Ancora nel 1986, in occasione del convegno promosso da “Testimoni” al Passo della Mendola, insieme p. Tillard , Enzo Bianchi aveva avuto modo di parlare di “ombre e luci” della VR a vent’anni dal concilio. Lo aveva fatto con toni e contenuti molto simili a quelli riproposti nell’annuale assemblea Cism, svoltasi nel novembre scorso a Milano-Segrate . «Ho letto e riletto più volte, ha esordito il priore di Bose, quella relazione. Devo dire che mi sento di confermarla oggi in ogni suo punto. Ma ricordo anche che la sua proposta non è piaciuta ad alcuni di quei religiosi che, in quei decenni, erano ritenuti le “bussole” del rinnovamento della VR in Italia». Nella “fraternità solidale” e nella “verità” di allora, anche questa volta, parlando ai provinciali italiani, ha cercato di dire “quello che pensa”. Lo ha fatto per punti: diagnosi della crisi, analisi della situazione, domande ineludibili, esigenze urgenti per il futuro.

La crisi attuale un “evento pasquale”


Questi ultimi decenni, ha detto, sono stati quelli del «più rapido e, forse, più esteso mutamento non solo della forma vitae, ma anche della teologia della VR». L’attuale crisi della VR va letta con “coraggio e lucidità”. «In una diffusa situazione d’incertezza, (la VR) sta forse vivendo la fase conclusiva di un faticoso trapasso». Ma, attenzione! Questa crisi, non è una crisi nel senso di una “decadenza spirituale o morale” come lo può essere stato in passato. Va letta, piuttosto, come una “tribolazione” (in senso paolino, una thlipsis), come una “ars moriendi”, una “infirmitas”, una “debolezza” di fronte a un futuro che avanza impetuosamente. Va letta come un “esodo”, un “evento pasquale” in cui «qualcosa certamente muore, ma, insieme, qualcosa rinasce nella continuità di ciò che, nella VR, resta fondativo».
Bastano pochi dati statistici per cogliere gli aspetti più immediati di questo “esodo”. Negli ultimi cinquant'anni i religiosi in Italia sono passati da 27.000 a 19.000 e le religiose da 153.000 a 90.000, con un calo proporzionalmente molto più accentuato da parte delle religiose. Da un’analisi più dettagliata dei dati, poi, è accertato che il calo dei religiosi laici è molto più rilevante di quello dei religiosi sacerdoti. Sono dati sui quali si dovrebbe «riflettere molto più a fondo». Non basta giustificare questo preoccupante stato di cose affermando che la VR oggi non sarebbe più fonte di “promozione sociale” come lo è stato in passato. Nel caso specifico della fortissima contrazione numerica dei religiosi laici, una spiegazione si potrebbe sicuramente ritrovare nel fatto che, come sta avvenendo, ad esempio, nel seminario regionale della Puglia, «il sacerdozio, con il potere e la responsabilità ad esso connessi, suscita ancora oggi nuove vocazioni».
La crisi, si chiede Enzo Bianchi, è solo delle persone o forse, in misura ancora maggiore, non anche dello “statuto” della stessa VR? Pensando, inoltre, al progressivo aumento dell’età media dei religiosi/e, non si dovrebbe mai sottovalutare «il fatto della stanchezza e, in non pochi casi, anche della frustrazione vera e propria che contrassegna tante situazioni di VR». L’entusiasmo e la speranza che avevano contrassegnato l'epoca del rinnovamento postconciliare, oggi sono sempre più lontani.
Non è in crisi solo la VR tradizionale. Anche nelle “nuove comunità” di vita consacrata «sono tramontate da tempo le forti convinzioni e l’entusiasmo degli inizi». Soprattutto la seconda generazione di queste “nuove” realtà, dimostra di non essere più quella “primavera” tanto sperata ed entusiasticamente osannata, a suo tempo, un po’ ovunque. Dovrebbe far riflettere il fatto che, ad esempio, in Francia, più della metà di queste “nuove comunità” sono attualmente sotto “visita apostolica”.

