Nell’intervista concessa a Testimoni nel numero precedente (4/2011), p. Samir Khalil Samir affermava che l’attuale situazione di fermento che agita gran parte dei paesi arabi non era solo una questione di pane e di libertà, ma anche di religione. Il fatto è, sostiene p. Samir, che l’islam guarda indietro: il suo modello è nel passato, la tradizione è “cristallizzata” a tal punto sul Corano da impedirne proprio la trasmissione) come la intendiamo noi.
Si tratta di un’analisi che merita di essere ulteriormente approfondita. Essa concorda con quanto scrive, per esempio, il quotidiano cattolico francese La croix nel numero del 22 febbraio scorso. Analizzando le ragioni che stanno alla base delle rivolte in vari paesi, il quotidiano scrive che il mondo arabo si trova oggi davanti a delle sfide che potrebbero essere determinanti per un futuro finalmente diverso.
Ci sono almeno sette buone ragioni per sostenerlo e che spiegano la “collera” della gente. Sono popoli più disposti ad accettare passivamente lo status quo imposto da regimi autoritari e corrotti e che chiedono un cambiamento radicale.
Si può parlare di una “primavera araba”?

Rivolta contro i poteri corrotti

La prima ragione delle rivolte è dovuta ai “poteri corrotti” di questi paesi. Siccome si tratta di situazioni comuni, è pertanto realistico pensare a un “effetto domino” destinato a contagiare l’intero mondo arabo. Secondo Bichara Khader, direttore del Centro studi e ricerche sul mondo arabo contemporaneo (Cermac), dell’università cattolica di Lovanio, nessun paese oggi è al riparo da queste rivolte. Nella maggior parte di essi, infatti si riscontrano i medesimi “ingredienti esplosivi” e cioè «un sistema politico sclerotizzato e repressivo, una corruzione generalizzata e l’insofferenza di chi ne ha ormai fino sopra i capelli di una situazione bloccata a tutti i livelli».
Una seconda ragione è la “detestazione degli eredi”, anche se per il momento nei paesi monarchici i sovrani non pare che siano minacciati: «In Marocco c’è un’aspirazione al cambiamento, per questo la monarchia gode di un vero sostegnoۚ», afferma lo storico Mohammed Harbi. Anche «nel Bahrein la monarchia in quanto tale non è messa in questione; ciò che invece viene rivendicato è l’uguaglianza di trattamento per la società sciita che è governata da una dinastia sunnita minoritaria. E, nemmeno in Giordania, secondo lo storico, c’è la volontà di rovesciare la monarchia».
«Al contrario non si sopporta più la tentazione dinastica dei regimi autoritari, in cui il presidente monarca organizza il passaggio del potere alla sua discendenza: è questo il bersaglio diretto della contestazione, come quella contro Gamal Mubarak, considerato il figlio erede dell’ex presidente Hosni Mubarak oppure l’altra contro Seif Al Islam, figlio del generale Gheddafi. Queste confische del potere da parte dei discendenti, osserva lo storico Mohammed Harbi, oggi sono oggetto di condanna.

Una gioventù senza prospettive

La terza ragione della rivolta proviene da una popolazione giovanile che è senza prospettive. «Ci sono dei paesi dove i giovani inferiori ai 25 anni rappresentano il 40% della popolazione. Dal Marocco all’Iraq – scrive Youssef Courbage, ricercatore presso l’istituto nazionale di studi demografici – tutte le nazioni arabe conoscono una crescita notevole dei giovani tra i 18 e i 25 anni che si affacciano sul mercato del lavoro, ma le economie dei loro paesi non sono in grado di creare degli impieghi corrispondenti alla domanda».
La natalità è di molto regredita nel mondo arabo, anche se esistono delle forti disparità fra la Tunisia, dove il tasso delle nascite è paragonabile a quello della Francia, e lo Yemen in cui le famiglie di cinque figli sono la norma. Certi paesi hanno portato a termine la loro transizione demografica e si avvicinano all’Europa, mentre altri la stanno realizzando. «Il mondo arabo conosce un processo iniziato dall’Europa nel XVII secolo», prosegue Youssef Courbage. «I ragazzi e ora anche le ragazze sono usciti dall’analfabetismo, hanno studiato in misura crescente all’università. Inoltre hanno assistito allo svilupparsi dello spirito di contestazione e della secolarizzazione della società, e anche alla messa in questione dell’autorità parentale. Le autorità religiose non hanno che un ruolo marginale». Per questo, le rivoluzioni in corso non sono propriamente delle rivoluzioni dei giovani: tutti gli strati sociali sono scesi nelle strade.

