Quando si parla della vocazione a seguire Cristo, come persone consacrate, a volte ci si ferma a considerare ciò che essa comporta soprattutto sul piano personale. Ma c’è una domanda più ampia che coinvolge quello comunitario e che può essere formulata così: a che cosa siamo chiamati noi oggi in quanto comunità nella sequela di Cristo?
È l’interrogativo che si pone Helmut Schlegel OFM nel n. 4 del 2010 della rivista tedesca Ordenskorrespondenz, organo della conferenza dei superiori maggiori della Germania. A suo parere, la risposta sta nella missione profetica da vivere nella Chiesa e nel mondo.
Il punto di riferimento è infatti la persona stessa di Cristo. Parlare di sequela, vuol dire prima di ogni altra cosa, guardare a Gesù il quale di volta in volta comprende se stesso come Messia, Salvatore, Figlio dell’uomo, Figlio di Dio… ma soprattutto come profeta. Profeta è un termine che significa colui che sta in mezzo, che funge da avvocato.
In questo senso, Gesù è un profeta di Dio, egli parla a nome di Dio. È una caratteristica che troviamo anche nei profeti dell’Antico Testamento. I loro discorsi infatti cominciano sempre con queste parole: «Così dice il Signore…”. Essi non erano dei teologi, come nemmeno Gesù era un teologo. Egli infatti parla raramente di Dio, parla invece a nome di Dio e a Dio. Parla del Regno di Dio, ossia del modo con cui Dio è presente nella realtà del mondo e degli uomini e come anche noi siamo coinvolti in questo processo di crescita, in cui diventiamo nel nome di Dio avvocati della vita.
Gesù è anche profeta degli uomini, e in senso più ampio, delle creature. In quanto incarnazione di Dio, è un portavoce degli uomini e della creazione. Egli si pone sempre dalla parte della vita: “Sono venuto affinché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (Gv 10,10). All’inizio della sua missione pubblica egli dice di se stesso: “Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l'unzione
e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
a rimettere in libertà gli oppressi,
a proclamare l'anno di grazia del Signore” (Lc 4,18-19).
Gesù è il profeta dei piccoli, dei malati, dei bambini, delle donne, dei peccatori, degli esclusi, delle prostitute. Combatte per i loro diritti, la loro dignità e la loro considerazione. Si fa solidale con essi assumendo la loro stessa condizione.

Vita profetica di Gesù e la nostra profezia


Che cosa significa allora, si chiede p. Schlegel, la vita di Gesù per la nostra vocazione personale e per quella della Chiesa? Egli ci invita: “Venite dietro a me”. La vocazione cristiana è il prolungamento dell’esistenza di Gesù; è pertanto un’esistenza profetica. Compito dei seguaci di Gesù è perciò quello di farsi avvocati della liberazione integrale degli uomini e della creazione. La sequela di Cristo non è un cammino di religiosità privata e nemmeno la via di una perfezione morale o una semplice spiritualità. È piuttosto l’attuazione concreta della domanda del “Padre nostro” “Venga il tuo Regno come in cielo così in terra”: vale a dire farsi avvocati di Dio presso gli uomini e degli uomini davanti a Dio; avvocati per il mondo nel mondo.
I cristiani, negli Atti degli Apostoli, sono descritti come “uomini della strada”. Questa è la loro missione comune. Ciò significa anzitutto che non sono “uomini del tempio”. La loro vocazione non è in prima linea quella del culto, ma del movimento, del cambiamento, dell’impegno a configurare la vita e il mondo secondo lo spirito di Gesù.
Nella comunità primitiva la vocazione comune di tutti si sviluppa attraverso quattro servizi: kerygma (testimonianza/missione), diakonia (amore fraterno/servizio sociale), koinonia (comunione/comunicazione) liturgia (culto divino).
Ognuno di questi servizi ha bisogno degli altri e solo nella loro globalità la vocazione cristiana è una vocazione della strada nel senso della sequela di Cristo. È compito della comunità garantire che tutti e quattro i servizi, allo stesso modo e con la stessa importanza, si confrontino e si completino a vicenda. La liturgia è culto in senso vero (solo) se si traduce in servizio all’uomo. A sua volta il servizio della diakonìa non è soltanto un’attività per il bene comune, ossia cura per l’equilibrio ecologico, ma è il “culto quotidiano” sostenuto dall’ispirazione dello Spirito. La comunità ha la sua giustificazione esistenziale solo se svolge la sua missione, ossia l’invio a testimoniare la buona notizia del Dio che gioisce dell’uomo e della sua creazione e della significatività della vita.
Il Vaticano II definisce il compito dei cristiani così: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (GS 1). Il Vangelo non si riferisce a qualche cosa di astratto, di generico e fuori del tempo, ma al concreto e all’attuale. Gesù è vissuto sempre pienamente nel tempo presente, si è sempre rivolto alle persone che incontrava, si è posto nella situazione che si presentava qui e ora, ha cercato e trovato Dio nei problemi e nelle sfide dell’oggi. I cristiani nella sequela di Cristo pensano, parlano e vivono interamente nel qui e oggi. Stando alla presenza di Dio (contemplazione) si coinvolgono con una presenza concreta nella realtà sociale, culturale, religiosa ed ecologica.

