Nel loro ultimo capitolo generale (estate 2010) i rogazionisti hanno approvato la nuova Regola di Vita a cent’anni di distanza dalle prime costituzioni scritte dal fondatore, Annibale di Francia. Il p. Josu M. Alday, preside del Claretianum, commentando l’Istrumentum laboris preparatorio, ha sentito il dovere di fare loro i suoi complimenti. «Avete lavorato bene!». Ma rifacendosi alla sua esperienza, si è permesso di ricordare che non si può mai essere “felici e contenti” solo per il fatto di aver prodotto “un bel documento”. Fino a che punto, infatti, ci si può accontentare della “bellissima prospettiva teologica, carismatica, fraterna, apostolica” di questi testi? Per gli addetti ai lavori si tratta sicuramente di qualcosa di “perfetto”. Ma non potrebbe essere anche fin troppo idealizzato? Tutto ciò che vi si afferma a livello teologico e carismatico è verissimo. Però spesso viene a mancare qualcosa di importante, e cioè «la consapevolezza che la Regola di Vita non è soltanto una categoria teologico-carismatica-canonica, ma anche uno strumento pedagogico esistenziale» che mette in moto tutte le dinamiche sociologiche proprie di un gruppo umano. Qualche volta si dovrebbe avere, allora, il coraggio di porsi due semplicissime domande: anzitutto, «cosa facciamo della Regola di Vita adesso che l’abbiamo?», e poi, il valore carismatico di questo nuovo testo «è realmente tale anche per me?».

La comunità un “gruppo umano”

Alday è un esperto in scienze umane. Conosce perfettamente anche tutti i dinamismi psico-sociologici di un testo legislativo. È facile supporre che proprio per questo fosse stato invitato a parlare ai capitolari rogazionisti. Le indicazioni di percorso espresse in quella sede, a tratti con un’impostazione fin troppo scolastica, possono sicuramente rivelarsi utilissime anche per tutti gli altri nostri istituti religiosi.
Da un punto di vista sociologico, ha detto, un istituto religioso è una organizzazione, cioè «un insieme di persone strutturato e organizzato per il raggiungimento di specifiche finalità». La sua struttura particolare e complessa, in stretta dipendenza con il contesto ecclesiale e socio-culturale, è andata progressivamente modificandosi nel numero dei membri, nella diffusione geografica, nello stile di vita, nei suoi testi legislativi. A quanti si chiedono se sia proprio necessaria una istituzionalizzazione di questi organismi di VC, Alday risponde di sì. Non potrebbe essere diversamente pensando a tutta la serie di fattori che entrano in gioco: trasformazione del carisma, variazione quantitativa e qualitativa dei membri degli istituti religiosi, loro diffusione nello spazio sociale e geografico, passaggio da una generazione di religiosi all’altra.
Un elemento cardine nello studio dei gruppi, e quindi anche di una comunità religiosa, è quello dell’appartenenza. Alday ne analizza a fondo tutti i suoi aspetti psico-sociologici. Con H. Carrier, la definisce sostanzialmente come un atteggiamento personale che, a sua volta, «produce comportamenti e atteggiamenti». Nel caso specifico della Chiesa, questi atteggiamenti non solo implicano un’adesione ad alcuni principi di fede e alla «comunità istituzionale che li annuncia», ma anche attendono di essere tradotti in determinati comportamenti pratici. Tutto questo, però, «non basta se non si vivono certe convinzioni o credenze essenziali».
Non può esserci, ad esempio, vero senso di appartenenza senza reciproca stima, senza fiducia, senza affetto, senza un impegno attivo con la comunità. Messi insieme tutti questi elementi, sono assicurate un’appartenenza e un’adesione “sane e robuste”. Ma non sempre è così. A volte, il senso di appartenenza cede il passo alla disaffezione, all’indifferenza, al reciproco disprezzo. «Si spacca la fiducia e sorgono il sospetto e la diffidenza. S’indebolisce l’affetto ed è sostituito dall’aggressività o l’indifferenza. Si rompe l’impegno e riempiono il suo vuoto la passività e le adesioni parziali».