I religiosi e il Vaticano II

Ma che cosa è successo in questi cinquant'anni postconciliari? Non si può sottovalutare, prima di tutto, il “contributo decisivo” che i religiosi/e hanno saputo dare all'aggiornamento conciliare della vita della Chiesa. Anche loro sono stati “protagonisti laboriosi e impazienti” nell'attuazione non solo dello spirito, ma anche della lettera del concilio inserendosi attivamente nella vita delle Chiese locali. In particolare, lo sono stati nella riforma liturgica, nell'affermazione della centralità della Parola di Dio, nell'instaurazione del dialogo con le altre comunità cristiane, con le altre religioni, con gli uomini non credenti. Spesso nel nascondimento, senza contestazioni, i religiosi/e in Italia, hanno lavorato per una riforma conciliare impegnandosi, con modalità diverse ma sempre determinanti, sia come congregazioni che personalmente. «Conosco abbastanza bene la VR dei paesi francesi per dire che in quei paesi, ad esempio, non è stato così». Basti pensare a quel superiore generale che nel 1966 ha inviato un messaggio a tutti i religiosi della sua congregazione dichiarando che a loro il concilio, essendo pastorale, non interessava affatto e non li riguardava. «Queste cose in Italia non sono mai avvenute». I pochi casi di contestazione nella recezione dei grandi temi conciliari potevano essere imputabili ai singoli, non certamente alle loro congregazioni.
Non si può dire, invece, la stessa cosa per ciò che è accaduto nella forma vitae dei religiosi e nel come essi hanno vissuto alcune istanze di rinnovamento. Molto opportunamente, anche se con tutti i limiti del caso, Enzo Bianchi ha tentato una periodizzazione di questi decenni postconciliari. Il primo periodo (inizi anni ’60 e fine anni ’70), è sicuramente caratterizzato da una “rapida lievitazione” dei fermenti di rinnovamento della VR. Ma va anche detto, con tutta onestà, che «non furono i padri conciliari provenienti dalla VR a manifestare istanze di riforma. Nessuna voce di quei superiori-padri conciliari ha mostrato istanze di riforma nel cammino della Chiesa. Sono stati i vescovi non appartenenti a ordini religiosi a chiedere alla VR di interrogarsi e di intraprendere un rinnovamento. Non è venuto dai religiosi il contributo più significativo in vista di un loro cammino di riforma».
Perché meravigliarsi, allora, se - come è stato osservato da molti - il decreto Perfectae caritatis, tra i vari documenti conciliari, «risulta uno dei più poveri e sprovvisti di qualità profetica e di indicazioni feconde per il rinnovamento della VR?». Purtroppo, questa scarsità d’indicazioni conciliari “forti” e soprattutto l'inadeguatezza del cap. 6° della costituzione Lumen Gentium sull’identità e la collocazione della VR nella vita della Chiesa, «peseranno non poco negli anni del postconcilio». Il priore di Bose confessa di essersi ritrovato molte volte con p. J. M. Tillard, p. T. Matura e altri a confrontarsi proprio sulla «debolezza della lettera del concilio» sui temi di fondo della VR. «Nel caso dei religiosi è sicuramente possibile dire che ha dato una spinta maggiore lo spirito del concilio che non la lettera del concilio».
Grazie proprio allo spirito del concilio, la VR ha potuto affrontare l’aggiornamento come «un esodo, un’attraversata nel deserto, carica di sofferenza, di fatica, ma anche di scoperte e di acquisizioni essenziali». Un po’ in tutte le congregazioni, insieme alle Costituzioni e alla Regola, si è ripensata la propria forma vitae. Sulla scia lunga delle riforme conciliari, anche nell’ambito della VR, si è manifestata da subito la volontà di un “ritorno alle fonti”. Tutta la ricca letteratura della e sulla VR così abbondante negli anni ‘60 e ’70 «testimonia la ricerca fatta in questo senso e i mutamenti intrapresi». Non è cambiato soltanto l’abito. Viene riconosciuta la soggettività dei singoli religiosi/e unitamente a tante altre e conseguenti istanze come il rispetto della persona e dei suoi primi inalienabili, il superamento della relazione superiore-suddito, il passaggio, nella vita comunitaria, dall'osservanza uniforme delle regole e degli esercizi di devozione alla condivisione, alla comunicazione, alla relazione fraterna, alla corresponsabilità. L’antica e diffusa “autarchia pastorale e spirituale” della VR, ha ceduto il posto ad un sempre più reale innesto nella Chiesa locale. È finita, così, quella che Enzo Bianchi chiama la fuga Ecclesiae, una fuga non meno “peccaminosa” della fuga mundi, della fuga, cioè, non dagli uomini, ma dalla mondanità.
Molte famiglie religiose, in una società sempre più lontana dai tempi della fondazione del proprio carisma, si sono trovate nella necessità di inventarsi una nuova diaconia, una nuova missione apostolica. Senza accorgersene si è andata verificando, di fatto, una “secolarizzazione” delle espressioni della VR: abito, case, spazi di clausura ecc., con la conseguente riduzione delle differenze tra una congregazione e l’altra e la riscoperta, nello stesso tempo, di «una comunione, una solidarietà possibile tra loro, particolarmente nell'ambito della Chiesa locale». In quel periodo si è avvertita l’esigenza della creatività, di una presenza come vera testimonianza. Si sono cercate ed esperimentate nuove forme di vita più semplici, a misura d’uomo, «inserite in contesti sociali allora giudicati creditori dell'annuncio del Vangelo».