Una Chiesa profetica

Ne deriva che, su questo sfondo in quanto cristiani e come Chiesa, abbiamo una chiamata profetica. Il servizio profetico è un servizio concreto, attuale e critico. Un servizio che assume in maniera consapevole le crisi e prende criticamente posizione davanti ad esse. Non si tratta solo delle nostre crisi personali e di quelle riguardanti la Chiesa, ma anche delle crisi esistenziali dell’umanità e dell’intera creazione, quelle riguardanti il clima, l’economia, la povertà, la fame, la violenza: questi sono i nostri tempi e la lista si può allungare. In quanto Chiesa non siamo estranei al mondo, ma siamo coinvolti in esso. Siamo strettamente legati alla vita secolare con le sue opportunità e le sue crisi.
La crisi implica sempre una decisione. Ai crocevia della vita si può e di deve decidere in quale direzione procedere.
Ma la storia e il presente della Chiesa mostrano che le crisi sono per noi anche delle tentazioni.
la tentazione di non dare importanza alla situazione, non prendendo cioè sul serio la realtà;
la tentazione di lasciare i cambiamenti agli esperti. Se è così, non prendiamo Dio sul serio. Il Regno di Dio ha bisogno di uomini che si coinvolgano con fede, speranza e amore nel suo processo di crescita;
la tentazione di lasciare la soluzione a Dio. In questo modo non prendiamo più sul serio noi stessi. Infatti, anziché assumerci noi le nostre responsabilità, aspettiamo che Dio intervanga in maniera prodigiosa. Una fede del genere non è la fede di Gesù. Essa non fa affidamento sul miracolo e la magia ma nella conversione.
Gli “uomini della strada”, sottolinea H. Schlegel, si pongono agli incroci della vita in maniera contemplativa davanti alla parola di Dio. Attingono dalla preghiera coraggio e forza, per scegliere responsabilmente la strada a servizio della vita e di una vita in abbondanza.
Il servizio profetico è critico dal punto di vista ecclesiale, della testimonianza, del culto e da quello sociale. La critica non si rivolge soltanto verso l’interno (verso la Chiesa e la comunità), ma anche verso l’esterno (i sistemi di potere della società).
È stata questa la funzione critica dei profeti dell’Antico Testamento. H. Schlegel cita l’esempio del profeta Amos che critica Geroboamo, re d’Israele, e i potenti del paese «perché hanno venduto il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali, essi che calpestano come la polvere della terra la testa dei poveri e fanno deviare il cammino dei miseri» (Am 2,6-7).
Essere profeti vuol dire anche avere una visione di Chiesa bisognosa di costante conversione. Ciò significa ammettere anche le proprie colpe, saper vedere i comportamenti sbagliati e accettare le critiche che giungono da fuori. Dobbiamo essere capaci di batterci il petto, non solo nel caso degli abusi, ma saper chiedere anche trasparenza e partecipazione nei processi decisionali, migliori vie di comunicazione, umiltà e veridicità.

