«In passato quando la società era cristiana, la vita dei Religiosi aveva uno
speciale valore simbolico a riguardo della vita secondo il Vangelo dei cristiani
nel mondo. Ma nel mondo attuale non è più naturale essere cristiani». Dicendo
questo il noto teologo Schillebeekx metteva in evidenza la mancanza di premesse
e supporti vocazionali, conseguente alla più profonda e vasta crisi di
cristianità.
Che cos’è cambiato? Metto qui in evidenza alcune «attenzioni», che in qualche
modo hanno a vedere con la vita consacrata.
È cambiata la società
Un tempo la società evolveva proponendo questioni nuove, oggi invece si presenta
come un qualcosa di totalmente nuovo, e la cultura che esprime è inedita.
Totalmente nuovo è il rapporto individuo-società, sia esso lo stato, la Chiesa o
altra istituzione. Non so se ci si rende conto – scrive N. Bobbio – sino a che
punto la «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo» (1948) rappresenti un
fatto inedito nella storia. Per la prima volta avviene l’inversione del rapporto
fra individuo e istituzione e in tal modo viene invertito anche il rapporto
tradizionale tra diritto e dovere. Con una metafora usuale si può dire che
diritto e dovere sono come il diritto e rovescio di una medaglia. Ma qual è il
diritto e il rovescio? La medaglia dell’etica era stata tradizionalmente
guardata dalla parte dei doveri più che da quella dei diritti. Non è difficile
capire perché. Il problema etico è stato considerato originariamente dal punto
di vista della società più che dell’individuo. E non poteva essere altrimenti:
ai codici di regole di condotta è stata attribuita la funzione di proteggere il
gruppo nel suo insieme piuttosto che proteggere l’individuo. Nel corso del
pensiero storico ha prevalso per secoli il primo punto di vista che è quello di
chi governa, sia in campo civile che religioso. Presupposto era la concezione
organica, secondo cui la società è un tutto e il tutto è al di sopra delle
parti. Già nell1988 il card Walter Kasper allora vescovo di Rottenburg-Stuttgart,
scriveva alla sua diocesi: «i diritti dell’uomo costituiscono, al giorno d’oggi,
un nuovo ethos mondiale», e questo lo ha espresso prima ancora che la
Dichiarazione dell’89 dicesse (art. 2) che «lo scopo di ogni aggregazione
sociale è la conservazione dei diritti naturali e imprescindibili dell’uomo» che
non ledano quelli dell’insieme. E tutto questo non solo in campo civile ma anche
religioso. Il documento della pontificia commissione Justitia et pax, intitolato
la Chiesa e i diritti dell’uomo, comincia così: «il dinamismo della fede che
spinge continuamente il popolo di Dio alla lettura attenta ed efficace dei segni
dei tempi, non può far passare in secondo piano la crescente attenzione che in
ogni parte del mondo è rivolta ai diritti dell’uomo». Con il definire questo
«rovesciamento» segno dei tempi si intende dire che tutto ciò non viene dallo
spirito del tempo, cioè del mondo, ma da Colui che guida la storia.
Evidentemente questa inversione è un fatto inedito nella Chiesa la quale ha
avuto per secoli difficoltà a riconoscere i diritti dell’uomo almeno fino alla
metà del sec. XX. Si pensi agli atteggiamenti di precauzione e talvolta ostili
di Pio VI, Pio VII e di Gregorio XVI. Dunque oggi sono esigiti nuovi modi di
essere all’interno di ogni tipo di società, per cui tutte le istituzioni non
sintonizzate su questa lunghezza d’onda difficilmente saranno attrattive.
Sono cambiati i punti di riferimento
Un altro epocale cambiamento è avvenuto perché sono mutati radicalmente i punti
di riferimento del pensiero: sulla razionalità filosofica, umanistica e sulla
cultura storica, è prevalsa la logica e cultura tecnica, il cui scenario è
qualitativamente diverso. La tecnica non è più soltanto qualcosa di funzionale
di cui servirsi, è una vera e propria logica che ha così finito per impadronirsi
del pensiero, per farlo ragionare in termini di funzionalità ed efficienza.