Gli anni dell’entusiasmo e degli abbandoni

Quelli furono gli anni della fioritura di piccole comunità, soprattutto urbane, formate «da frati o suore che cercavano con l'uscita dalle grandi case o dalle opere degli istituti di provenienza, una forma più rispondente ai segni dei tempi, dei segni dei luoghi, nonché più fedeli, secondo il loro giudizio, al Vangelo». La stessa scelta della condizione di lavoro rispondeva soprattutto a «una logica d’inserimento nel quotidiano dei poveri, nelle periferie urbane, nelle aree scristianizzate», inseguendo il “discutibile” ideale, allora molto in voga, di “vivere come loro”. Tutto questo, osserva Enzo Bianchi - che in quel tempo, anche per espressa volontà del card. Pellegrino, aveva accompagnato da vicino diversi tentativi del genere - «testimoniava la volontà di rifuggire esenzioni e privilegi, esprimeva un desiderio di solidarietà con gli ultimi e dava la possibilità a molti di un’espressione nuova di vita, sconosciuta nelle tradizionali forme religiose».
Si trattava, allora, di mutamenti che le congregazioni hanno accettato alcune volte “con benevolenza”, altre volte “con rassegnazione” o “con difficoltà”, per non parlare dei casi in cui sono state obbligate «ad espellere dal loro corpo e a riconoscere queste nuove vie come incompatibili con la loro identità». Purtroppo, in quel tempo è mancata, da parte dei superiori religiosi, la forza e l’autorevolezza necessarie per comprendere che la VR «si stava avviando verso una pluralità di orizzonti. Quello, i superiori religiosi allora non lo hanno capito e soprattutto non hanno saputo guidare, accompagnare, e anche, all’occorrenza, correggere questi movimenti creativi».
Anche qui, allora, perché stupirsi se «l'esito di molti di questi tentativi fu la perdita dell'identità religiosa»? In troppi casi non si distingueva più la comunità di un istituto secolare da quella di una congregazione o di un ordine con secoli di storia alle spalle. Non sono mancati casi in cui l’inserimento nel mondo «diventava un annegare nella mondanità» o si trasformava in una vera e propria “militanza politica”, con l’esito scontato di «sfigurare quella diaconia che si voleva svolgere a favore dei poveri». Sono stati gli anni dell'entusiasmo della riforma, ma anche di molti abbandoni. «Quanti uscirono in quegli anni! Chi c’era lo sa! Quante contraddizioni!». A volte, proprio i più entusiasti artefici del rinnovamento, «sono stati i primi a lasciare».

