Incontriamo a Roma padre Samir Khalil Samir, egiziano nato al Cairo nel 1938, docente di storia della cultura araba e di islamologia all’Università Saint Joseph di Beirut e al Pontificio istituto orientale di Roma. Dialoghiamo sui recenti sommovimenti nel nord Africa, In crisi per contagio sono i regimi immobili dei vari paesi: Libia (Gheddafi governa da 42 anni), Yemen (Saleh è presidente da 32 anni), Egitto (Mubarak in carica da 30 anni), Tunisia (Ben Ali da 24 anni), Algeria (Bouteflika da 12 anni).

In questo momento tutto il nord Africa è in ebollizione. Può aiutarci a leggere ciò che accade?
P. Samir. Il mondo arabo è sempre stato molto lento nell’assimilazione del nuovo. A causa della visione circa la rivelazione, l’islam guarda indietro: il suo modello è nel passato, la tradizione è “cristallizzata” a tal punto sul Corano da impedirne proprio la trasmissione (il tradere) come la intendiamo noi.
Ci sono tuttavia alcuni paesi che costituiscono una punta più avanzata rispetto agli altri. Il Libano è sempre stato tra questi: è il centro culturale del mondo arabo, piccolo paese religioso ma non musulmano, sempre attivo nella trasmissione delle nuove idee.
Dopo il Libano, il paese più aperto e libero era la Tunisia, che sotto l’influsso di Bourghiba (primo presidente dopo l’indipendenza dalla Francia) si è parecchio laicizzata: un esempio lampante è l’introduzione della monogamia. Molti tunisini hanno studiato in Francia e anche in altre nazioni; dunque non possono più sopportare la mancanza di libertà istaurata dal presidente Ben Ali.
Il motivo che ha innescato la ribellione dell’Egitto è diverso: è la miseria. Siamo arrivati a 84 milioni di abitanti. Quando ero giovane, nel 1952 anni della rivoluzione nasseriana, imparavamo a scuola che gli abitanti erano 21 milioni. In quasi sessant’anni siamo quadruplicati. La conseguenza è che abbiamo milioni di lavoratori egiziani nel Golfo e in Arabia. Ora, si sa che l’Arabia Saudita è il paese islamico più chiuso (da lì parte il movimento nazionalista e fondamentalista denominato “wahhabismo”) e molti egiziani oggi lo considerano un modello. Essi mutuano da quel paese stili e comportamenti da diffondere in Egitto, la loro patria, che così è progressivamente diventata tradizionalista. In questo contesto si temono infiltrazioni dei Fratelli musulmani (organizzazione fondata in Egitto nel 1928 dopo il collasso dell’impero ottomano), non tanto in quanto fautori del terrorismo ma in quanto promotori dell’applicazione della sharia (complesso di norme religiose, giuridiche e sociali fondate su dottrina coranica e tradizione muhammadiana). I Fratelli sicuramente entreranno nel nuovo governo: pur essendo vietati in tutti i regimi precedenti; già nell’ultimo Parlamento erano arrivati a quota 88 rappresentanti, essendosi fatti eleggere in tutti i partiti. Tra i gruppi dei manifestanti in piazza essi sono gli unici ad avere un leader capace di dare la linea. Questo è il pericolo: poiché sono i più organizzati rischiano di dare l’orientamento. Come del resto accade in Libano, dove Hezbollah è super organizzato: comandano e guai a chi non segue!

L’impressione quindi è che non si tratti soltanto di “pane e lavoro”, ma di una sollevazione che vuol fare piazza pulita finalmente di certi regimi corrotti e inaugurare un’epoca storica nuova.
P. Samir. In questo momento è come se fosse esplosa una cappa. La gente sta riflettendo: allora è possibile una maggiore libertà! La Siria, per esempio, ha reso libera la navigazione in internet, ma ha un sistema talmente poliziesco che saprà controllare tutto e tutti. Si tratta di un movimento rischioso che nello stesso tempo è una speranza. Se guardiamo alla durata dei governi in quest’area capiamo che c’è una legittima ebollizione.
Il re di Giordania, che è moderato, subito ha annunciato le riforme. In Egitto comunque si muove chi ha fame: più di 30 milioni di persone che non arrivano a due dollari al giorno, un euro e mezzo, il 40% della popolazione! Tra i giovani diplomati la disoccupazione arriva al 50%. La seconda categoria che si sta muovendo è quella degli intellettuali, che vogliono liberarsi dalla cappa della non libertà. Non siamo in un sistema dittatoriale, ma in una autocrazia (si sa che Mubarak stava passando il potere al figlio). Gli egiziani hanno spirito comico e le scritte che appaiono dicono al presidente: “vattene che devo andare al bagno!”, “vattene, mi sono sposato la settimana scorsa e ho voglia di ritrovare mia moglie!”. Battute di persone che vogliono semplicemente vivere, che non odiano. C’è proprio un nuovo movimento intitolato “Basta”. L’esercito, che è con il popolo, è fatto di gente che cerca di vivere tranquillamente, con paga garantita.

