Una delle domande con cui ci si confronta maggiormente nella vita consacrata
è quella dell’identità. Il peso di tale interrogativo si avverte soprattutto
quando c’è un certo disorientamento sul significato delle proprie scelte di
vita, quando la persona non sa come procedere, si sente persa tra le tante
aspettative disilluse e i bisogni disattesi, e non sa verso dove orientare la
propria esistenza. «Le crisi che oggi emergono nella vita consacrata non sono
più quelle di una volta, quando le persone abbandonavano la loro vocazione
perché si orientavano verso altre scelte. Oggi spesso abbiamo a che fare con
crisi di apatia, crisi di senso che esplodono nel bel mezzo dell’esperienza
vocazionale della persona, crisi di stanchezza motivazionale», diceva un
superiore provinciale durante un convegno. «Sono crisi in cui la persona non sa
più perché continuare nelle proprie scelte di vita».
Si tratta di vissuti che traggono la loro origine dalla consapevolezza dei
propri limiti e dal fatto che man mano che si procede nella crescita, è
difficile mantenere con perseveranza il senso delle proprie scelte.
Se da una parte ci sono tante cose realizzate, tanti aspetti di sé che sembrano
appagare il bisogno di realizzazione della propria vocazione con le tante
attività e i tanti programmi da portare avanti, dall’altra c’è anche il rischio
di ritrovarsi in situazioni in cui l’entusiasmo sembra smorzarsi:
l’irreversibilità di alcuni eventi, l’imprevedibilità di situazioni pastorali,
l’incertezza del futuro nella propria congregazione, alcune separazioni
difficili. Allora irrompono alcune domande di senso, riferite alla stabilità
della propria identità: “Chi sono io?”, “Che senso ha tutto quello che faccio?”,
“Che senso ha la convivenza con queste persone?”. Sono interrogativi che
richiedono una risposta personale, per integrare la propria esistenza in un
progetto di vita globale.
Sviluppo e disturbi di identità
Non sempre è chiaro il rapporto tra il cambiamento che certi eventi arrecano, e
la continuità che la persona riconosce allo sviluppo e alla formazione della
propria identità. Eppure non ci può essere sviluppo senza un progresso verso una
meta.
La storia dello sviluppo e della crescita di ognuno può essere presentata non
tanto come una sequenza di eventi piacevoli e non piacevoli, ma come una storia
permanente, raccontata attraverso l’esperienza concreta della persona, con i
suoi alti e i suoi bassi, con la frequenza di certi episodi e a volte anche con
la ripetitività di situazioni già sperimentate precedentemente; ma, soprattutto,
con una continuità di fondo che proietta l’individuo verso la meta della propria
scelta vocazionale.
Nella formazione della propria identità, quindi, non basta assicurare un certo
livello standardizzato di stabilità interiore per mantenere un equilibrio
funzionale all’organismo o alla struttura di personalità. Occorre invece
considerare il processo di strutturazione di sé e della propria identità come un
compito aperto che include le diverse tappe di sviluppo – ivi comprese le
diverse crisi di sviluppo – e che aiuta la persona a procedere verso la chiamata
alla santità.
Infatti, è un cammino di conversione e di discernimento che si rinnova
continuamente, e che comporta un permanente cambiamento di sé e una
disponibilità continua a cogliere i segnali che indicano la direzione da
intraprendere.
Tale prospettiva vale anche per le crisi di identità che le persone
attraversano, e che fanno parte di questa continua formazione, nella misura in
cui sono intese non tanto come eventi ma come parte integrante della propria
esistenza.
Pertanto, se c’è un blocco nello sviluppo della propria identità, la persona non
è semplicemente “destinata” a restare chiusa nel suo malessere e nelle sue
paure, ma può sempre aprirsi alle tante opportunità di crescita che l’aiutano a
rinnovarsi e a procedere verso la realizzazione di un progetto vocazionale di
vita piena, dove trovano posto le sue diverse esperienze valoriali.