L’affannosa ricerca del carisma


Nel secondo periodo che va dalla fine degli anni ’70 al 2000, Enzo Bianchi pensa di poter affermare che «si è compiuta la presa di consapevolezza di un mutamento di paradigma antropologico, sociale ed ecclesiologico». All'inizio degli anni ‘80 si parlava comunemente di tramonto della cristianità e dell'ecclesiologia universalistica ed eurocentrica, di emergenza non solo del multiculturalismo ma, soprattutto, del soggettivismo individuale, con pesanti ripercussioni anche nell’ambito della VR. Inevitabili allora le domande sul senso della VR, sulla sua identità, sulla sua capacità profetica, sul suo posto nella Chiesa. Proprio in quel periodo, afferma il priore di Bose - pienamente consapevole di esprimere su questo punto un giudizio non solo critico, ma anche severo – volendo trovare una risposta solo a queste domande, si è andata innescando una «affannosa ricerca o riscoperta del carisma del fondatore».
Ogni congregazione, soprattutto nel mondo femminile, ha speso le sue migliori energie in questa direzione, distogliendole «da quella riforma che andava cercata soprattutto nel Vangelo, ed eventualmente riscoprendo lo spirito che aveva ispirato il fondatore o la fondatrice». Siamo onesti, dice Enzo Bianchi. È sicuramente facile «parlare del proprio carisma quando il fondatore è un san Francesco, un san Domenico, un sant'Ignazio di Loyola». Ma quando la fondatrice «è una santa donna che, magari sollecitata dal suo vescovo, ha risposto semplicemente a un bisogno emergente in quel determinato luogo, trovare i carismi e “cantarli” diventa molto difficile».
Proprio ancora all’inizio degli anni ‘80, ci fu qualcuno - «non ero io», ma una persona più autorevole, ha precisato il relatore - che aveva avanzato con insistenza la richiesta di un sinodo sulla VR. Ma quella voce «non fu ascoltata e intanto la VR mostrava sempre più i segni della sua debolezza». Purtroppo, quelli furono anche gli anni di «una incomprensione, andata via via crescendo, tra Santa Sede, molti vescovi e i religiosi». Di fronte all’autorità ecclesiastica, i religiosi avevano ormai definitivamente compromesso la loro qualifica di “figli prediletti della Chiesa” di pacelliana memoria.
A partire, poi, dagli anni ’80, di fronte una considerazione crescente, da parte della gerarchia, dei nuovi movimenti ecclesiali, sempre più numerosi e visibili nelle Chiese locali, «la VR è stata in qualche modo abbandonata a se stessa. Non ha più sentito su di sé né gli occhi di predilezione, né gli occhi di chi l’avrebbe voluta in qualche senso sostenere». Forse questo può ancora oggi dispiacere a qualcuno, ma va onestamente «riconosciuto, senza lamenti, senza recriminazioni». Erano gli anni della crescente secolarizzazione,della scristianizzazione, della presa di coscienza, da parte dei cristiani, di essere diventati una “minoranza” all'interno di un Occidente segnato dall'indifferenza. Andava sempre più emergendo la figura dell'individuo «che vuole essere libero, vuole autodeterminarsi, che rifiuta l'autorità esterna e privilegia l'autorità propria, non sente più come determinante l'appartenenza». Prendono il sopravvento l’esperienza vissuta e l’intensità emozionale. Le diverse forme di vita comunitaria, la convergenza verso un progetto comune, l’assunzione di responsabilità «con gli altri e mai senza gli altri», sono tutte prospettive che «non solo non esercitano più nessun’attrazione, ma sembrano, anzi, sempre più contraddette» (dalla realtà).
Solo verso gli anni ’90, di fronte alla presa d’atto della problematicità crescente della vita comunitaria, la congregazione degli istituti di VC, per la prima volta nella sua storia, ha tentato di affrontare questo tema. Nel suo discorso, tenuto il 20 novembre 1992 alla “plenaria” della medesima congregazione, Giovanni Paolo II «sembrò aver capito uno dei punti focali della crisi», quando ha affermato che «tutta la fecondità della VR dipende dalla qualità della vita fraterna in comune». «Con molto ritardo è venuto poi il Sinodo sulla VR del 1994», seguito due anni dopo dalla pubblicazione dell’esortazione apostolica “Vita consecrata”. Era un testo certamente ricco di tutte le acquisizioni postconciliari nel campo del rinnovamento della VR. Ma Enzo Bianchi si permette di dire e di esserne ancora pienamente convinto a distanza di 15 anni, che quel testo «è arrivato, come lo stesso Sinodo, troppo tardi, un testo che non apriva grandi visioni sul futuro».

