Forse è meglio non conoscere le richieste della Chiesa sulla vita consacrata
o almeno non riflettere più di tanto sui documenti che ce la presentano nella
sua profonda identità e nelle sue esigenze di missione e di testimonianza. Così
– galleggiando in superficie – possiamo illuderci di “essere a posto” e ci
accontentiamo di quel piccolo cabotaggio che il ben noto invito sconcertante di
“prendere il largo” ci rende tanto simpatico perché rassicurante. Invece le
“pretese” della Chiesa non cessano di tormentare – se le ascoltiamo – il nostro
stile di vita, per indicarci sempre un oltre, anche là dove crediamo,
sinceramente, di “essere a posto”.
Quattordici anni separano l’esortazione Vita consecrata (1996) e nove anni la
Novo millennio ineunte” (2001) dalla recentissima Verbum Domini di Benedetto XVI,
ma il fondamento della vita cristiana (e la vita religiosa è parte della vita
cristiana e anzi si dice che lo sia in modo particolare) resta la stessa e non
poteva essere diversamente né oggi né in futuro: la Chiesa, ogni comunità
ecclesiale e religiosa, si radica nella parola di Dio e percorre attraverso la
comunione le sue strade di vita e di missione.
La dottrina è questa e ci viene ricordata anche oggi e attende sempre di essere
vissuta, di essere trasformata in prassi, possibilmente quotidiana, e ricercata
ogni volta che – per comprensibili debolezze umane – la si perde per strada.
Penso sia compito di tutti ritrovare queste radici, in un’epoca in cui la vita
consacrata sta cercando nuovi orizzonti, che si possono scorgere soltanto con un
buon “cannocchiale” forgiato dall’ottica evangelica, e rinnovate motivazioni per
non sentirsi emarginata nella cultura di oggi. E penso sia stimolante
confrontarsi con le richieste della Chiesa, sia per confermarci negli aspetti
positivi della nostra vita sia per scuoterci negli aspetti negativi – e possono
essere parecchi in ambedue i campi – in rapporto a queste esigenze.
Si nasce dalla Parola
La Verbum Domini di Benedetto XVI al n. 83 inizia con un’affermazione – direi –
perentoria, folgorante, ma che pure è ben nota e accettata dalla “dottrina” che
noi religiosi professiamo: la vita consacrata «nasce dall’ascolto della Parola
di Dio». Ne siamo consapevoli: vita consacrata a livello personale e
comunitario, iscrivendosi tutte e due nel più ampio cerchio tramandato già da
una lunga tradizione cristiana e ricordato da Vita consecrata : «la Parola di
Dio è la prima sorgente di ogni spiritualità cristiana» ed è l’alimento di ogni
rapporto personale con Dio (94). Ed ecco una conseguenza che diventa costitutiva
della vita consacrata: se è realmente tale essa «accoglie il vangelo come norma
di vita” e diventa “un’esegesi vivente della Parola di Dio» (Verbum Domini, 83).
Parole che leggiamo – se le leggiamo – e che poi restano magari nella memoria,
buone per un incontro o un corso di esercizi predicato ad altri, ma che forse
non interrogano intimamente la nostra vita personale e comunitaria e non
diventano termine di paragone e di confronto del nostro stile di vita. Eppure
ogni istituto – continua l’esortazione di Benedetto XVI – è nato dallo Spirito
che ha illuminato di «luce nuova la parola di Dio ai fondatori e alle
fondatrici» ed essi hanno saputo interpretarla come voce di Dio e «da essa è
sgorgato ogni carisma» attraverso il quale si è incarnata in un dato periodo
storico e in una determinata direzione evangelizzatrice. E la Parola, madre
della vita consacrata, la deve interamente e perennemente profumare, perché «di
essa ogni regola vuole essere l’espressione» (83): quindi di ogni momento
individuale e comunitario. Un ulteriore esame di coscienza si rende qui
necessario: senz’altro le varie Costituzioni pullulano di precisi riferimenti e
sapienti citazioni della parola di Dio, ma non è questo che la Chiesa ci chiede,
ma di interrogarci se poi la Parola diventa reale ispiratrice dei nostri
atteggiamenti nella vita quotidiana, personale e comunitaria. Essere esegesi
vivente della Parola non è facile e ogni “esegesi” ha sempre bisogno di
revisione, di aggiornamento, di approfondimento per fare “parlare” la Parola
nella contemporaneità della storia e nelle domande degli uomini del proprio
tempo.
È un’esigenza personale e comunitaria infinita e perenne, come in modo perenne
la Parola interpella la vita storica della Chiesa, fino al ritorno di Cristo.
Con la Parola si vive
Nata dalla Parola, la vita consacrata si sviluppa nutrendosi e vivendo della
Parola, incominciando con il viverla in comunità nella sua dimensione di amore.
