La vita consacrata apostolica, come tutta la vita cristiana ha dovuto e
continua tuttora a fare i conti con il processo della modernità e della
postmodernità, caratterizzato in modalità diverse sia dalla secolarizzazione che
da un ritorno del sacro, non privo di ambiguità. È possibile ancora nel nostro
tempo parlare di vita apostolica nel suo significato biblico, cristologico ed
ecclesiale? È possibile concepirsi “inviati” da Cristo, per mezzo della Chiesa,
nella forza dello Spirito, attraverso l’appartenenza ad un concreto istituto di
vita consacrata, dunque come realizzazione di un progetto donato? Infatti, uno
dei tratti fondamentali della modernità è l’autonomia del soggetto e
l’affermazione dell’uomo come libertà e autodeterminazione. In un contesto del
genere, si può essere anche oggi apostoli di un uomo che ha detto: «io sono la
via la verità e la vita» (Gv 14,6)?
Chiamati personalmente da Dio
Una delle riduzioni ricorrenti mi sembra individuabile nella tentazione di
emancipare il termine “apostolicità” dal suo significato cristologico,
rendendolo plausibile ai paradigmi del pensare contemporaneo, per esempio
rileggendolo in chiave di impegno etico e di dedizione per un determinato valore
morale che anche la coscienza autonoma (Kant) potrebbe riconoscere come
positiva, come ad esempio una sensibilità filantropica, la promozione umana,
solidarietà, ecc. Ovviamente queste parole sono assai importanti, ma da sole non
sono in grado, a mio parere, di fondare una scelta di vita totalizzante ed
irreversibile. In un lavoro di volontariato ognuno sceglie il proprio ambito e
come tale è giustamente revocabile. Nell’assumere la vita apostolica occorre non
appartenere più a se stessi (cf. 1Cor 6,19). La vita apostolica implica l’idea
di una chiamata positiva da parte di Dio, che come tale afferra la totalità
della persona, in modo irreversibile. Credo che la personalità del religioso o
della religiosa di vita apostolica possa svilupparsi e approfondirsi nella
misura in cui perviene a una percezione esistenzialmente positiva del proprio
essere mandato.
In questo senso occorre domandarsi: «quale relazione tra il proprio io e il
compito apostolico?». Assumere un mandato è sempre anche accettare la sfida di
un compito specifico. Devo accettare di avere una certa “parte” da svolgere.
Nessuno può decidere ultimamente la propria missione; la si può riconoscere,
accogliere e corrispondervi creativamente. Nessuno può inviare se stesso. Tutto
ciò si può certamente vivere con fede e così scoprire che questo “particolare”
diventa il punto in cui la mia vita partecipa ad una missione che è senza
confine; tuttavia, può avere un certo carattere frustrante o alienante. Solo
quando il “ruolo”, il compito è scoperto come missione personale, allora lo si
può veramente abbracciare con tutta la libertà, con tutto il desiderio.
Nessuno come Gesù ha vissuto questo essere voluto dal Padre, mandato dal Padre.
Per Gesù avere coscienza di sé vuol dire avere coscienza di essere mandato, cioè
avere coscienza del Padre. Quello che fonda veramente la vita è la coscienza del
Padre, di essere dal Padre, mandato da Lui. Nel Vangelo c’è una frase di Gesù
che esprime molto bene questo: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha
mandato» (Gv 4,34). Normalmente, quando uno fa la volontà di un altro si aliena
perché deve assumere il ruolo che un altro gli dà. Invece, quando Gesù parla
della volontà del Padre come del proprio cibo è come se dicesse: più faccio la
volontà del Padre e più io sono me stesso, più io mi compio, mi realizzo, più la
mia statura umana si profila dentro la storia secondo il disegno del Padre
stesso. Gesù è consapevole di essere colui che ha ricevuto da Dio la sua eterna
definizione: «Questo è il mio Figlio prediletto, ascoltatelo» (Mc 9,7). Gesù sa
di essere il Figlio e sa qual è il suo compito: è la missione che il Padre gli
dà da compiere, mediante la quale si compie il disegno divino sul mondo. Allora
la sua persona e la sua missione semplicemente coincidono. Ogni avvenimento,
ogni incontro nella vita di Gesù è vissuto alla luce di questo rapporto con il
Padre: la persona che incontra, la peccatrice, il malato, l’evento, anche il
rifiuto. Tutto questo è guardato nella prospettiva del Padre. Perciò il rapporto
con il Padre non è qualcosa che sta al di fuori della realtà, ma è la luce con
la quale leggere ogni avvenimento. Il rapporto che Gesù ha col Padre è la luce
che gli permette di cogliere in ogni provocazione della realtà la missione che
deve compiere.
In questa prospettiva mi sembra che per evitare il rischio di ridurre la
vocazione apostolica a volontariato assistenziale occorre che la persona del
consacrato viva profondamente una antropologia filiale (cf. VC 18.65-69), in cui
scoprire se stesso ed il proprio vero volto nell’accogliere la missione che
viene da Dio attraverso le “mediazioni umane” della sua volontà (cf. Faciem tuam,
9-11). In tal senso scoprire la volontà di Dio attraverso la propria storia,
obbedire alla missione scoperta mediante il carisma del proprio istituto, vuol
dire scoprire se stessi, nel proprio essere figli e figlie del Padre in Cristo:
vivere l’apostolicità della nostra vita ci personalizza pienamente e ci permette
di assumere concretamente gli incarichi non in modo alienato o frustrato ma in
modo responsabile e creativo, mettendo in gioco tutto noi stessi, le nostre
facoltà, nell’essere per il regno dei cieli.