Rifondazione e precarietà diffusa

Dopo il periodo del rinnovamento, dopo quella della ricerca del carisma del fondatore, eccoci al terzo periodo (dal 2000 ad oggi), quello della rifondazione. Rifondare la VR, riscattare la sua dimensione teologale: in quegli anni «non si parlava d’altro». Al di là di tutti i ricorrenti slogan sulla rifondazione o sulla fedeltà creativa, in realtà, in quel periodo, andava sempre più emergendo “la precarietà”. Sia che si parlasse del futuro delle comunità o del futuro delle opere (affidate sempre più spesso ai laici, ma non per questo necessariamente garantite nella loro efficacia), da ogni angolo spuntava sempre il tema della precarietà. Basterebbe semplicemente chiedersi quanti religiosi oggi abbandonano la VR dopo i 50 e i 60 anni. «Chi l'avrebbe mai detto?». Rispetto al passato, oggi è generalmente più facile trovarsi una qualche sistemazione. Quante suore, ad esempio, in uscita dal proprio istituto, trovano senza difficoltà «un prete che mette loro una cuffia in testa e se ne serve per la sua parrocchia».
Perché, si chiede Enzo Bianchi, non voler guardare in faccia una realtà sempre più contrassegnata dalla precarietà? Perché continuare, invece, parlare di “caos”, di “notte oscura”, di “stagione invernale” della VR? Di fronte a simili riletture caricaturali del postconcilio, «m’indispettisco quando leggo questi libri e mi rincresce che siano così letti da parte dei religiosi». Il problema vero, oggi, è quello di una VR «sempre meno attraente e sempre più anacronistica per le nuove generazioni che non riescono a cogliere in essa, a ragione o a torto, l’evangelicità e la possibilità di una sequela concreta, per tutta la vita, del Signore Gesù».
Anche se la crisi della VR va necessariamente collocata nel contesto della crisi non solo di tutto l’Occidente, ma anche della Chiesa, non è comunque corretto pensare che questa crisi venga «dall'esterno della VR», sottraendosi così, in partenza, alle doverose domande sulle sue eventuali inadempienze. «No. La crisi, come insegna la Bibbia, potrebbe anche essere un giudizio di Dio sulle nostre inadempienze, potrebbe essere una prova, o, come dicevo fin dall'inizio, una tribolazione in vista di una riforma, di una conversione». La Scrittura, infatti, è lì a ricordare che «il giudizio di Dio sui credenti interviene quando c'è infedeltà nella propria vocazione, quando, per la durezza del cuore (sclerocardia), i credenti non sono più capaci di leggere l'oggi di Dio».
Senza colpevolizzarsi più di tanto e senza scaricare su altri le proprie responsabilità, basterebbe avere il coraggio di porsi delle semplici domande «per verificare dove siamo e dove stiamo andando». Eccone alcune: «In questi decenni di rinnovamento, la VR ha cercato di essere ciò che la sua vocazione le chiede, ossia una memoria vivente del Vangelo? La VR ha cercato di essere nella Chiesa il luogo che indica in modo limpido, per quanto è possibile a noi uomini, la croce e la sua efficacia? La VR non si è qualche volta lasciata tentare dal rincorrere a forme e a metodi mondani, a forme di aggiornamento che non è secondo la logica adottata come stile di vita da Gesù? La VR ha saputo custodire quel nucleo irrinunciabile che consiste nella sequela di Cristo, cercando di vivere come l'uomo Gesù è vissuto? Si è veramente convinti che l'unico vero compito della VR è quello di essere nella Chiesa e tra gli uomini segno di rappresentanza della vita Jesu, sino a darne una percezione sensibile e trasparente? La VR ha saputo, in questo clima di dominante secolarizzazione, non secolarizzasi e tuttavia tentare di entrare comunque in comunicazione con quell'umanità nuova che già appare agli orizzonti della storia?». Si tratta sicuramente di domande “inquietanti e urgenti”, anche se in verità, la domanda dovrebbe essere una sola: «la VR è esegesi vivente della vita di Gesù? Sì o no?». Solo se è tale, infatti, sarà anche «profetica e portatrice di una parola da annunciare» in un contesto ecclesiale e sociale come quello attuale.

