Nello scorso mese di settembre, durante l’annuale convegno della vita
consacrata in Lombardia, che si è tenuto a Triuggio, grande interesse ha
suscitato la relazione di Fr. Gianni Dal Piaz osb cam sull’andamento,
sociologicamente rilevato, della presenza delle religiose in Lombardia in questi
ultimi 50 anni. Il dato più shoccante emerso, analogo del resto a quello di
altre zone geografiche del nostro paese, è che dal tempo del concilio fino ad
oggi, si è avuto un calo netto del 50%, accompagnato dall’aumento esponenziale
delle età. La lettura ha messo in evidenza anche i problemi, le incertezze e le
difficoltà incontrate nel corso di tutti questi anni, ma nello stesso tempo
anche le nuove prospettive con cui guardare oggi al futuro.
Senza dubbio, la realtà descritta sembrerebbe poco incoraggiante e tale da
indurre, per così dire, a tirare i remi in barca. Ma ciò significherebbe essere,
evangelicamente, uomini di poca fede. La convinzione emersa dal convegno è stata
invece quella di accogliere con rinnovato coraggio e serenità l'invito di Gesù a
"riprendere il largo". Sulla sua Parola, ha sottolineato fr. Dal Piaz, dobbiamo
rinfrancare le nostre insicurezze e procedere. Abbiamo in mano la ricchezza dei
nostri carismi che possiamo giocare nell'oggi: non partiamo quindi da zero ma
abbiamo bisogno di ritrovare il coraggio di una lettura nuova, di un impegno
creativo che chiama in causa il desiderio e l'attuazione di un lavoro
comunionale. Insieme siamo chiamati a leggere che cosa il mondo e la società di
oggi domandano a chi, nel nome dei Signore, si impegna ad "accogliere e donare"
(Mt 10,40-42) mettendo a disposizione tutta la sua vita.
Prossimità e distanza all’interno della Chiesa
Fr. Gianni Dal Piaz, ha affermato che la vita consacrata è spesso nella chiesa
locale una presenza evanescente o forse, a volte, una presenza assente, quasi il
suo esserci o non- esserci sia ininfluente o marginale ai fini della pastorale.
Dalle risposte a una riflessione proposta dalla "Commissione mista vescovi,
religiosi, istituti secolari" emerge infatti nitida la sfasatura fra criteri di
comunionalità ampiamente asseriti e condivisi e relazionalità quotidiana molto
meno comunionale e molto più problematica. Da parte delle diocesi si evidenzia
come i consacrati tendano ad essere dei mondi a sé, pur essendo a pieno titolo
presenti nell'azione pastorale delle parrocchie e riconoscendone il grande
contributo in termini di testimonianza e di servizio. Da parte loro i consacrati
ripropongono, per l'ennesima volta, l'immagine di un clero che mentre apprezza
il loro servizio poi ne trascura o sottovaluta le motivazioni spirituali e
carismati¬che.
È una situazione nella quale c’è contemporaneamente prossimità e distanza,
collaborazione e affermazione delle reciproche autonomie. È il riflesso di
quella trasformazione in atto che sta radicalmente modificando la fisionomia e
il modello di presenza territoriale della chiesa italiana. I fattori in
movimento sono molteplici e ciascuno di essi influenza tutti gli altri. Una
buona rappresentazione delle trasformazioni in atto viene da quella che
comunemente chiamiamo "crisi delle vocazioni".
È una crisi che va accentuandosi dopo quasi un secolo di crescita ed espansione.
Nel 1871 le religiose (incluse le comunità claustrali sopravvissute alla
soppressione napoleonica del 1866) erano 297.073, nel 1901 arrivano a 40.250
(+35%) e poi la crescita continuerà sino a toccare nel 1971 la punta massima di
154.790 religiose (di cui circa il 10% monache). Successivamente le vocazioni
cominciano a diminuire, dapprima lentamente e poi via via in modo sempre più
evidente e persistente. Dal 1971 al 2008 le religiose calano del 39%, arrivando
a 95.011, i religiosi nello stesso arco temporale calano del 32%.
