La vittoria dei sì al referendum popolare per l’indipendenza del Sud Sudan dal Nord Sudan è ormai cosa fatta. Le operazioni di voto, iniziate il 9 gennaio e andate avanti fino al 15 dello stesso mese, si sono concluse con la proclamazione ufficiale, il giorno 8 febbraio 2011, della schiacciante vittoria del 98,83 % dei favorevoli alla separazione : esito scontato, fin che si vuole, ma significativo del coraggio di quel popolo. È stato l’atto finale del processo avviatosi con l’accordo di pace di Nairobi (9 gennaio 2005) firmato dal governo di Khartum e dal SPLA (Esercito di liberazione popolare del Sudan) di John Garang. Fin dalla sua nascita il Sudan (allora era il Sudan Anglo Egiziano) attendeva il distacco della parte meridionale, nera, animista e cristiana, da quella settentrionale, araba e islamica. Due realtà assolutamente disomogenee. L’esito del referendum mette la parola fine a mezzo secolo di guerra civile che ha causato per lo meno due milioni di vittime. La data ufficiale per l’inizio del nuovo stato, il 54° stato indipendente dell’Africa, è fissata per il 9 luglio prossimo. La gioia e la soddisfazione della popolazione è ben espressa da Santino Riach Makel, un cittadino di Juba, la futura capitale del nuovo Stato, ai microfoni di Euronews: “D’ora in avanti alzeremo questa bandiera, quella del Sud Sudan, e canteremo tutti l’inno nazionale. Sono molto felice: io sono uno degli orfani che oggi qui stanno festeggiando insieme alle vedove. Tutte queste persone sono vittime della guerra”.

Momento storico e conclusione di un ciclo

I problemi tra Khartum e Juba non mancano. I due stati dovranno ora accordarsi sui confini, sulla spartizione dei profitti del petrolio e anche dei 26 miliardi di euro di debiti. Un’altra sfida per il Sud Sudan sarà quella di costruirsi una struttura propria e una classe dirigente che ora non c’è per mettere in moto un cammino di gouvernance: «Il Sud Sudan comporta in realtà la costruzione da zero di un nuovo stato», spiega Jennifer Cooke, direttrice del programma Africa del Centro studi internazionali strategici; «malgrado la presenza di persone valide ai massimi livelli, la capacità e l’esperienza di governo sono minime. E le sfide per lo sviluppo sono enormi». Un esempio per tutti: nella stessa capitale, poche le strade in perfetta efficienza. Dietro, un’estensione infinita di baracche dove la gente sopravvive con meno di 60 centesimi di euro al giorno, un bambino su 2 è malnutrito, 3 adulti su 4 sono analfabeti.
La strada quindi è ancora lunga. Si devono mettere in piedi le strutture di un paese indipendente: governo, difesa, educazione, sanità, ordine pubblico, ma ancora più difficile sarà far nascere quella coesione sociale, determinata finora dalla lotta contro il comune nemico, ma che deve ora sorgere dalla comune responsabilità per il bene di tutti. Mettere in atto gli accordi presi nel 2005, in un quadro politico della regione in fase di assestamento, non sarà impresa semplice. Non ci sono ancora le condizioni per lo stabilirsi della pace: malgrado l’esito del referendum ci sono stati, fino nei giorni scorsi, decine di morti in nuovi scontri tra gruppi armati e fazioni, in un quadro politico e sociale dove le sorti della gente sono state determinate dai kalashnikov. Eppure, nonostante tutto, è vera l’affermazione di Catherine Ashton, rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea, che ha dichiarato questo “un momento storico”. Con linguaggio diplomatico e maggior realismo, le ha fatto eco il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, la quale, non nascondendosi i rischi connessi a questo voto, auspica “che i dirigenti sudisti e nordisti continuino a lavorare insieme in vista di un’applicazione completa” dell’accordo di pace del 2005.

Le promesse di Khartum e i nodi economici e sociali

Il primo interrogativo è legato alla sincerità delle intenzioni del presidente sudanese il quale si è affrettato a riconoscere l’esito del referendum. Omar Hassan al-Bashir, da sempre feroce nemico del Sud, ha giocato d’anticipo e in un discorso alla televisione ha riconosciuto la vittoria del sì e la volontà degli votanti di staccarsi dal resto del paese. Lo ha fatto prima ancora che il risultato ufficiale fosse reso noto, quasi a garantire che l’indipendenza del Sud Sudan è un dato di fatto da non mettere in discussione. Con notevole (eccessivo!) fairplay, Al-Bashir ha riconosciuto quello che mai avrebbe voluto accettare, l’esistenza del Sud Sudan, un nuovo stato confinante con il suo, uno stato animista e cristiano, separato dal nord arabo e musulmano. Non solo ha dato il suo benestare all’indipendenza del Sud Sudan, ma ha anche assicurato ogni possibile e collaborazione per mettere in marcia questa nuova realtà politica. Lo ha fatto parlando alla televisione di Khartum: “Oggi abbiamo ricevuto i risultati e li abbiamo accettati, sono i benvenuti, poiché esprimono la volontà del popolo del Sud … che ha scelto la secessione. Noi siamo impegnati a mantenere i collegamenti tra Nord e Sud, a mantenere le buone relazioni basate sulla collaborazione”.
Il discorso del presidente Al-Bashir è stato accolto positivamente e con una stretta di mano da parte del suo ex-nemico, ora presidente provvisorio del Sud Sudan, il cattolico Salva Kiir: «Nord e Sud ora devono pensare a costruire rapporti forti». È facile deporre una scheda nell’urna elettorale, non altrettanto risolvere i problemi sul tappeto. Prima del 9 luglio dovranno essere definiti i confini settentrionali del nuovo stato e si dovranno anche risolvere i problemi relativi alla ricchezza petrolifera, soprattutto alla regione dell’Abyei, dove si concentrano molti pozzi di petrolio, a cui il Nord Sudan non rinuncerà tanto facilmente. I due Sudan saranno costretti dalle circostanze geografiche e ambientali a una reciproca dipendenza perché, se l’80 per cento dei pozzi e delle risorse naturali si trovano nel Sud, gli oleodotti, le raffinerie e le strade di collegamento passano necessariamente, almeno per ora, nel Nord. Un altro accordo, delicatissimo, dovrà stabilire l’utilizzazione delle acque del Nilo sulle quali tutti i paesi rivieraschi hanno da dire la loro. Ci sono, infine, milioni di profughi che rientreranno nel nuovo paese e altri che si trovano nel Nord che dovranno raggiungere il nuovo Stato, creando grossi problemi di accoglienza e di distribuzione delle terre.