Un cammino di conversione

Da qui in avanti, Enzo Bianchi si chiede quali potrebbero essere le esigenze più urgenti per una VR significativa in sé e per gli uomini del nostro tempo? Ne indica tre: un cammino di conversione, una piena umanizzazione, una comunità che sia veramente tale. Parlando di esigenze urgenti emergono senza volerlo, dice, anche le inadempienze. Ciò premesso, non si stanca di ripetere non solo che «questa crisi non è di decadenza spirituale», ma, inoltre, che la sua visione complessiva sulla VR del postconcilio non può che essere sostanzialmente “positiva”. Si sente, invece, infastidito tutte le volte che sente parlare di futuro della VC in termini fin troppo poetici. Un esempio? Il compito della VR di oggi, secondo alcuni, sarebbe quello di “anticipare l’alba”. «Ma cosa vuol dire? Chi non sa dire nulla, ricorre a queste frasi emozionali». Tutti questi “stilemi estetizzanti” servono solo a depistare una seria riflessione proprio sulle esigenze più urgenti già oggi e non solo domani.
La prima di queste urgenze è quella di un reale “cammino di conversione“, un «andare avanti sulle tracce di Cristo, senza mai sentirsi pienamente arrivati». Prima di ogni missione, di ogni diaconia, prima delle opere, la VR «è un ritorno a Dio, un cambiamento di vita, scelta continua della differenza cristiana, tentativo continuo di fuga mundi, dalla mondanità». È una conversione sempre in atto, giorno dopo giorno, disposti ad accettare «la precarietà degli assetti, attuando la sequela religiosa, rinnovando ogni giorno la decisione di amare l'altro, senza reciprocità, in una vita comune, e incontrando gli uomini, gli ultimi, che si vogliono servire».
Purtroppo, invece, si continua a pensare la VR come uno “stato di perfetti”, di “arrivati alla meta”, di “domiciliati in una situazione di pienezza”, di “perfetta carità”. «Ma sapete che la “perfetta carità”, che la “piena comunione” ci saranno solo nel Regno?». Fino a quando si vive su questa terra ci si dovrà sempre “arrabattare” fino alla morte, «sperando che quello che non siamo riusciti a fare qui, Dio lo completi di là». Non per nulla, nella professione religiosa, si chiede proprio che «lo Spirito porti a termine il lavoro che in te, oggi, ha iniziato».
Non ci si dovrebbe mai dimenticare che stare nel mondo, senza essere del mondo, è una condizione di “equilibrio instabile”. La VR è “differenza cristiana” rispetto al mondo. Basterebbe la sua presenza per essere testimonianza di Cristo, per essere “segno” della “buona notizia” del Vangelo. Per Francesco era molto più importante “vivere il Vangelo”, esserne una “memoria vivente”, che non predicarlo. Di fronte alla totale indifferenza del mondo di oggi, andrebbe pienamente recuperata tutta la “differenza” del Vangelo. È proprio questo “scarto”, questa “differenza” che dovrebbe stimolare il cammino di conversione della VR. Non si tratta semplicemente di una “pia esortazione“. Sulla piena disponibilità a questa conversione «sta o cade la stessa VR».