All'interno di tale quadro generale si colloca anche la realtà lombarda:
nell'arco temporale che va dal 1959 al 2008, netta è la diminuzione tra i
consacrati: -12% per i religiosi e -50% tra le religiose.
Segni comuni a tutta la VC
In una recente inchiesta è stato evidenziato come l'orientamento per scelte di
vita caratterizzate da un forte impegno ecclesiale (quali sono la VC o il
presbiterato) non compaia nell'orizzonte delle possibili opzioni esistenziali
dei giovani e ancor meno tra le aspettative delle famiglie nei confronti dei
figli. Tra noi e i giovani si sta scavando un fossato per passare il quale non
sappiamo costruire ponti.
Il difficile ricambio generazionale indotto dalla scarsità di nuove vocazioni ha
già da alcuni anni convinto le Congregazioni che è necessario ragionare su come
attuare una inevitabile chiusura di comunità e opere. Ordinariamente nel
linguaggio comune “futuro” è sinonimo di speranza, di rinnovamento, di
realizzazione. Che futuro è mai quello nel quale si parla di chiusure,
ridimensionamenti, invecchiamento, declino? Sono obiezioni che hanno un
fondamento nella realtà, ma sono anche espressioni di un implicito, di un non
detto con il quale dobbiamo confrontarci.
Se umanamente si comprende il desiderio di durata, e lo smarrimento nel vedere
che per tante attività, in se stesse buone e positive, non ci sarà possibilità
di continuità, il/la religioso/a educato/a dalla fede in Gesù sa che in questo
ragionare "umano", troppo umano, manca l'affidamento al suo Signore. Cosa c'è di
più strano dopo una nottata nella quale non si è pescato nulla, sentirsi dire di
andare al largo e gettare le reti? Eppure Simone risponde: "Sulla tua parola
getterò le reti".
La domanda vera, fondamentale, alla quale siamo chiamati a dare risposta non è
quella di come garantire la continuità delle opere, ma è: "Qual è il massimo di
bene, in termini di testimonianza e annuncio, che oggi possiamo fare con le
risorse umane attualmente disponibili?"
Nel futuro la VC non sarà quella che abbiamo conosciuto e nella quale operiamo.
Molteplici segni ci dicono che sta finendo un ciclo della VC e nello stesso
tempo sta germogliando qualcosa di diverso per struttura organiz¬zativa,
numerosità e ampiezza delle comunità, presenza territoriale.
Legami deboli con il territorio
È nell'individuare quel "massimo di bene" che si colloca lo spazio per il
dialogo ecclesiale, che vuol dire dialogare, confrontarsi, riflettere insieme
con i vescovi, con il clero, con i laici. Non basta che ogni istituto religioso
elabori un suo proprio progetto con una specifica articolazione di eventuali
presenze ecclesiali, ma è necessario che sappia comunicarlo facendone partecipi
la diocesi e la comunità cristiana che si trova a contatto con la comunità
religiosa.
La vita consacrata deve fare i conti con un legame sempre più debole con il
territorio. Ne è puntuale riprova la conoscenza scarsa e frammentaria che ne
hanno preti e laici. Quando va bene religiosi e religiose vengono ad essere
identificati con l'opera o con il "fare" di una comunità. Ne viene una
conoscenza imprecisa e inevitabilmente parziale. È come se la comunità religiosa
fosse un edificio avvolto dalla nebbia: se ne vedono i contorni, si sa che
esiste, ma sfuggono i particolari e l'architettura può risultare misteriosa o
difficilmente accessibile. C’è chi lamenta una scarsa disponibilità e
convinzione da parte della Chiesa ad assumersi l'impegno per una più adeguata
conoscenza dei consacrati. Altri pensano che sia la stessa vita consacrata ad
essere poco significativa, qualitativamente povera e ripetitiva, legata a forme
tradizionali e obsolete di presenza. Non mancano poi coloro che ritengono siano
gli istituti stessi a trasmettere di se stessi un'immagine offuscata, poco
dinamica, interessata e preoccupata più a ragionare di chiusure e
ridimensionamento che ad attuare forme nuove di presenza, là dove oggi più
necessario è condividere, accompagnare, portare la buona notizia e sostenere una
speranza affidabile tra la gente.