Dunque siamo di fronte a una rivoluzione culturale dagli esiti imprevedibili?
P. Samir. I vari movimenti nazionali sono collegati in internet. Google è stato abilissimo a implementare la comunicazione con canali e telefoni speciali non controllati dal governo.
Ho pubblicato su Asia news due articoli che sottolineano come il 24 gennaio, il giorno prima dello scoppio della rivoluzione, sia stato reso noto un progetto che nasce da una rivista ed è chiamato “La riforma del discorso islamico”. Tale progetto è stato messo in rete e subito ci sono stati 161 interventi sul sito, poi l’attenzione si è spostata sulla piazza.
Ma il dibattito riprenderà perché è una proposta lanciata da un settimanale che ha contattato 23 pensatori musulmani (imam e laici) per ripensare il discorso islamico e ha tirato fuori 22 punti per una riforma. Troviamo il tema del rapporto tra stato e religione, quello tra uomo e donna, il rapporto col sesso, la relazione con le altre religioni ecc. Ho tradotto i punti e ho dato qualche commento quando ho trovato le riflessioni della rivista. E il commento è ancora meglio della sintesi: andando a leggere è più moderato e insieme più ricco. È un progetto che nasce in Egitto.
La rivoluzione non è dunque solo del pane, non è solo della libertà ma è anche della religione. Stiamo vivendo un passaggio storico. La preoccupazione circa i Fratelli musulmani è parte del sistema: se non vogliamo una dittatura occorre accettare il fatto che ci sia una parte del paese che è profondamente islamica e vuole seguire tutte le regole, e che ci sia una parte laica che vuole la sua libertà. Ho letto oggi un articolo di qualche mese fa sul Ramadan. Nel Marocco è stato ripristinato l’obbligo del Ramadan, per cui chi mangia pubblicamente va in prigione. Ora, c’è stato un gruppo di giovani che sono appositamente andati in piazza a mangiare e sono finiti in galera. L’indomani una nota giornalista ha scritto un articolo per dire che i giovani hanno torto nella loro provocazione, però stanno chiedendo libertà di coscienza: lo fanno con metodo sbagliato, ma si deve comprendere che ormai la gente ha solo la forma religiosa per esprimere disagio. La gente non scende in piazza contro le ingiustizie sociali, che è un fatto ben più anti-islamico che il mangiare durante il Ramadan, e allora utilizza la protesta religiosa. Dov’è dunque l’islam in tutto questo? La giornalista vuol dire che abbiamo preso le forme esterne e non il cuore dell’islam. Uno dei punti del progetto di riforma dell’islam riguarda proprio la critica a una religione esteriore (l’abito, la barba, il velo, la questione se sia possibile usare il rossetto).

L’Egitto è sempre stato considerato una specie di baluardo in tutta la zona mediorientale contro ogni estremismo, compreso quello iraniano. Qual è in questo momento la posizione di Israele che è forse il paese che si sente più minacciato, e quali i rischi cui potrebbe andare incontro?
P. Samir. Si sa che con Mubarak non si sarebbe mai fatto nulla né contro Israele né contro gli Usa. Non si morde infatti la mano di colui che ti dà il pane. Lo stesso principio vale per le relazioni tra Egitto e Arabia Saudita (da qui, come già detto, si apre una porta all’islamismo). Chi paga, del resto, comanda.
A riguardo di Israele voglio però dire una cosa. Se veramente Israele vuole vivere in pace, ricordi che la pace è fondata sulla giustizia, come dice il papa. Ora, la giustizia significa a livello internazionale la legalità, che si esprime bene o male attraverso l’Onu. Le risoluzioni dell’Onu, sia quelle a mio favore sia quelle contro, le devo applicare. Anche i palestinesi dicono che quella è tutta terra loro e che non hanno fatto nulla di male per averne solo la metà! Io dico però che i loro responsabili nel 1948 erano traditori e venduti… ma ormai occorre saper accettare la storia. Volete la pace? Non ci sarà mai pace al di fuori delle decisioni dell’Onu! Dopo tanti anni se gli israeliani vogliono mantenere gli insediamenti allora sarà guerra: non si può ammettere che qualcuno occupi la terra altrui. Vuoi la pace? Rispetta la frontiera: dentro hai pieni poteri, ma non se passi dall’altra parte. E questo vale sia per gli israeliani che per i palestinesi. Si consideri come Gerusalemme sia stata di fatto oggi occupata da un muro di grattacieli, come giorno per giorno gli israeliani occupino case dei palestinesi in città: in questo modo gli israeliani stanno costruendo la loro tomba.
Comunque, una cosa mi ha colpito durante le manifestazioni in Egitto: non è stata bruciata alcuna bandiera americana o israeliana. Non si tratta insomma di un movimento anti qualcosa ma pro-vita. Ricordiamo comunque che è facile manipolare chi ha fame e si potrebbe incominciare a dire che le cose vanno male a causa degli americani o di Israele. La vera pace è nella giustizia, nel riconoscimento della legalità internazionale e nella non violenza.
Aggiungo ancora: sull’Egitto c’è pressione dell’Arabia Saudita ma non dell’Iran, soprattutto per l’odio tra sunniti (gli egiziani) e sciiti (gli iraniani). Il vero pericolo viene proprio dall’Arabia Saudita ed è ideologico, non militare. L’ideologia wahhabita guadagna terreno con piccole cose: es. il velo integrale che non si è mai visto in Egitto prima di questi anni! Nel passato ho visto ragazze che accettavano di mettere velo, abito lungo e guanti ed erano pagate con un mezzo salario mensile.