I nodi politici e il problema del Darfur

Ma i veri nodi sono di tipo politico. C’è anzitutto la leadership di Omar Hassam al-Bashir non è così stabile come sembra. Siamo di fronte a un rimescolamento e a una crisi del Nord Africa con le rivolte della Tunisia, della Giordania, dello Yemen e soprattutto dell’Egitto dove soffia un vento di libertà e partecipazione politica, per altro positivo. Se la caduta di Hosni Mubarak dovesse portare a una maggiore influenza dell’integralismo dei Fratelli Musulmani, non è difficile prevedere degli irrigidimenti nella politica islamica in generale con riflessi negativi anche sul nuovo Stato del Sud Sudan, anche perché dietro a questi movimenti si vede alzarsi lo spettro dell’Iran.
Una seconda incognita politica che gioca in questo immediato futuro è la posizione politica e la durata del presidente Omar Hassan Al-Bashir, l’uomo forte di Khartum, già di per sé poco affidabile. Ammesso che questa volta le sue parole corrispondano alle intenzioni, rimane il problema della stabilità del suo governo. Egli è al potere dal giugno del 1989, ma è sotto una crescente pressione da parte dell’opposizione interna, su cui ha esercitato finora una repressione feroce: Amnesty international ha pubblicato un rapporto lo scorso luglio con un titolo che la dice lunga: «Agenti della paura: i servizi di sicurezza nazionale in Sudan». In esso si afferma che solo nella prima metà del 2010, sono stati arrestati 34 tra giornalisti, studenti e attivisti per i diritti umani. La resistenza al regime e in particolare alla persona di Al-Bashir, già oggetto di un mandato di cattura internazionale della Corte dell’Aja, e che esce ora indebolito dal referendum delle regioni meridionali, potrebbe provocare un cambio della guardia a Khartum. È difficile far previsioni, ma se i nuovi dirigenti non fossero dei moderati, si possono prevedere giorni difficili per il Sud Sudan. Non resta quindi che sperare che la comunità internazionale faccia tutto il possibile perché questa transizione verso l’indipendenza giunga presto a compimento e nel migliore dei modi. Sono soprattutto gli Stati Uniti e la Cina, che hanno oggi i maggiori interessi economici in Sudan, quelli che potranno influire nel futuro consolidamento della pace in questa terra.
Rimane poi aperta, come fronte di possibili tensioni, la crisi del Darfur. Finché non verrà risolta per via negoziale, essa costituirà un fattore destabilizzante nelle relazioni tra Nord e Sud. Non si deve dimenticare che furono proprio gli ex-ribelli dello SPLA (oggi SPLM) a formare e finanziare nel 2003 il primo movimento armato darfuriano, l’Esercito di liberazione del Sudan (SLA). Raggiunta la liberazione e l’indipendenza del Sud Sudan, la diplomazia internazionale non deve abbandonare il problema, ma deve cercare una sistemazione definitiva a quella regione che ha già troppo sofferto per la politica di Khartum.

La Chiesa cattolica in Sud Sudan

La Chiesa nel corso di questi anni ha sostenuto sempre la necessità di una separazione politica dal Nord del Sudan per l’evidente inconciliabilità culturale e religiosa delle due parti. Ha anche sofferto insieme alla popolazione del Sud. Non dimentichiamo l’espulsione in massa dal Sudan dei missionari comboniani nel 1964. Oggi la Chiesa si presenta con un’accresciuta credibilità e con le carte in regola per riprendere l’evangelizzazione del nuovo Stato indipendente. Conta sette diocesi, un clero locale numeroso, un buon numero di missionari stranieri, molte vocazioni sia diocesane che religiose, un sistema scolastico che funzione e una nuova Università cattolica, la St.Mary’s University di Juba, inaugurata due anni fa. Ma anche per la Chiesa si tratta di assumere questa nuova fase di identificazione nazionale che è davanti alla società civile al momento della sua indipendenza politica, per continuare a inculturare il messaggio evangelico, a costruire chiese e comunità cristiane che siano autenticamente sudanesi. Questo è il modo migliore di contribuire al consolidamento dell’identità nazionale nel contesto più vasto della regione e del continente africano. La cattolicità della Chiesa in Sud Sudan sarà un elemento di coesione sociale e di promozione umana insostituibile in questo momento di formazione dell’unità nazionale.