La perdita di incisività sociale delle opere fa sì che sempre meno trasmettano
il messaggio di una scelta di frontiera. Infatti parlando delle opere gestite
dai consacrati, spesso si tende a sottolinearne la qualità strutturale, le
capacità degli insegnanti, la novità tecnologica delle attrezzature, ecc. più
che il loro essere testimonianza della centralità di Cristo.
Sta cambiando il modello organizzativo
Accanto a questo processo che viene a modificare la presenza e la
percezione/rappresentazione sociale dei consacrati, si sta trasformando il
modello organizzativo della presenza territoriale della Chiesa.
Per quanto riguarda la società essa non è più culturalmente omogenea, fondata su
relazioni interpersonali caratterizzate da fedeltà, durata, prevedibilità dei
comportamenti. In tal senso la sua identità si è indebolita. Più che la
tradizione, la stabilità, la continuità nel tempo, si apprezzano la mobilità, la
flessibilità, il pluralismo di culture che accettino di confrontarsi. È una
trasformazione che inevitabilmente attraversa anche gli ambienti ecclesiali: sta
modificando i soggetti tradizionali dell'azione pastorale (parrocchie, opere,
associazionismo) e alimenta la nascita di nuovi movimenti, nuove forme di vita
consacrata. È un mutamento che si confronta con una diffusa domanda di
religiosità meno interessata all'aspetto dogmatico e molto più sensibile al
fascino dell'esperienza interiore, del mistero, dell'incontro con il sacro.
Sguardo al futuro che pare incerto
Il mare aperto del futuro spesso ci intimorisce. Così come accade agli anziani,
ci si trova a ragionare piuttosto del passato (il nostro carisma, la tradizione
di impegno apostolico…) e a lamentarsi del presente (l'invecchia¬mento, la
scarsità delle vocazioni, il destino delle opere…). Il futuro ci risulta incerto
non perché in esso ci si aspetti di iniziare una esperienza nuova rimettendo in
gioco energie, potenzialità, presenze, ma molto spesso in ragione del fatto che
ancora non sappiamo quali case dovremo chiudere e fino a che punto si riuscirà a
restare sulla breccia. Si tratta allora di uscire da una specie di
individualismo istituzionale, autoreferenziale e riuscire a pensarsi in una
relazionalità aperta e collaborativa con tutta la realtà ecclesiale. Il cammino
per una effettiva comunione esige umiltà e pazienza, perché non è solo una
questione organizzativa, ma anzitutto è espressione di una reale conversione, di
un cambiamento di mentalità e stile di presenza.
Nei prossimi 20-30 anni tutta la Chiesa italiana dovrà fare i conti con un
ripensamento dei modi e delle forme della propria presenza pastorale anche
perché già da ora non vi sono le risorse umane (vocazioni) per garantire
continuità a quanto oggi si fa. E anche le risorse del laicato non sono
infinite. Nello stesso tempo dovremmo fare i conti con una società che risulterà
sempre più visibilmente multi-religiosa.
Sono sfide per le quali sarebbe illusorio presumere di riuscire a trovare linee
di risposta che non passino attraverso una comune e condivisa analisi della
realtà e ad una coordinata azione pastorale. Il realismo dell’analisi non deve
paralizzarci ma orientarci, sollecitandoci a guardare serenamente al domani e a
realizzare con coraggio l’invito di Gesù a “riprendere il largo”.