Cosa potrebbe significare per le minoranze religiose, e in particolare per i cristiani, di questi paesi, l’affermarsi di un islam sempre più radicale e intransigente?
P. Samir. Una minoranza dei cristiani cerca la sicurezza. Il male che conosciamo è meglio del bene che non conosciamo. Per questo motivo il patriarca copto ortodosso Shenuda III, così come quello cattolico il patriarca cardinale Antonios Naguib, è stato cauto e all’inizio stava con Mubarak. Ma al quarto giorno i cristiani si sono coinvolti. Già nella rivoluzione anti-inglese del 1919 e del 1922 del resto si videro scendere in strada imam e preti, con l’abito, ed è nato un partito con musulmani e copti, il Wafd. Oggi si sono visti musulmani che pregavano di fronte ai carri armati ed erano protetti dai copti e dai non credenti. I cristiani anche hanno pregato e sono stati difesi dai musulmani. Questo è bellissimo. Lo spirito di questa rivoluzione non è di parte. Il popolo vuole davvero vivere nella libertà e nella giustizia.

Come sta seguendo il mondo occidentale l’evoluzione in atto? E la Cina sta solo a guardare?
P. Samir. La Cina ha interrotto i collegamenti internet con l’Egitto, perché ha paura di suscitare degli imitatori. La Cina in Egitto entra con trucchi di piccolo commercio. Invece in Algeria nel campo petrolifero sia ingegneria che manodopera è tutta in mano cinese! Qui c’è un progetto voluto. Il pericolo giallo comunque per il momento non è grave, anche se la Cina guadagna terreno nel mondo arabo perché propone un prodotto migliore a basso prezzo.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, l’Egitto è un partner docile: permette di mantenere la pace tra arabi e Israele; c’è scambio di armi. L’Egitto riceve molto denaro dagli Usa. In questo momento c’è imbarazzo e il presidente Obama ha invitato Mubarak a lasciare il campo, mostrando che la politica americana sta dalla parte del popolo egiziano. Io non penso che questa sia una buona politica perché entra tropo negli affari interni egiziani.
Una realtà a rischio è la vendita da parte dell’Egitto di gas e petrolio a Israele. C’è questo mercato anche se non accettato da alcuni ambienti musulmani o dalla sinistra politica, che bollano questo commercio con Israele come tradimento. Ma io penso che i due paesi si riconoscono ed è legittimo lo scambio commerciale. Io col mio passaporto egiziano posso andare direttamente in Israele. L’Egitto non ha perso nulla facendo la pace con Israele: si è recuperato il Sinai. Mentre la Siria ha perso il Golan.

È stato detto che dopo il crollo del comunismo il grande nemico da combattere sarebbe stato l’islam? Qual è il suo pensiero al riguardo?
P. Samir. L’islam è evidentemente un pericolo, perché il seme della violenza e del proselitismo sta nel Corano e nella vita di Maometto. Nell’evangelo assolutamente no. Una corretta interpretazione deve essere onesta: anche i brani dove Gesù o Paolo citano la spada vanno compresi nella loro profondità. Sfido chiunque a dimostrare che Cristo ha usato la spada! Egli piuttosto ha preso su di sé la violenza e ha distrutto il muro di separazione. Sia il Vangelo che Cristo sono l’anti-violenza. Che il cristiano abbia poi fatto le cose peggiori è vero, ma questo non è nello spirito di Cristo.
Nei miei corsi insegno che l’islam è un progetto religioso a fondo politico. Non c’è il principio di laicità secondo il “rendete a Cesare quel che è di Cesare, rendete a Dio quel che è di Dio”. Maometto voleva riunire un popolo sotto la bandiera di Dio e del suo messaggero.
Come aggirare questo pericolo? Proponendo un modello di società che sia religioso e insieme laico. Il modello di laicità proposto dall’occidente per me concretamente significa una società “senza Dio”. Il modello cristiano invece punta sulla distinzione dei campi, lasciando però che Dio e l’etica penetrino in tutti i campi. Per esempio se il popolo decide per il divorzio, io in coscienza dico che è un male per la società, ma se il popolo democraticamente sceglie il male io lo rispetto. Non si può imporre il bene, si può solo proporlo.