Offrire una testimonianza critica

Comportarsi profeticamente significa anche offrire una testimonianza critica. La Chiesa infatti è per sua natura missionaria, altrimenti non sarebbe Chiesa. Ma “missione” non vuol dire accettare tutto quello che gli altri pensano oppure escluderli dal diritto alla salvezza divina. La missione, come intesa da Gesù, è aperta, richiede disponibilità a imparare e deve essere umile; è critica e disponibile al confronto quando vengono violati diritti essenziali, quando viene calpestata la dignità umana o quando il mondo insegue falsi idoli. I discepoli di Gesù si confrontano apertamente con i problemi di oggi riguardanti la ricerca, la scienza e la cultura. Prendono le distanze da un linguaggio di Chiesa. lontano ed estraneo al mondo e dai punti di vista fondamentalisti. Nella loro evangelizzazione prendono seriamente gli interrogativi della società. Hanno cura del dialogo interreligioso e interconfessionale e cercano lo scambio con coloro che la pensano diversamente. Lavorano assieme a tutti gli altri uomini di buona volontà al progetto di mondo giusto e aperto al futuro.

Critici culturalmente e socialmente

Essere profeti vuol dire ancora essere critici culturalmente: invece di pregare “donaci la pace”, occorre dire : “Signore, fammi uno strumento della tua pace”. È un modo di pensare magico quando facciamo Dio responsabile del benessere sociale, del futuro di questa terra e cerchiamo di influenzarlo con le nostre preghiere e i nostri comportamenti morali. Nel “Padre Nostro” chiediamo che sia fatta la sua volontà in cielo come in terra. Nella preghiera, la parola di Dio e il suo comandamento sono rivolti a noi. Dobbiamo noi essere ascoltatori e accogliere le sue richieste. La preghiera e il culto sono infatti in armonia tra loro quando corrispondono al servizio della diakonia, se ci schieriamo con coloro che sono privati dei loro diritti, se la nostra comunità è capace di proporre una sua opinione critica, di protestare contro i poteri totalitari, e anche contro un comportamento di noncuranza, di silenzio e opportunismo.
La critica profetica culturale ha anche il compito di mettere in discussione gli atteggiamenti “idolatrici” presenti nella società, sia che si tratti del culto della persona, o di idoli, quali il giovanilismo, il denaro, l’immagine, la crescita, o i simboli militari o dello stato. Essere profeta di Dio vuol dire smascherare questi falsi idoli; è profeta chi non promette nessuna vita apparente ma dona la pienezza di vita: ciò fa parte della vocazione cristiana e delle nostre comunità.

Infine, osserva ancora H. Schlegel, essere profeti vuol dire essere socialmente critici. La diaconia nel senso inteso da Gesù è qualcosa di più della beneficenza. Non si tratta di fare il bene in maniera silenziosa o appariscente e di rimediare un po’ alle situazioni sbagliate con l’aiuto al prossimo. Certamente questa è una cosa buona, ma è troppo poco. I profeti prestano la loro voce a coloro che sono senza voce o la cui voce non è avvertita.
Nella sequela di Cristo i cristiani devono essere perciò anche socialmente critici. Devono informarsi dei problemi sociali, attivare i loro molteplici canali di comunicazione e far valere ciò che sta a cuore ai senza voce. Devono praticare una politica fatta di costanza e promozione. Ciò che un giorno Paolo ha scritto, è di una straordinaria attualità: «Sappiamo infatti che tutta la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi” (Ro 8,22). La creazione soffre perché è stata danneggiata, torturata e maltrattata dall’uomo sapiens.
H. Schlelel termina citando un antico testo composto da un ignoto davanti a un crocifisso: «Cristo non ha mani, ha soltanto le nostre mani per compiere la sua opera.
Cristo non ha piedi, ma ha soltanto i nostri piedi per condurre l’uomo sulla sua strada. Cristo non ha labbra, ha soltanto le nostre labbra per parlare di sé all’uomo. Cristo non ha mezzi, ha soltanto i nostri mezzi per portare l’uomo fino a lui.
Noi siamo la sola Bibbia che la gente comune ancora legge. Siamo l’ultima buona notizia di Dio, scritta in parole e opere».