È cambiato inoltre da parte della gente il modo di percepire la Chiesa, tanto da
far dire al card W. Kasper che «per molti oggi la chiesa nella sua forma
concreta rappresenta più un impedimento che un aiuto alla fede». C'è il problema
di un messaggio dai toni spesso allarmati che evocano una battaglia incessante
contro le «tenebre» della modernità. Messaggio che «dopo aver premuto in modo
moralistico e unilaterale su alcune realtà, adesso per la legge del pendolo, ha
portato alla cultura dell'esatto opposto» (Rupnik) La gente non ama che la
Chiesa si presenti con atteggiamenti e paludamenti (eccetto il grembiule) di
altre epoche. E non ama i linguaggi percepiti come invasione di parole, luoghi
comuni, teorie che Vinicio Albanesi definirebbe, con un paradosso,
«teologicamente perfette e cristianamente inutili». Sono poi molti anche coloro
che così di rado sentono affiorare quel sentimento della carità nel senso
profondo del termine, nelle prese di posizione ufficiali della Chiesa tutta
impegnata a difendere dettami giuridici. La gente ama invece «una Chiesa che
ascolti prima di parlare, che accolga prima di giudicare, che ami questo mondo
prima di difendersene, che si nutra di creatività piuttosto che di paura, che
sappia annunciare profeticamente piuttosto che accusare» .
Sono cambiati i giovani
Scrive l’assistente nazionale della Fuci: la generazione giovanile attuale è la
prima generazione incredula che sta imparando a cavarsela senza Dio , ritenuto
non più necessario, ma solo accessorio; tutt' al più qualcosa che riguarda
preti, vescovi e teologi. I concetti del catechismo e delle prediche – dicono i
giovani – non hanno molto a che fare con la vita reale la cui modalità
conoscitiva è prevalentemente esperienziale: non si comunica da maestri ma da
compagni di viaggio. Certo ogni tanto qualche quesito di tipo religioso li
attrae, li solletica. «Fenomeno da interpretare: c'è una domanda religiosa con
risvolti utilitaristici che si riconosce sempre meno in una religione ma in una
religiosità che più del gruppo ama la folla la quale offre la possibilità di
sentirsi uniti agli altri, ma allo stesso tempo permette di mantenere la propria
indipendenza» (M. Mariella Malaspina). Per un numero in crescita poi c’è una
religiosità indifferenziata, pluralistica come canta Jovanotti in riferimento ai
giovani: «ho un crocifisso sul mio lettino – e un piccolo Budda sul comodino; –
leggo la Sura del Corano – ed ho anche un piccolo talismano – che mi ha regalato
un amico africano» . Nel contempo, è vero, ci sono anche oggi, e paradossalmente
soprattutto oggi, giovani e gruppi, minoritari, con chiare prospettive
cristianamente ideali quali il bisogno di esperienze di senso, disponibilità
alla condivisione con gli ultimi, esigenza di giustizia, abbandono del
formalismo, l’osare in prima persona, la povertà se in presa diretta con la
carità. Max Weber vede il passaggio dalla religiosità antica alla condizione
della modernità come passaggio dallo sguardo colmo di stupore al disincanto del
mondo. Questo cambiamento ampio e rapido, rende difficili i punti di riferimento
stabili per cui pure le relazioni rischiano di venire assunte come provvisorie,
con riserva, soggette a ripensamento. I giovani sono nel tempo delle tante
possibilità e insieme del molto smarrimento e assenza di certezze. Soprattutto
loro, vivono nei frammenti in rapida successione, con assenza di finalità a
lungo respiro, e con disponibilità di molte risorse ma non altrettante ragioni
di vita a lungo termine . E se un tempo amavano l'eroismo frutto di virtù, ora
preferiscono l'eroismo senza virtù e si muovono non per un insieme di leggi ma
per un insieme di emozioni.
Anche i giovani con sensibilità vocazionale sono all’interno di questo clima
culturale, ugualmente non disponibili a rapporti che non coinvolgano il
sentimento. In particolare sentono che se l’evangelismo non è riscontrabile nei
fatti come buona notizia è soltanto teoria, indottrinamento. Non si impegnano
più verso un codice, una regola scritta o un sistema caratterizzato da scambi
formali specie se difesi dalla maschera del ruolo, ma con persone concrete e
vicine. Ecco perché sono attratti da nuove tipologie di vita evangelica dove
intravvedono la possibilità dell'espressione di se stessi, mentre rifiutano,
pressoché totalmente, quelle dove l'autorità è impositiva (G.Pasquale).