Una piena umanizzazione

Questo cammino di conversione dev’essere, però, accompagnato da una piena umanizzazione. «Non dimentichiamolo mai: la VR è vita umana, vissuta da uomini e donne che cercano di innestare la loro umanità nell’umanità di Gesù». È un innesto tutt’altro che semplice. Può avvenire solo attraverso «un'arte del vivere, che esige spoliazione semplificazione, unificazione, ricerca di ciò che è essenziale per l'uomo d'oggi». Gesù non è solo colui che «ha raccontato Dio, che ha raccontato il vero uomo, come Dio l'ha pensato, lo ha voluto e lo ha creato». È anche colui che «ha raccontato quel Dio che nessuno ha mai visto e, insieme, ha raccontato quell'uomo che noi dovremmo cercare di essere».
Perché negarlo? Molto spesso, ciò che ostacola la realizzazione di una vera VR personale e comunitaria, è la scarsa “qualità umana”. Il vero problema di tante comunità, «è che umanamente, umanamente...». Sono le frequenti e amare constatazioni che vengono fatte tutte le volte che si ha che fare con esistenze «vissute senza passione, senza convinzioni profonde, senza sensibilità, senza bellezza, senza libertà interiore». Ma senza libertà, si diventa schiavi. C'è un passaggio nel Vangelo di Giovanni che non si dovrebbe troppo facilmente dimenticare: «ora, lo schiavo non resta per sempre in casa; il figlio vi resta per sempre» ( 8,35). Che dire, infatti, di tutti quelli che lasciano la VR? Non potrebbe essere solo l'ultimo passo di una vita non pienamente umanizzata in cui si sono sempre sentiti schiavi? Non basta, nella VR, far balenare di tanto in tanto, delle “scelte eroiche”. «Bisogna avere il coraggio di dircelo: o la VR è un cammino di umanizzazione, diversamente non riusciamo a viverla».
Come la conversione, anche l’umanizzazione è un percorso che attraversa tutte le fasi della vita. È un cammino faticoso. «Vivere i voti è difficile. Piantiamola con il dire che nella VR tutto è bello, quasi che non ci fosse un prezzo da pagare». Certe seduzioni creano facili entusiasmi che, alle prime difficoltà, svaniscono come la neve al sole. «La disponibilità all'azione dello Spirito Santo esige una lotta spirituale continua. Non ci può essere VR senza rinuncia, senza patire delle mancanze, senza soffrire».
Purtroppo, di fronte all'ideale dominante dell'edonismo, della soddisfazione immediata, del bisogno di “non farsi del male”, dell’ “et… et…”, senza avere il coraggio di una scelta anche in controtendenza, in questi ultimi decenni, si è troppo spesso occultato o minimizzato il contenuto, ereditato dalla tradizione, dell’aspesis (disciplina). «Aspesis è fare di tutto per stare nell’alleanza con Dio, per essere uomini e donne secondo una vocazione divina, per fare della nostra vita umana un'opera d'arte, in cui bontà, bellezza e beatitudine sono immanenti l'uno all'altro». Aspesis è anche «accettare la mancanza di beni, di cose, di mezzi, è accettare l'assenza di altri nella nostra vita intima e corporale, è accettare la rinuncia a decidere sempre autonomamente su di sé». È un esercizio «a volte umiliante, faticoso, proprio perché è in contraddizione con il nostro egoismo».
All'interno di questo esercizio di umanizzazione, non è possibile ignorare il problema della morte. Non si tratta di elaborare una spiritualità “affascinata dalla morte”. Più semplicemente si tratta di “guardarla in faccia”, facendo ciò che il mondo non è più in grado di fare. «Il religioso, come ogni cristiano, sa che, secondo le parole di Gesù, deve morire a se stesso, ma sa anche che la professione religiosa è semplicemente riconferma e sviluppo della sua morte già accolta nel battesimo». Sa, ancora, che il suo corpo «non è disponibile a unirsi con altri corpi, per celebrare la vita, l'amore, e creare la vita». Sa che «non avrà eredi». Ciononostante è profondamente convinto che, alla scuola di Gesù, il suo amore diventerà “forte come la morte” e aprirà “orizzonti insperati” nella sua vita.