L’insidia delle false motivazioni
Spesso nel loro lavoro i religiosi/e vivono in situazioni di frontiera che
richiedono un continuo adattamento e una capacità interiore di rinnovamento, per
affrontare le diverse condizioni in cui sono chiamati a rendere visibile la
radicalità del Vangelo con determinazione ma anche con sufficiente flessibilità
adattiva. Oggi nei corridoi dei conventi si sente di più il peso e l’urgenza
della propria identità motivazionale e carismatica. Pertanto, c’è una maggiore
sensibilità alle crisi di identità, di credibilità o di coerenza, soprattutto
quando le persone perdono di vista il senso delle loro scelte evangeliche e
assumono uno stile di vita che è in contraddizione con il carattere profetico
della vocazione di consacrazione.
Le conseguenze di tale disorientamento carismatico si riflettono molto
negativamente sull’identità del soggetto e sul suo modo di vivere la vocazione,
perché rischiano di creare un divario tra le parole professate e la vita
vissuta, tra le prospettive ideali e la realtà.
Tutto questo sta ad indicare che, se ci si allontana dalla specificità e dalla
chiarezza del messaggio profetico che caratterizza lo stile di vita scelto, si
lascia spazio a uno stile apatico e superficiale dove trovano terreno fertile le
diverse “stranezze” dell’individuo, i diversi progetti personalistici, le
diverse aspettative autoreferenziali, funzionali alla propria realizzazione
piuttosto che al bene comune. Fino ad arrivare alle manifestazioni più esplicite
che indicano un chiaro disturbo di identità del soggetto, dove la sofferenza e
la patologia si mescolano con la perdita di senso nelle cose da fare
quotidianamente, fino a entrare in un labirinto confusivo da cui è difficile
districarsene.
Immaturità psico-affettiva
È possibile che quanti hanno accolto l’invito del Signore a consacrarsi a un
amore perfetto, si trovino a vivere condizioni di disorientamento della propria
identità psicologica, al punto da perdere di vista il valore della loro
consacrazione?
La nostra esperienza clinica ci permette di rispondere affermativamente a tale
interrogativo. Alcune indagini sottolineano la fragilità affettiva ed emozionale
del clero o dei religiosi/e, che si tramuta in dispersione di identità e in
frammentazione dei loro vissuti psichici, soprattutto quando sviluppano delle
relazioni di tipo confusivo o di dipendenza, sia nella pastorale che tra di
loro.
Per esempio, chi non ha ricevuto abbastanza amore nella sua storia passata,
porta in sé un disperato bisogno di compensare tale mancanza accaparrandosi
qualcuno che lo ami. Talvolta è una necessità che si esprime apertamente, altre
volte in maniera più sottile.
Quando queste problematiche sono associate ad altri disturbi dell’umore, in modo
particolare ad alti livelli di depressione e di stress emozionale, essi
rischiano di farsi sopraffare dal disagio psichico o a reagire con comportamenti
devianti. Oppure ci possono essere dei blocchi evolutivi, quando le persone
arrivano a una certa età e non sanno più quello che vogliono, da se stesse e
dagli altri.
Com’è successo a una suora che, dopo aver lavorato per tanti anni nella
pastorale del disagio sociale, ora ha la sensazione di non fare più abbastanza,
di non essere abbastanza brava e, soprattutto, di non coinvolgere abbastanza le
sue consorelle nel lavoro che fa. «Mi sembra di aver consumato tutto
l’entusiasmo che avevo una volta», disse in uno dei colloqui.
Benché sia ancora una persona capace di generare nuove idee, di formulare nuove
proposte, se non riesce a integrare tutto questo con le nuove istanze evolutive
che emergono dalla sua età, perché teme di non mantenere integra la propria
identità, difficilmente saprà equilibrare i propri interessi in “progetti” da
realizzare in sintonia con il significato vocazionale della sua esistenza. In
altri termini, se non impara a “rinunciare” ai propri personalismi inadeguati e
regressivi, accettando di aprirsi ad altri contributi interpersonali
“affettivamente significativi” per il comune processo di crescita, rischia di
inaridirsi in uno sterile egoismo.