La difficoltà di scelta vocazionale è data anche dal fatto che a differenza di
un tempo ai giovani è prospettata una pluralità di proposte su ogni versante,
che risulta loro irragionevole non provare, di conseguenza ritengono la
provvisorietà fondamentale nella interpretazione della vita. Si trovano di
fronte a un continuo presente senza memoria e timorosi del futuro, un presente
ricco di possibilità, di variabili di volta in volta da utilizzare per il
risultato più alto. Anche quando poi si decidessero per la VR non sposano il
progetto dell’istituzione ma fanno di questa uno strumento per la realizzazione
dei propri sogni. Quando successivamente si accorgono di non avere risposte
sulla linea delle attese se ne vanno, soprattutto se hanno la comprensibile
difficoltà a identificarsi con soggetti sociali che evocano una condizione di
vita svalutata e non appetibile.
Porre mano alle fondamenta
In particolare se la VR vuole incontrare i giovani deve dare risposta ad una
domanda: è in grado di trasferire al futuro l'attenzione che fino ad oggi ha
avuto per la sua storia?
Lo stato di coscienza oggi dominante nella società appartiene solo parzialmente
alla vita consacrata per cui non si sente sfidata ad essere parte viva delle
grandi trasformazioni che il nostro continente sta vivendo. Si ritrova meglio
nel pensare il mondo costruito su codici immutabili, ma la storia di Israele, in
questo veramente sovversiva, parla di un Dio che si rivela nella storia e invita
a fare scelte conseguenti. Da qui «l'urgenza di porre mano decisamente alle
fondamenta – dice p. Timothy Radcliffe – vale a dire al sistema culturale che
l'ha finora caratterizzata aprendosi a nuovi orizzonti di senso» per non
portarsi a offrire di sé un'immagine etico virtuosa sostanzialmente individuale,
incapace di catturare l'interesse e la passione delle giovani generazioni . Per
non fallire nel progetto di «attraversamento» oggi più che mai ha bisogno di
avanzare libera, di svincolare il nucleo centrale dalle sovrastrutture per
riproporre nell'oggi l'essenziale secondo categorie non estranee alla esperienza
culturale attuale e non cedendo alla tentazione di presentare come attuale ciò
che è storico e come divino ciò che è umano. Essenziali sono anche le forme
organizzative: non pesanti, aperte, partecipative.
Il papa nel messaggio per la giornata mondiale delle vocazioni ha detto che è la
testimonianza che suscita le vocazioni, vale a dire che non è l'identità
giuridica imbalsamata a incuriosire ma quella della vita. È solo questa che fa
innamorare e suscitare il desiderio di “vivere così”, diversamente da quel tempo
(che non c’è più) in cui bastava l’appartenenza ad un “venerato” impianto
gerarchico a soddisfare il bisogno identitario della persona. Giovanni Paolo II
legava la fecondità della testimonianza, in particolare alla qualità della vita
fraterna. Ma questa com’è vista oggi dal di fuori? C'è un dire corrente tra i
preti: le comunità religiose sono un luogo adatto alla santificazione
specialmente per le molte occasioni di esercitare tutte le virtù della
sopportazione e del perdono. E quello che colpisce i laici quando vengono a
contatto con gli istituti religiosi è la freddezza che talvolta vi domina, o la
rivalità, o l'assenza di rapporti familiari, di amicizia. E se la fraternità è
al cuore della VR allora l'impegno, non procrastinabile, è di trovare nuovi
modelli di fraternità che rispondano alla concezione della persona ripensata
alla luce dell'attuale cultura, la quale chiede di contemperare la tensione tra
libertà personale e realizzazione della comunità capace di annunciare un tipo di
vita che permetta ad ognuno di assumere le responsabilità alle quali le sue
possibilità e le circostanze lo chiamano . È difficile che venga ritenuta vita
fraterna ciò che è solo una vita di osservanza organizzata in cui prevale
l’aspetto di collettività su quello comunitario-fraterno. Oggi in prospettiva di
un progetto di vita evangelico, la VR ha nei nuovi «soggetti ecclesiali»,
concorrenti di tutto rispetto e molto appellanti non attraverso documenti,
dichiarazioni, teorie ma per la trasparenza di fraternità che esprimono.
Il card. Martini prendendo lo spunto dalla profezia di Gioele riportata in Atti
degli Apostoli, scrive così: «I figli e le figlie saranno profeti significa che
devono essere critici altrimenti verrebbero meno al loro dovere. La generazione
di mezzo, coloro che sono responsabili, avranno visioni, devono saper gestire
progetti sulla linea dell'intravisto come nuovo. E dagli anziani, dai quali non
ci si può aspettare che siano critici e profeti, ci si attende che trasmettano i
sogni e non le delusioni della loro vita, siano capaci cioè di infondere
coraggio, aperti alle sorprese dello Spirito Santo; chiamati a trasmettere sogni
.