La vita fraterna essenza della VR

Sia il cammino di conversione che quello di una piena umanizzazione, non possono non tendere alla comunione. È proprio il celibato che chiede di essere vissuto in una vita di comunione, lì dove l'amore fraterno «sa anche vivere di distanza, di discrezione, di sobrietà, nel rispetto della libertà di ciascuno, in una vita che già di per sé è una profezia in atto». La vita fraterna è il fine e la ragion d’essere degli stessi voti religiosi. Nella misura in cui vuole essere memoria reale e concreta della comunità vissuta da Gesù, la vita fraterna diventa il dono per eccellenza dello Spirito. Anche se questa comunione comporta il mettere in comune i propri beni, l’abitare e il pregare insieme, nella VR significa soprattutto «lotta contro l'individualismo, contro una vita comune che obbedisce a regole mondane, al comunitarismo». Significa soprattutto una vita «strutturata e regolata». Se si vive insieme e si vuole incarnare il comandamento nuovo dell’amore reciproco dato da Gesù, «non ci può non essere la regola, una struttura oggettiva».
In passato la vita comune era vista essenzialmente in funzione dell'opera, della diaconia da compiere. Oggi, invece, «abbiamo la consapevolezza che una vera vita di comunione dev'essere pensata in primo luogo come servizio reciproco, come una vita in cui l'opera prima e al di sopra di tutto è amarci gli uni gli altri, perché allora Dio dimora in noi». Solo in questo modo i religiosi saranno riconosciuti come discepoli di Gesù. In un contesto in cui le comunità religiose sono sempre più formate da persone di origine, cultura, preparazione intellettuale, età ecc., molto diverse, i religiosi dovrebbero essere sempre più degli “esperti in comunione”. Perché questo cammino sia praticabile i religiosi devono sapere che la vita comune è un’alleanza stretta non solo con Dio, ma anche con i fratelli, con le sorelle, un’alleanza “usque ad mortem”. Solo in questo modo, l’alleanza può diventare «un messaggio per tutta la Chiesa, per il mondo, per quegli uomini e quelle donne che celebrano l'alleanza all'interno dell'avventura dell'amore matrimoniale».
Nella fase attuale contrassegnata dalla precarietà, c'è chi si chiede se ci sarà un futuro per la VR. «Questa domanda non ha nessun senso, perché, finché esiste la fede cristiana, ci saranno sempre uomini e donne che sentiranno la chiamata a servire Gesù nel celibato e nella vita comune, perché è questo ciò che VR offre, non altro»». Tutto il resto, infatti, lo possono fare i presbiteri, i semplici fedeli. Forse in futuro la VR sarà diversa, ma di una diversità storica inevitabilmente connessa alla novità del divenire.
Proprio pensando al futuro, sarebbe opportuno, di tanto in tanto, guardare indietro, non dimenticando quel passo straordinariamente eloquente con cui Isaia si rivolge ai suoi figli (discepoli): «Io ho fiducia nel Signore, che ha nascosto il suo volto alla casa di Giacobbe, e spero in lui. Ecco, io e i figli che il Signore mi ha dato, siamo segni e presagi per Israele da parte del Signore degli eserciti, che abita sul monte Sion» (8, 17-18).
«Quanto vorrei, ha concluso Enzo Bianchi, che ogni superiore maggiore, nella sua piccolezza e umiltà, si sentisse semplicemente come il profeta Isaia e potesse dire: “io e i miei religiosi siamo segni e presagi per la Chiesa, per il mondo”. Non dobbiamo temere. Ogni comunità di religiosi può essere segno e presagio. Anche se la VR sarà ridotta ad un piccolo “resto”, continui a non temere. Sempre Isaia ci assicura che se anche restasse soltanto un ceppo, perché l'albero è abbattuto e tutti i rami e anche il tronco sono a terra, quel ceppo, dice Isaia, è un “ceppo santo” che continuerà a gettare virgulti e sarà “seme santo” (6, 13)». Come il Signore non è mai venuto meno alla sua fedeltà nel passato, «così sarà anche nel futuro».