Nella vita consacrata ci può essere questo rischio se le persone non riscoprono
la motivazione che fonda il loro progetto di vita: la missione per Gesù Cristo,
il carisma del proprio istituto, le scelte di fede effettuate. Esse rischiano di
ripiegarsi su se stesse, rinchiudendosi nell’amarezza del rimpianto delle
vecchie certezze del passato, oppure prendendosela con gli altri che in fondo,
non sono bravi abbastanza per essere come loro vorrebbero. Ci sono per esempio
soggetti che soffocano la loro creatività, rinchiudendosi in un isolamento
sterile e in una mediocrità superficiale: sono quelli che lavorano bene in tante
attività ma soltanto se sono da soli, o gli eterni arrabbiati nei loro ruoli
comunitari, o gli iperprotettivi nelle amicizie, oppure quelli che già a 50 anni
si sentono dei “pensionati”.
In tutti questi casi essi possono inaridire il loro sviluppo bloccandosi in una
condizione di aridità emotiva che col tempo rischia di svuotare la loro
identità. Ecco allora comparire i segni di un malessere non solo legato a questo
o a quel tratto disfunzionale del carattere o a un aspetto patologico di sé, ma
al senso stesso della loro vita e del loro progetto esistenziale che, a lungo
termine, può diventare altamente disfunzionale, se la persona non ritrova il
centro di se stessa e della propria vocazione.
Nel labirinto di una identità disturbata
Le ragioni dei disturbi di identità sono diverse e si radicano nel profondo
della persona, per questo occorre imparare a leggere alcuni segnali
sintomatologici di questo malessere. Non si giunge alla perdita della propria
identità in modo improvviso e inaspettato, ma attraverso un logoramento
anticipato da una serie di segnali. La cura deve cominciare proprio da qui, da
una considerazione pratica delle condizioni normali, ma non banali, nelle quali
la propria vocazione cresce e a volte sì consuma.
Possiamo iniziare da alcuni aspetti più esterni, come quando a volte si
recrimina una mancanza di tratti umani nelle relazioni, sintomo di una fatica
non solo di tipo caratteriale ma anche di senso e di identità nel proprio
servizio o nella propria missione ministeriale. Pensiamo a certe forme
patologiche di isolamento sociale in cui versano i religiosi o le religiose di
certi ambienti: ambienti inaccessibili per le regole vigenti, silenzi
incomprensibili, chiusura alle relazioni con l’esterno, alterazioni e mutamenti
nel carattere, autoreferenzialità e suscettibilità in eccesso.
A volte le crisi di identità possono assumere anche il volto di un eccesso di
coinvolgimento nel lavoro pastorale, quando la persona si dà a un attivismo
sfrenato che serve ad arginare un senso di frustrazione interiore, e che a volte
si tramuta in umore depresso: ci sono momenti dove la generosità sfiora il
delirio di onnipotenza, e momenti in cui la pigrizia confina con la perdita del
gusto di vivere e di lavorare. Quando manca il giusto equilibrio tra i propri
pregi e i propri difetti, si rischia di mescolare insieme i due sintomi,
operando dei rapidi passaggi da un estremo all’altro.
Infine, ci può essere una fatica a reggere le normali frustrazioni e un modo
ambiguo di riferirsi alla propria immagine, che può passare da un eccesso di
attenzione e di cura di sé e del proprio corpo, come fosse uno maschera dietro
la quale nascondersi, al suo opposto, fatto di trascuratezza e negligenza:
possono essere segni di una certa disarmonia che la persona avverte dentro e che
manifesta all’esterno in questo modo.
