Le ricorrenze celebrative, pur assoggettate sempre al rischio della retorica, rappresentano in ogni caso un’utile occasione di riflessione: sono inevitabilmente il tempo dei bilanci e, insieme, degli interrogativi sul futuro. Come sempre avviene, riandare al passato introduce nella vita quotidiana una dimensione, quella del tempo, che finisce per far guardare anche al futuro. Così sarà, prevedibilmente, anche per questa ricorrenza del 150° del’Unità d’Italia, e così si cercherà di fare in queste brevi ed essenziali note.

Un difficile cammino
Non deve essere mai dimenticato quanto sia stato difficile, nello specifico contesto italiano, il passaggio da un informe aggregato di stati e staterelli a un insieme unitario. La faticosa unificazione politica era stata tuttavia anticipata e preparata da una diffusa unità culturale e religiosa (e nello stesso tempo protetta dalla particolarità della posizione geografica). Da sempre l’Italia infatti è stata una realtà ben definibile nei suoi confini (salvo la fluttuante barriera a est, dove non a caso si sono concentrati nei secoli le invasioni, i conflitti, le rivendicazioni nazionalistiche da una parte e dall’altra): ben poche le nazioni del continente europeo hanno una simile connotazione “naturale”.
Sotto altri due profili, tuttavia, l’Italia, prima di essere una nazione, aveva avuto assai prima del 1861 una sua sostanziale omogeneità: dal punto di vista linguistico, al di là della varietà dei dialetti, ha parlato un’unica lingua; le differenze che pure sussistevano non impedivano la reciproca comprensione (a differenza di quanto è avvenuto invece in Francia fra francesi e occitani e in Spagna tra castigliani e catalani). Dal punto di vista religioso poche nazioni europee – nemmeno eccettuata l’Irlanda, come noto divisa politicamente ancora oggi tra cattolici e protestanti – hanno avuto l’omogeneità che ha caratterizzato il nostro paese. Ancora oggi, se si escludono i recentissimi flussi migratori, i cattolici non italiani sono un’esigua minoranza (così come tale sono i non parlanti italiano come lingua-madre).
A questa per certi aspetti sorprendente omogeneità linguistica e religiosa accompagnata da una precisa identità geografica è invece corrisposta nei secoli una forte frammentazione politica: conseguenza da una parte del marcato individualismo degli italiani, dall’altra della mancanza di un “potere” forte in grado di imporre la sua autorità su tutta la penisola. Paesi simili all’Italia hanno trovato questo “potere forte” e raggiunto l’unità prima di lei, anche se non sempre con conseguenze felicissime. Perché in Italia l’unificazione sia stata così tardiva è questione assai complessa né riconducibile – secondo una vulgata ancora oggi frequentemente ripresa, anche nei testi scolastici – all’ingombrante presenza dello stato della Chiesa. Tutto sarebbe assai meno complicato se la difficile integrazione fra le varie parti d’Italia, che a ben guardare persiste ancora oggi, fosse stata “semplicemente” dovuta alla Chiesa-stato. Ogni attento osservatore della realtà sa bene quanto peso abbiano ancora oggi i particolarismi e i localismi…
Un’attenta riflessione sulla difficoltà di questo cammino deve indurre a un serio esame di coscienza su scelte che potrebbero rinfocolare i particolarismi e rimettere in discussione un’unità così tardivamente, e a durissimo prezzo, raggiunta. Ed è questa una prima notazione che il 150° suggerisce.

Il rischio della perdita di identità
Non è soltanto sotto questo profilo, per altro, che l’Italia rischia una crisi di identità. Si affacciano, infatti, tre fenomeni fra loro profondamente diversi che tuttavia, ciascuno per la sua parte, mettono a rischio questa unità. Solo l’”identità geografica”, ormai definite le frontiere orientali, appare fuori discussione, se si eccettuano piccole e nel complesso assai marginali questioni territoriali.
Il primo fenomeno tendenzialmente anti-identitario è la perdita strisciante di valori comuni a tutti gli italiani. Il caso della religione non è l’unico ma forse il più indicativo: nulla più della religione (come mostra la sua stessa etimologia) unisce o, al contrario, divide, anche se le lotte di religione, come le contese tra fratelli, possono essere per certi semplici aspetti semplici “liti di famiglia” che non incrinano l’unità. L’indifferentismo religioso, la perdita di riferimento a valori più alti e in qualche modo fondativi di una comunità (senza cedere nel rischio della “religione civile”) priva infatti una comunità di una “tavola di valori” condivisa. Che cosa può prendere, ed effettivamente prenderà il suo posto? Una generica “fede democratica” che, sotto l’usbergo della tolleranza di tutte le opinioni, quali che siano, trasforma la cultura del paese in una generica e anonima melassa?
Assai meno appariscente della perdita di significato della religione sotto i colpi della secolarizzazione, ma non meno inquietante, è il fenomeno della graduale corrosione della lingua italiana. Veneziani e napoletani (almeno quelli colti) prima dell’Unità si intendevano assai più di quanto non avvenga oggi fra i generalmente giovani fruitori delle “nuove” lingue, quelle tecnologiche, e coloro che, per cause generazionali o per altre ragioni, continuano a frequentare i consueti, tradizionali linguaggi: si rischia in tal modo di dare luogo a due Italie che non si comprendono più. Il rischio è poi accresciuto dall’assoluto predominio della lingua inglese che è solo superficialmente conosciuta e spesso assai peggio utilizzata. Si vedono dal teleschermo aerei che volano “a tremila piedi” e quasi nessuno sa quale sia l’altezza reale; si sente dal telegiornale che l’oro è aumentato del venti per cento “all’oncia” e quasi nessuno sa a quanto ammonti l’oncia. Nello steso tempo si continuano a usare termini della lingua inglese con modalità paradossali che sconcertano quanti sanno questa lingua e mettono in crisi coloro che la ignorano… Senza cadere nei purismi dell’”Accademia della crusca” non sarebbe fuori luogo che ci si occupasse anche di questo apparentemente piccolo problema.
L’aspetto più serio di questo insieme di mutamenti è tuttavia rappresentato dal fenomeno migratorio, solo in parte reso manifesto dalle statistiche, dato che tutti gli osservatori riconoscono che il numero degli stranieri (o almeno di quelli originariamente tali) presenti nel nostro territorio è assai più elevato di quanto non dicano le proiezioni. A questo riguardo si confrontano due posizioni sostanzialmente antitetiche: quella di chi vorrebbe “rispettare” e “salvaguardare le nuove identità nazionali”, e dunque trasformare il paese in una serie di ghetti autoreferenziali, di quartieri auto-sufficienti, di comunità chiuse al loro interno e rinserrate nelle loro tradizioni; e di chi invece vorrebbe – a partire dal fatto linguistico – realizzare una nuova e diversa identità nazionale che tuttavia tale rimanga. Il confronto su questo tema sarà il banco di prova della futura “nazione Italia”.

