Nel corso del loro ultimo capitolo generale (nov.-dic. 2010), le Figlie di Santa Maria della Provvidenza (Guanelliane), hanno approvato un codice etico che d’ora in avanti contrassegnerà in maniera più esplicita i loro rapporti con tutti i collaboratori coinvolti soprattutto nelle loro opere di carattere sanitario: centri di riabilitazione diurni e residenziali per persone con disabilità, case per persone anziane, residenze per persone in condizione di coma ecc.
In termini “metodologicamente laici” e sulla base di argomenti “prettamente razionali”, è detto nella prefazione, vengono presentati gli “elementi irrinunciabili” anche nel caso di «possibili sviluppi legislativi che potrebbero indicare come obbligatorie scelte come l’aborto o l’eutanasia». Il codice etico ha come unico scopo di «tutelare il valore della libertà di tutte le parti in causa: la libertà dell’opera guanelliana di essere così come deve essere alla luce della sua identità, e la libertà della persona che, non riconoscendosi in essa, deve poter decidere di andare in altro luogo». Non è più possibile, in nome di un sempre più diffuso “liberalismo dell’indifferenza”, considerare equivalenti sul piano morale atti come «curare o non curare, perseverare terapeuticamente o abbandonare terapeuticamente, far nascere o far morire, curare quando non si può guarire o praticare atti eutanasici in nome di una presunta compassione».
L’idea di fondo di tutto il testo è molto esplicita: «qualsiasi uomo, in ogni sua possibile condizione (si tratti semplicemente di una fase di sviluppo come la vita embrionale e fetale, l’infanzia, l’età adulta o l’anzianità, o di un problema di sa¬te o di disabilità) è contraddistinto da una dignità che non ha prezzo». Anche se ai vari collaboratori non viene necessariamente richiesta una piena condivisione della fede cattolica, però, nel lavoro quotidiano, nelle relazioni tra gli operatori, con le persone e le loro famiglie, si può e si deve legittimamente esigere che «non siano mortificate le molteplici possibilità di espressione vitale della fede cattolica». Senza la pretesa di voler dire tutto, nel testo viene chiaramente affermato «ciò che non può mancare nell’azione di qualsiasi operatore guanelliano in qualunque realtà operi, qualsivoglia livello istituzionale e di responsabilità ricopra».

I tre principi ispiranti

In maniera molto schematica e sintetica, il codice etico espone anzitutto i principi ispiratori, quindi i riferimenti etici a cui orientare la propria attività, e, infine, una serie di indicazioni etiche a cui non possono non sentirsi vincolati tutti gli operatori sanitari. I principi ispiratori sono quelli del rispetto della vita umana e della sua dignità, della solidarietà e giustizia, della sussidiarietà. Il rispetto del valore della vita umana è il fondamento di tutti gli altri beni o valori. «Non si può rispettare il soggetto senza rispettarne la vita» nella sua integralità. Ogni persona ha una sua vita non solo biografica, ma anche biologica. È impensabile separare queste due dimensioni, dal momento che ogni persona umana è anche una realtà corporea che cambia nel corso del tempo. In termini metodologicamente laici si può dire che «il corpo non è semplicemente una cosa o l’involucro che contiene la soggettività: è il soggetto stesso e ciò che si fa sul corpo lo si fa alla persona». Non esistono puri corpi. Esistono «uomini che conservano sempre la loro dignità, anche se questa richiede, come nel caso di una persona priva di coscienza, di essere resa, per così dire, visibile negli atti e negli atteggiamenti di chi si relaziona a lei».
Attraverso, poi, il principio di solidarietà e giustizia, si vuole riaffermare che tutte le opere guanelliane sono destinate in primo luogo a coloro che «si trovano in situazione di abbandono e in stato di maggiore povertà». Questa indicazione non risponde solo ad un tratto specifico del carisma guanelliano e a una visione cristiana della realtà, ma anche a un’istanza di giustizia sociale. Risponde, ancora, in maniera critica, a tutte quelle tendenze della cultura contemporanea «che inducono a pensare come inutile tutto ciò che è – o sembra essere – improduttivo». La persona umana, infatti, non perde mai la sua dignità anche quando dipende da altri «per la sua fase di sviluppo, per la presenza di malattie o di disabilità, o per aver perso la capacità di manifestare la propria coscienza». Tramite il principio di sussidiarietà, infine, si chiede allo Stato che «non mortifichi la libera iniziativa delle persone e delle comunità umane esautorandole delle loro capacità di contribuire al bene comune», ma, anzi, che la sostenga e la favorisca.