Una classe media impoverita


Una quarta ragione è dovuta alle classi medie istruite che si stanno impoverendo. Una delle recriminazioni è questa: “la vita è cara e i salari sono molto bassi”. «Il mondo arabo, osserva l’economista marocchino Lahcen Achyn, ricercatore presso il Centro Carnegie per il Medio Oriente, ha conosciuto l’emergere di una classe molto istruita, ma non ha potuto prendere l’ascensore sociale, per mancanza di un impiego qualificato». In Egitto, circa il 40% della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno, ossia al di sotto della soglia della povertà fissata dalle Nazioni Unite. Peggio ancora, la classe media di questi paesi che era emersa all’indomani della decolonizzazione, ha visto il suo potere d’acquisto sgretolarsi. Per esempio, i figli dei funzionari coccolati da Nasser in Egitto negli anni ’60 non hanno trovato degli sbocchi malgrado i loro diplomi, scendendo di un grado nella scala sociale. In Tunisia, il potere d’acquisto degli insegnanti e degli avvocati, toccati dal rialzo dei prezzi e soprattutto delle materie prime, è sceso del 10 al 15%.

C’è poi una quinta ragione che spiega questi movimenti di contestazione presenti nei paesi arabi e cioè le disuguaglianze, la corruzione, le fonti di arricchimento illegali. Questi stati figurano tra i più disuguali in termini di risorse per abitante e i meno trasparenti circa l’indice annuale della corruzione definita ogni anno dall’associazione Transparency Internaional. «L’apparato amministrativo, rileva ancora Lahcen Achyn. Il cittadino non può fare ricorso alla giustizia. Non pub difendersi, benché veda nel sistema una macchina organizzata per impoverirlo».
Parallelamente, la popolazione osserva l’arricchirsi di una minoranza vicina al potere che approfitta delle ondate di privatizzazioni o delle vendite dei demani dello Stato per accaparrarsi delle terre, degli immobili e delle imprese.

Mancanza delle libertà fondamentali

La sesta ragione è la mancanza delle libertà fondamentali. Kamel Jendoubi, della Rete euro mediterranea dei diritti dell’uomo, osserva: «l’oppressione e la mancanza delle libertà fondamentali, soprattutto di espressione» sono “la causa fondamentale” e comune delle rivolte che scuotono il mondo arabo. In Tunisia, come in Egitto e negli altri paesi arabi attraversati dalle manifestazioni è questa la situazione comune a tutte le classi sociali a creare un movimento unificato: «giovani sfavoriti, individui delle classi medie, diplomati senza impiego si incontrano in una medesima aspirazione alla libertà e alla dignità», spiega ancora Kamel Jendoubi. «Tutto il mondo arabo è attraversato da questo profondo desiderio dei diritti dell’uomo e di democrazia: la gente è pronta a morire per questo».
A suo modo di vedere, gli abitanti dei paesi arabi, «guardando il mondo» hanno preso coscienza dell’ «importanza della cittadinanza, dell’individuo». Hanno «visto degli elementi di modernità sotto il controllo di regimi retrogradi, conservatori». Di qui una frustrazione che si esprime nelle strade«la gente ha deciso di far saltare i chiavistelli per aprire una nuova pagine, quella della libertà», D’altronde, non è un caso se se questa ondata è cominciata in Tunisia». Il regime di Ben li infatti era «un modello di repressione e di controllo della popolazione».

La solidarietà con i mezzi elettronici


Una settima ragione di queste rivolte è la conseguenza dell’impiego dei mezzi elettronici che sono una “cassa di risonanza delle frustrazioni”. Lucie Morillon, specialista dei nuovi mezzi di comunicazione dei Reporter senza frontiere, rileva che le reti sociali sono strumenti che «superano le frontiere; c’è una grande solidarietà fra gli internauti» tant’è vero, per esempio, che gli egiziani hanno aiutato i tunisini ad aggirare la censura.