Questi segnali possono estendersi anche ad altri aspetti di sé. Per esempio, nel
modo di curare la propria abitazione, intesa come spazio dove la persona impara
anche a star sola con se stessa. Se la propria dimora è sporca, disordinata o
malcurata, sarà difficile che si senta a casa propria. Il modo di curare la
propria alimentazione, non solo per sostenere il corpo, ma soprattutto come
occasione per condividerlo con qualcun’altro, in un clima familiare. Se il
religioso o la religiosa ha l’abitudine di mangiare in modo frugale, di fretta e
male, difficilmente avrà tempo per prendersene cura, per prepararlo e per
condividerlo con gli altri. Infine, il modo di vestirsi, inteso non solo come
bisogno esteriore di coprirsi, ma come attenzione a come ci si presenta,
rifuggendo l’eleganza e la ricercatezza, ma anche la sciatteria e la negligenza.
Tanti sintomi che apparentemente sembrano ininfluenti, si riflettono poi nel
modo di vivere l’autonomia e la dipendenza nei rapporti con gli altri, sia
all’interno della comunità che nelle relazioni all’esterno. Oppure, possono
associarsi a manifestazioni psicosomatiche, come l’insonnia, la tachicardia, gli
attacchi di panico, le paure o le fobie nelle relazioni con il pubblico, ansia
da prestazione, ecc. Fino a diventare vere e proprie nevrosi che servono a
sedare le proprie insicurezze, come l’igiene compulsiva, la cura esagerata della
salute, i sensi di colpa per dei comportamenti trasgressivi, l'incapacità a
fidarsi e ad affidarsi agli altri.
L’identità come processo in evoluzione
«Da quando ha cominciato a fare così non lo capiamo più», diceva un superiore
provinciale a proposito del comportamento inadeguato di un suo confratello,
rivolgendosi a un consulente della salute mentale. «Ha dei comportamenti che non
riusciamo proprio a capire: a volte è al settimo cielo di gioia e di
coinvolgimento, altre volte sembra sprofondare nell’umore più nero. A volte mi
chiedo se ha deciso cosa vuole veramente fare nella vita».
Quante volte ci si imbatte in situazioni di questo genere. Eppure, nel corso
dell’esistenza la persona ha sempre la possibilità di riprendere il percorso di
rafforzamento della propria identità, effettuando delle scelte orientate verso
la realizzazione totale di se stessa.
Il concetto di identità non è definibile in termini meccanici e molto precisi.
Riguarda la coerenza che caratterizza un individuo nonostante i cambiamenti che
avvengono col passare del tempo. Implica anche una certa omeostasi del sé o
della personalità, che assorbe l’impatto delle influenze sulla personalità e
tende a resistere al cambiamento radicale e a persistere con costanza su alcuni
aspetti.
«Il processo di formazione dell’identità emerge come una configurazione in
evoluzione, una configurazione che è gradualmente stabilita da successive
sintesi e risintensi dell’Io attraverso la fanciullezza; è una configurazione
che integra gradualmente doti costituzionali, bisogni libidici idiosincratici,
capacità favorite, identificazioni significative, difese efficaci, sublimazioni
riuscite, e ruoli coerenti» .
Così come ogni individuo è unico e irripetibile, così ogni storia vocazionale è
unica. Questa unicità aiuta a riflettere sulla preziosità della propria
esistenza, di ogni gesto compiuto, di ogni comportamento pastorale e
comunitario, di ogni sentimento verso gli altri confratelli o consorelle.
Quindi, in ogni persona c’è un potenziale che costituisce la sua unicità che,
nello sviluppo, ha la possibilità di esprimere pienamente.
Quando però la persona tocca con mano la piccolezza della propria fragilità che
si manifesta nei momenti di crisi e di confusione, ne trae spavento e si sente
disorientata. Ma sappiamo che «questo spavento è salutare!» , nella misura in
cui riesce a risvegliare quella giovinezza dello spirito che permane nel tempo,
e che l’aiuta ad integrare le difficoltà della propria vita con il suo cammino
di crescita e di conversione.