Il “patriottismo costituzionale”
Al di là degli aspetti prima evocati, e che – apparentemente e talora anche nella sostanza – dividono, vi è tuttavia un forte elemento caratterizzante il nostro paese, che unisce e dovrebbe continuare a unire: il comune quadro democratico riflesso dalla Costituzione, e il conseguente atteggiamento, di identificazione e di ossequio, che dovrebbe coinvolgere tutti i cittadini. È questo il “patriottismo costituzionale”, e cioè il riconoscersi tutti, vecchi e nuovi italiani, in questa Carta fondamentale che da oltre sessant’anni regge il paese e che è frutto di una saggia mediazione e di un’antica e nuova tradizione civile. Ma come realizzare questo patriottismo costituzionale se la Carta del 1948 è per certi versi ignorata e per altri rifiutata?
L’ignoranza della Costituzione è favorita dalla crescente incultura – paradossale risvolto dell’alta secolarizzazione, che non sa però incidere in profondità – e dalla barriera di silenzio che alla sua conoscenza e comprensione continua a opporre un sistema scolastico spesso appiattito sui miti dell’efficienza e della spendibilità (nulla di meno efficiente e spendibile, in apparenza che conoscere la Costituzione…). Né la società civile, che pure dovrebbe fare la sua parte, è in grado di sostituire la scuola. Sarebbe patetico il confronto fra il pubblico raccolto da un grande studioso della Costituzione o della storia del nostro paese e quello che consuma gli occhi (e forse i propri cervelli) su schemi televisivi sui quali si susseguono quasi sempre mediocrità e banalità: il più modesto “divo” di tali spettacoli surclassa e annichila un “qualsiasi” Premio Nobel…
Occorre dunque invertire la tendenza: il 150° sarà ben celebrato se si tradurrà in un serio impegno di educazione civile e sociale dei giovani, accompagnato da iniziative di formazione permanente degli adulti, sorretto da una cultura che faccia precise scelte di campo, completato da concrete forme di impegno per gli altri che prendano il posto di un “servizio militare” ormai obsoleto e di un “servizio civile” ridotto ormai al lumicino. Solo per questa via si creeranno spazi necessari perché crescano il senso civico, l’amore per la città, la consapevolezza di essere cittadini accomunati dallo stesso destino e che, nel momento in cui legittimamente chiedono, altrettanto legittimamente dovrebbero sentirsi impegnati a dare.

E i cattolici?
Ai cattolici non si dovrebbe chiedere nulla di più ma anche nulla di meno, di essere buoni, anzi ottimi ed esemplari, cittadini, che rispettano le giuste regole, pagano le giuste tasse, onorano gli stessi valori; ma con quello che un tempo veniva definito un “supplemento d’anima”, e cioè con una motivazione più alta di quella puramente “laica”, dato che il credente sa quanto stretto sia il legame che intercorre fra la presente città degli uomini e la futura Città di Dio. Per il cristiano il regno di Dio è già cominciato, anche se occorre costruirlo giorno per giorno, nelle forme del duplice ma alla fine unico servizio a Dio e ai fratelli. Per lui il “patriottismo costituzionale” è il corrispondente storico della coerenza vocazionale: sarebbe illuminante leggere in questa prospettiva i fondamentali articoli della Costituzione, soprattutto quelli sui diritti della persona, e i capitoli della Gaudium et spes che tracciano il grande quadro della presenza dei cristiani nel mondo: due vie solo apparentemente parallele ma alla fine convergenti.
In questa luce, ogni tentativo (come quelli incautamente posti in essere o anche solo minacciati) di stravolgere in alcuni suoi elementi fondamentali – non di rivedere in alcuni suoi aspetti marginali – la Costituzione rappresenta un vero e proprio attentato all’Unità d’Italia che si vorrebbe celebrare, dal momento che in questo modo non solo si verrebbe meno a una tradizione che non è soltanto quella dei pur non brevi anni che si separano dal 1948, ma si finirebbe per rinnegare i più lontani, ma non obsoleti, valori di un secolo prima, di quel 1948 di cui, per felice auto-ironia dei mass media, proprio un uomo dello spettacolo è stato simpatico ri-propositore. Ma veramente l’Italia, l’Italia di oggi, s’è desta?