonano idee, progetti, iniziative che – per incidenti di percorso della più svariata origine – sono stati affossati, quando possono ancora costituire delle chances sia per la Chiesa locale sia per l’istituto». L’esperienza insegna che forse «prima di inseguire innovazioni gestite con improvvisazione, è più coraggioso riprendere progetti che mantengono ancora valido il loro senso istituzionale ed ecclesiale».
Se si vuole, inoltre, recuperare in affidabilità e soprattutto rafforzare una soggettività ecclesiale che faciliti il dialogo e l’intesa a livello nazionale e locale, è necessario superare la “frammentazione rappresentativa” della VC troppo spesso contrassegnata da una “selva di sigle”. Tutto questo, conclude p. Nava, «comporta una volontà non velleitaria di convergenza tra gli stessi consacrati, un pensare che ci mette al muro delle nostre responsabilità e soprattutto della Chiesa». Si tratta, in altre parole, di attivare una prassi di comunione, di fondere gli orizzonti della Chiesa locale e della VC, in modo da favorire «il senso della vocazione all’universale della VC e dei suoi carismi nella poliedrica varietà della Chiesa locale».