Oltre a questa analisi è illuminante anche quanto ha dichiarato, in un’intervista, sempre sul quotidiano francese, La croix il politologo Olivier Roy. Gli è stato chiesto se i movimenti che scuotono il mondo arabo possono essere paragonati a quelli che l’Europa dell’est ha conosciuto nel 1989 con il crollo del Muro di Berlino. Sono due fenomeni diversi, ha risposto: «questa è una rivolta più che una rivoluzione. Attualmente ci sono due elementi che fanno da ostacolo a questo movimento: il primo è la resistenza dei regimi. Essa è più dura perché non esiste un centro comune come l’Unione sovietica che, una volta crollata, ha consentito che tutto si aprisse. Qui invece, ogni paese ha una sua specificità. L’altro problema è che la comunità internazionale è molto ambivalente. Da una parte, saluta la democrazia, dall’altra vuole lo status quo».
Ma queste rivolte, gli è stato chiesto, rappresentano la vittoria dei valori universali? «Sì, ovviamente, è una rivolta dei valori: il rispetto, la democrazia, l’onestà e il rifiuto della corruzione». «Vi è inoltre un elemento che troppo spesso si dimenticato ed è la richiesta della cittadinanza, ossia il rifiuto delle differenze confessionali. Lo si è visto negli slogan nella piazza Tharir, ma anche nella dichiarazione dello sceicco Qaradawi che ha iniziato il suo discorso dicendo: “Cari musulmani, cari copti”. Si tratta di qualcosa di inusuale abituale e di inatteso».
«La democrazia, ha proseguito Roy, è una richiesta di questa giovane generazione. Questo è molto chiaro. È una generazione che non si lascia abbagliare dai miraggi. Per esempio, in queste rivolte non c’è nessuna figura carismatica. Questa generazione non è affatto affascinata dei partiti politici e nemmeno dalle ideologie, è molto critica. Non è una generazione di ingenui. C’è una maturità politica molto forte e questo è un argomento favorevole alla democrazia. Attualmente il problema è che la cultura politica di questi paesi non è democratica. I regimi e gli oppositori tradizionali sono superati, come per esempio i Fratelli Musulmani egiziani. Esiste un conflitto tra due culture, una antica condivisa dai regimi e dalle vecchie opposizioni, e una nuova, quella della gioventù. Il rischio, a parte la repressione, che è quello fondamentale, è di vedere un’alleanza tra conservatori che può bloccare le cose».
Ciò che avviene può essere interpretato come una conseguenza della secolarizzazione delle società? «Ciò dipende, ha risposto Roy, da che cosa si intende per secolarizzazione. È chiaro che c’è stata una reislamizzazione delle società arabe in questi ultime trent’anni. Ma la reislamizzazione ha fatto perdere all’islam la sua specificità. Si è avuto una banalizzazione dell’islam. Il paradosso, oggi, è che nessun partito può avere il monopolio della rivendicazione islamica. C’è una secolarizzazione di queste società nel senso che il fattore religioso non è più specifico. Queste non sono delle società laiche, ma le rivendicazioni dei manifestanti lo sono. Sono delle rivendicazioni politiche che lasciano da parte la questione religiosa». Siamo di fronte alla separazione del fattore politico da quello religioso, anche se l’elemento religioso nella società è più forte che non in Occidente».

Il contagio ho toccato ora la Libia. Si potrà diffondere anche altrove? «A mio avviso, ha risposto Olivier Roy, il fenomeno non toccherà l’Arabia saudita, perché là nessuno vuole uccidere la gallina dalle uova d’oro di un regime che ridistribuisce. Non penso neanche che la contestazione si estenda agli Emirati perché non esiste un proletariato al di fuori dei bangladesi Ci saranno probabilmente delle tensioni a Oman… La grande incognita è la Siria. Là, tutto è possibile. Anche in Marocco le cose si stanno movendo ma penso che non si andrà più lontano poiché la monarchia fa parte dell’identità nazionale».
E riguardo all’atteggiamento dell’Occidente?
Secondo Roy «l’Occidente è vittima di un accecamento completo su due basi. Anzitutto per l’ossessione dell’islam che viene presentato come una realtà chiusa in se stessa e incapace di evolversi, ossia “l’islam incompatibile con la democrazia”, ecc. I musulmani cioè sarebbero completamente determinati dall’islam, e l’islam sarebbe la violenza e il radicalismo. Noi siamo rimasti ossessionati dall’islam. La parentesi islamista è esistita, ha giocato un ruolo notevole, ma si è chiusa. L’islamismo è durato dalla fine degli anni ‘70 fino agli anni ‘90. Oggi il mondo arabo ritorna a dei valori universali. Cosa che non vuol dire che si ritorna alla pace e alla concordia di tutti.
L’altro punto è la visione strategica: si è cercato unicamente una stabilità, centrata attorno al conflitto israeliano-palestinese. Tutto lo scopo era di ottenere un massimo di regimi in grado di neutralizzare l’aggressività della loro popolazione nei riguardi di Israele. Di colpo, ci si è identificati con i regimi autoritari esistenti, ci si è fusi con essi e, poi in certi casi, si è finito con l’amarli».
Cosa pensare degli islamisti? «Basta ascoltarli», sottolinea Roy; «non sanno che cosa dire, non sono alla testa delle rivolte e non ne sono nemmeno al cuore. Vogliono formare dei partiti politici, presentarsi alle elezioni e avranno dei voti. Vogliono fare parte del paesaggio, ma non sono dei motori. Per quale ragioni pensate che la gente voti per dei partiti che non erano presenti nelle manifestazioni? Se certi di essi non vogliono cambiare, saranno semplicemente ignorati. Se domani un capo dei Fratelli musulmani va in piazza da dire “il Corano è la soluzione” la gente si metterà semplicemente a ridere».
Secondo Roy, «ci vorrà comunque molto tempo prima che gli occidentali metabolizzino ciò che avviene. Oggi, purtroppo, la domanda prevalente resta sempre: e la minaccia dell’Islam?». «Da dieci anni a questa parte ci si è lasciati prendere da una retorica populista, da destra e da sinistra, che dice: “il problema è l’islam”. Per comprendere veramente ciò che sta avvenendo ci vorrebbe una maggiore maturità da parte delle élites europee, ma purtroppo esse in questo momento sono prigioniere dei clichés».