Tra azione e contemplazione
Da qui discendono molte conseguenze che possono andare a costituire
significative polarizzazioni. Vivere l’apostolicità della propria missione per
il consacrato vuol dire certamente un modo di comprendere la dimensione
operativa e quella contemplativa della propria esistenza, tra il rimanere presso
il mistero di Dio ed il lasciarsi inviare nelle diverse circostanze
dell’attività apostolica. Credo che il nostro tempo contrassegnato peraltro da
un facile iperattivismo, caratterizzante a volta anche la vita apostolica, ha
bisogno di ripensare il proprio equilibrio.
Da una parte si può essere sopraffatti dalla attività apostolica, perdendo ogni
ritmo di vita spirituale, arrivando fino ad una percezione funzionale della
propria azione, determinata da una logica di “risultato” e di “esito” che
mettono a rischio l’integrità personale. In genere questa tentazione, anche per
motivi psicologici che non vogliamo in questa sede menzionare, tende ad
autoalimentarsi in modo da formare una vera spirale che sembra non potersi più
arrestare. Tale anomalia genera una incapacità a trovare “riposo in Dio” e tende
a costruirsi forme parallele di esistenza compensativa delle fatiche
apostoliche.
Dall’altra arte troviamo invece il tentativo di comporre la propria vita
cercando di difendere spazi personali di rigenerazione e di vita spirituale. Per
fare un esempio, si può pensare a un modello “ricarica batterie”, in cui la
persona si lancia nell’azione per poi rimettersi “in carica” nei momenti liberi,
attendendo la prossima attività apostolica. Credo che la scoperta della vita
come missione apostolica debba farci imparare un più profondo equilibrio
spirituale ed una più profonda unità di vita, sia nella contemplazione che
nell’azione. Infatti, l’idea che la missione consumi o “scarichi” la persona
indica già un difetto di comprensione del rapporto tra missione e persona.
In realtà lo svolgimento della propria azione dovrebbe essere il luogo in cui si
è, giorno dopo giorni, introdotti a un rapporto sempre più profondo con il
mistero di Cristo nella relazione filiale con il Padre. L’esaurirsi nell’azione
mette in evidenza come la stessa azione possa essere intesa in senso
personalistico e autoreferente. In tal modo anche l’esecuzione dell’attività
apostolica diviene luogo del rinnovato incontro con il Signore che ci chiama a
servirlo nelle circostanze della vita quotidiana. In tal senso in un sano
equilibrio tra ricezione ed esecuzione della missione la persona dovrebbe
acquisire uno spessore di vita spirituale più intenso proprio nel vivere la
apostolicità della propria forma di vita: polo ricettivo e attivo della missione
si richiamano vicendevolmente e contribuiscono alla crescita personale del
soggetto.
Azione apostolica comunitaria
Nella stessa prospettiva possiamo segnalare un’ultima polarizzazione che può
caratterizzare teologicamente la persona consacrata di vita apostolica. Mi
riferisco al carattere individuale e comunitario della propria azione. Qui
certamente, come per gli altri elementi, il carisma di appartenenza fornisce
sensibilità e riferimenti importanti per vivere con frutto questa polarità. Qui
ci limitiamo a richiamare l’essenziale. Vi possono essere carismi che
sottolineano maggiormente l’aspetto comunitario della vita apostolica e altri
meno. In ogni caso, in un tempo come il nostro, è necessario che la vita
apostolica dia testimonianza della capacità di vivere con frutto tale polarità.
Non dobbiamo negare che il nostro tempo conosce individualismi sia
nell’espletamento della funzione apostolica pubblica, sia nella vita personale e
privata. Non mancano esempi di attività apostolica in cui al centro sta solo la
propria individualità con una certa fatica a condividere la propria
responsabilità con altri confratelli o consorelle. Allo stesso modo, la vita
personale, di contemplazione o di riposo a volte può assumere caratteri quasi
privati che si sottraggono alle relazioni comunitarie dell’istituto.
Anche qui un’antropologia filiale della missione apostolica mi sembra possa
aiutare a trovare un interno equilibrio. È vero che la missione è veramente
unica per ciascuno, come unica è anche la vita di ogni persona. È altrettanto
certo, però, che questa missione è possibile in quanto siamo collocati
all’interno del corpo di Cristo, della comunione ecclesiale e in una trama di
relazioni di appartenenza carismaticamente qualificati. In tal senso il problema
si gioca non tanto nella divisione delle responsabilità delle proprie opere
apostoliche ma fondamentalmente in una formazione adeguata alla vita consacrata
che sappia far scoprire l’appartenenza come luogo della persona chiamata alla
comunione con Dio e con gli altri. In tal modo l’azione apostolica potrà
svolgersi in forma più personale o più comunitaria, a seconda delle circostanze
o delle accentuazioni carismatiche, ma in ogni caso mostrerà che siamo figli e
figlie, fratelli e sorelle in Cristo. Proprio attraverso l’attività apostolica,
allora, sarà possibile incrementare la comunione e le relazioni umane nelle
quali ciascuno è veramente se stesso proprio perché impara a viver per un altro.