Le persone prima delle strutture

Poste queste premesse, seguono poi i veri e propri articoli del codice etico. I primi sei riguardano direttamente la centralità della persona umana, l’uso delle risorse, l’aggiornamento professionale, le relazioni con le persone accolte nei centri, le relazioni fra il personale, gli obblighi professionali. La persona umana non può mai essere semplicemente «la somma dei suoi problemi o della sua condizione di salute, malattia, disabilità». Ha un suo imprescindibile valore indipendentemente dalle sue condizioni di salute, dalla sua capacità produttiva o dalle sue qualità. I “comportamenti impositivi” dovranno lasciare spazio alla comprensione e alla condivisione. Qualora tra gli operatori e le persone ospitate, a vario titolo, nelle realtà guanelliane, o con i loro famigliari/legali rappresentanti, si verificasse, di fatto, un’impossibilità di comprensione e condivisione degli scopi e della modalità dell’opera educativa o assistenziale, «non si può che prendere atto – certamente dopo un opportuno periodo di verifica – che sono venute meno le condizioni di fiducia che permettono di proseguire nel lavoro». L’invito, in questo caso, a lasciare il centro presso cui si è ospitati, non va inteso come una “logica ricattatoria”, ma come «l’unica misura, ancorché estrema, che garantisce la libertà di tutti i soggetti coinvolti».
Se il primo obiettivo professionale è la “valorizzazione del quotidiano”, allora è importante che le case guanelliane si presentino come «un mondo aperto e accogliente, capace di ospitare i diversi legami che costituiscono o hanno costituito la vita del soggetto». Gli stessi orari di visita saranno fissati sulla base delle esigenze temporali dei famigliari degli assistiti, tenendo conto dei loro tempi di lavoro o della distanza che devono ricoprire per fare visita ai propri cari.
Anche l’uso delle risorse dovrà essere commisurato sulle esigenze delle persone e non della struttura che le ospita. Il ricorso agli strumenti tecnologici anche più avanzati, non dovrà mai andare a detrimento della relazione personale. Nella programmazione degli interventi si dovrà accuratamente evitare di «creare attese a cui presumibilmente non si potrà offrire una risposta». L’aggiornamento professionale, anche finalizzato a «una chiara consapevolezza delle principali questioni di tipo bioetico», è un dato imprescindibile. La correttezza professionale, poi, impone di non creare legami affettivi esclusivi con le persone o i loro familiari. Soprattutto dovrà essere «rigorosamente evitato qualsiasi tipo di atteggiamento che possa anche soltanto essere interpretato come una forma di molestia».
A tutti gli operatori, inoltre, è richiesta non solo la condivisione dei progetti e dei piani di lavoro, ma anche un clima di piena collaborazione «al fine di creare un ambiente sereno in cui le persone possano davvero sentirsi accolte». Agli operatori vengono richiesti non solo puntualità sul lavoro, abbigliamento e linguaggio consoni agli scopi profes¬sionali, ma anche tutto quell’impegno che consenta di portare a compimento i progetti cui ci si è professionalmente dedicati.

I problemi eticamente sensibili

Negli articoli successivi vengono direttamente affrontate le questioni più sensibili e di maggior risonanza anche a livello pubblico: consapevolezza etica, proporzionalità dei trattamenti, rifiuto di aborto, abbandono terapeutico di eutanasia, perseveranza terapeutica, cure palliative.
Non è possibile avere una chiara consapevolezza bioetica senza una specifica e puntuale formazione professionale al riguardo. È importante capire come la qualità della vita debba fondarsi sul principio della proporzionalità dei trattamenti. Solo in tal modo è possibile «riconoscere quando un determinato trattamento, essendo sproporzionato, non rispetta più la dignità umana». È il caso, ad esempio, dell’accanimento terapeutico. Quando certi trattamenti sono sproporzionati rispetto alla situazione clinica del paziente, di fatto «causano più danni che benefici alla persona trattata e non riescono né a stabilizzare né a migliorarne la condizione generale» (A. Pessina).
Gli operatori sanitari che svolgono il loro servizio nelle case guanelliane sono invitati a «rifiutare categoricamente qualsiasi forma di aborto procurato direttamente, di abbandono terapeutico e di eutanasia». Qualsiasi prassi che abbia finalità direttamente abortiva, sia in forma chirurgica sia in forma farmacologica, così come l’abbandono terapeutico e assistenziale (inteso come omissione volontaria degli atti proporzionati e adeguati alla situazione clinica del paziente), risultano “incompatibili” con l’identità e lo scopo della missione guanelliana. Anche l’eutanasia (atto con il quale si provoca direttamente e volontariamente il decesso di una persona in situazioni gravi di malattia e disabilità), «non può mai essere intesa come soluzione al problema della sofferenza».
Gli operatori sanitari guanelliani sono, inoltre, invitati a «promuovere, in modo critico rispetto alle logiche astensioniste che si diffondono nel settore della medicina, il valore della perseveranza terapeutica». Si tratta di una modalità con cui ci si prende cura delle persone anche in presenza «di patologie inguaribili o di esiti inarrestabili del processo patologico». È fondamentale, in questi casi, il criterio della proporzionalità dei trattamenti, dal momento che è possibile annoverare tra le forme assistenziali «anche quelle che permettono un processo del morire il meno doloroso e traumatico possibile» (A. Pessina).
Il riferimento alla proporzionalità dei trattamenti come criterio della perseveranza terapeutica apre, infine, al dovere morale di offrire efficaci “cure palliative” che includono anche l’assistenza morale, psicologica, spirituale e religiosa e trovano la loro massima espressione nell’accompagnamento del morente. Il morire, infatti, «è ancora un atto – l’ultimo – del vivere del soggetto». Le esigenze della struttura assistenziale passano sempre in secondo piano di fronte al morente che chiede tempo e spazio per prendere commiato dalle persone care.
Proprio in queste delicatissime situazioni, i medici, «sono chiamati a dire la verità circa la reale condizione clinica del soggetto, soprattutto se “infausta”; non possono, infatti, delegare ad altri (personale infermieristico, psicologi o familiari) «questo compito peculiare della loro professione». Tutti gli operatori che operano nelle case guanelliane, è detto al termine del codice etico, si impegnano ad osservarlo e a farlo osservare nel modo più puntuale possibile.
Al termine della presentazione sintetica di un documento molto più articolato, a tutte le persone più direttamente interessate un doveroso invito: farne una lettura integrale. Alle figlie di don Guanella va sicuramente il merito di aver aperto una strada molto opportunamente percorribile anche da parte di tanti altri istituti religiosi, maschili e femminili, alle prese con analoghi e attualissimi problemi.