È la prima testimonianza – e lo sappiamo da tempo – che ci viene chiesta e che
la Verbum Domini riassume per i contemplativi in modo particolare, ma ovviamente
valido per tutti i consacrati, anzi per tutti i cristiani: la testimonianza di
chi si “impegna a non anteporre nulla all’amore di Cristo”, per diventare, come
comunità, “vere scuole di vita spirituale”(83).
E la prima scuola che viene chiesta ai cristiani tutti – e sono nominati i
consacrati in modo specifico – è la spiritualità della comunione, come già
ricordava la Novo millennio ineunte.Un concetto che sviluppa poi in vari gradi:
capacità di cogliere la luce della Trinità sul volto dei fratelli che ci stanno
accanto; capacità di sentire il fratello di fede (e i nostri confratelli non lo
sono?) nell’unità profonda del Corpo mistico; capacità di vedere quello che di
positivo c’è nell’altro, per accoglierlo e valorizzarlo come dono Dio; capacità
di “fare spazio” al fratello, vincendo ogni egoismo, gelosia, competizione (cfr
n. 43).
La “spiritualità di comunione” – che tante volte consideriamo come qualcosa di
astratto, strano, magari misterioso – in realtà richiama il fondamento stesso
della “profana” –ma ovviamente non tanto, perché basata sulla parola di Dio –
antropologia cristiana che all’origine stessa dell’umanità pone la
relazione-comunione tra gli esseri (di cui la relazione uomo – donna è il
modello) che ci dice che ogni persona è relazione all’altro. Di qui il progetto
della comunità umana, sempre all’orizzonte, ma possibile; di qui il progetto
della comunità religiosa, sempre possibile, ma troppo spesso ancora e sempre al
lontano orizzonte.
Nessun religioso dice che la vita comunitaria sia un paradiso: essa non è
irenismo a tutti i costi, perché i conflitti sono parte del nostro stesso
essere, oltre che della storia, ma si possono e si debbono comporre, ogni volta
che si presentano. Il fattore calmante e coagulante ogni visione diversa di
percorsi e di progetti sta nel riferimento alla Parola che fa nascere e vivere
la vita consacrata e che offre l’aiuto a progredire insieme nella vita
spirituale (Vita consecrata, 94), che ha sempre nella carità il suo punto di
forza e di espansione. E allora anche gli inevitabili conflitti diventano motivi
e occasione di approfondimento di temi e fattori di crescita spirituale e
culturale, di discernimento.
D’altronde noi religiosi possiamo autenticamente sviluppare la nostra
personalità soltanto entro i rapporti comunitari. Ci ricordava (ci ricorda
sempre) la Novo millennio ineunte: senza questo cammino spirituale di comunione,
tutti gli strumenti esteriori della comunione «diventerebbero apparati
senz’anima, maschere di comunione, più che sue vie di espressione e di crescita»
(43).
Con la Parola si opera
Vi è un’altra verità che il Magistero non si stanca di dire e la ripete spesso
perché sa che non è facilmente recepita anche da chi è nato dalla Parola e vive
della Parola: è dalla Parola meditata e vissuta che «nasce l’ardore della vita
apostolica»: nella storia della Chiesa le grandi opere sono state realizzate da
uomini e donne che dalla Parola hanno attinto il senso e le domande dei segni
dei tempi e la luce di conoscere le vie del Signore: hanno acquisito con la
Parola «una sorta di istinto soprannaturale». (cfr. Vita consecrata”, 94).
Sappiamo quanto sia necessario ritrovare l’essenziale (altra raccomandazione
della Chiesa) nella “calma” dell’ascolto della Parola di Dio. Ripete la Verbum
Domini (83) che «nel mondo di oggi spesso troppo assorbito dalle attività
esteriori nelle quali rischia di perdersi» i contemplativi, con la loro vita di
preghiera e di ascolto della Parola di Dio, ricordano l’importante: Dio e il suo
amore.
Ma è soltanto il mondo ad essere troppo assorbito dalle attività esteriori? E
poi non siamo (non dovremmo essere) un po’ tutti noi cristiani, o almeno noi
consacrati, “contemplativi”?
È chiaro che nessun documento della Chiesa ha mai negato e nega la validità
delle opere esteriori: sono al servizio dei fratelli, per le loro varie e
molteplici necessità, che la nostra epoca ha moltiplicato nelle loro espressioni
materiali, morali, culturali e ogni congregazione cerca di rispondervi secondo
il proprio carisma. Quello che il Magistero chiede è che non diventino soltanto
“attivismo esteriore”, con il rischio di mettere a repentaglio “l’anima” della
vita consacrata. La Verbum Domini” (5) ci presenta – rimandandoci alla parola di
Dio – il modello della vita consacrata: all’origine della vita di ogni discepolo
(e il testo ricorda il Prologo di Giovanni) vi è l’esperienza personale che fa
incontrare Cristo, la Parola fatta carne che poi diventa il baricentro della
vita intera, della testimonianza, della comunicazione.
Vale a dire l’incarnazione nella storia – attraverso i discepoli – della Parola
e dell’opera di Dio.