Alcuni livelli di appartenenza

Che tutto questo sia vero, Alday lo dimostra tentando una descrizione dei diversi livelli di appartenenza. Si va, in forma decrescente, dall’appartenenza rinnovata a quella fedele e silenziosa, critica, addolorata e nostalgica, svanita, inesistente.
Fortunatamente esistono comunità in cui si respira “il senso della vita” e dove non mancano “motivi per sperare e lavorare”. Pur nella piena coscienza delle proprie debolezze, queste non sono però mai tali da congelare, una volta per sempre, la fiducia. In queste comunità, i consacrati vivono in maniera abituale «un atteggiamento di fedeltà e di libertà». Partecipano attivamente alla vita comunitaria dove trovano «spazi di relazione più caldi e canali di collaborazione più aperti che in altri gruppi sociali ed ecclesiali». Sono comunità solidamente radicate nella condivisione del proprio carisma, della preghiera, dell’impegno apostolico. Queste comunità dovrebbero solo guardarsi dal “comunitarismo”, con il rischio concreto di trincerarsi al proprio interno, precludendosi qualsiasi apertura ai grandi problemi della Chiesa e della società di oggi.
Un gruppo sicuramente più numeroso ed eterogeneo del precedente, è quello dell’appartenenza fedele e silenziosa. Anche se la qualità carismatica e comunitaria non è sempre ai più alti livelli, vi si percepisce, però, una “relativa soddisfazione” nei confronti della propria comunità e del proprio istituto. «È un gruppo che non chiede troppo sia alla comunità che ai superiori: né stile evangelico, né denuncia profetica, né impegni eroici». Vengono generalmente ben assimilate tutte le iniziative di rinnovamento e di cambiamento proposte sia a livello di comunità che di provincia e di congregazione. Ci si fida in partenza dei superiori, visti solitamente come “quelli che sanno”. Questi confratelli fedeli e silenziosi riescono a far buon viso a cattiva sorte anche quando vengono toccate e messe in discussione certe consuetudini ereditate dal passato e alle quali si è molto affezionati.
Ma anche all’interno di questo gruppo ci sono a volte dei sottogruppi con notevoli variazioni. È il caso, ad esempio, come li chiama Alday, dei “poveri di Jahvé”. Sono persone «di profonda fibra religiosa, di fina coscienza morale e di radicale legame congregazionale», senza troppe pretese di carattere culturale. I fratelli coadiutori e «l’immensa maggioranza delle suore domestiche» rientrano in questa categoria. Anche se non sentono la necessità di tanti corsi di formazione permanente, hanno però «una squisita sensibilità evangelica», sanno ascoltare, accettare e rispondere con molta generosità. Il loro senso di appartenenza e di adesione congregazionale e comunitaria «è, come l’insieme della loro fede, semplice e sana».
Un secondo sottogruppo, formato da persone con «una tradizione religiosa intensa», insieme a tutte le sue virtù, manifesta anche non pochi problemi, a incominciare da una particolare forma d’individualismo. In fondo, la congregazione e la comunità, a loro avviso, non sono altro che uno spazio in cui persone, anche molto motivate religiosamente, si ritrovano «per rispondere più adeguatamente alle loro aspirazioni comuni». Inoltre queste persone si sentono soprattutto destinatari e non soggetti attivi di quanto avviene in comunità o nella congregazione. La loro adesione alla fede in un “Dio vivo” e al carisma di fondazione, «sembra regolata più da un contratto che non da un’offerta disinteressata». Infine, per nulla sollecitate dal problema dei “lontani”, hanno una debolissima sensibilità missionaria.
I problemi aumentano quando dall’appartenenza fedele e silenziosa si passa a quella critica. Qui s’incontrano persone che insieme a un sincero senso di adesione al proprio istituto, nutrono un diffuso stato di insofferenza. «La critica alla congregazione e ai suoi responsabili è solitamente forte». Vengono, senza mezzi termini, denunciati nei superiori tutti «gli atteggiamenti autoritari incompatibili con lo spirito democratico richiesto dal Vangelo e dalla sensibilità sociale di oggi». Purtroppo, dicono, «i diritti umani riconosciuti come tali dalla società, non sono rispettati nella Chiesa». I superiori si rivelano fin troppo «timorosi e diffidenti di fronte a ogni vero cambiamento istituzionale o dottrinale». Sempre a detta di queste persone, in una società “di destra” come pare quella attuale, comunità e superiori sarebbero orientati verso un chiaro “processo involutivo”, addirittura “imposto da Roma”, con la piena adesione di molti religiosi e di un numero crescente di responsabili. Tutti gli altri, “docili e paurosi”, sembrano tranquillamente assestati in un comodo “centralismo”.

L’appartenenza inesistente

Qualche problema ancora più specifico, sembrano denunciarlo le persone che, nel linguaggio di Alday, manifestano un senso di appartenenza addolorata e nostalgica, tipica di quanti «rimpiangono le vecchie sicurezze». Secondo queste persone, di fronte all’assimilazione delle novità del mondo di oggi, l’istituto religioso «sarebbe cambiato troppo. Non è più quello che era». I superiori si sono manifestati «poco chiaroveggenti. Credevano che lo sforzo di accomodamento avrebbe favorito l’attualizzazione del carisma nella Chiesa e nel mondo». Non basta, affermano, essere “chiaroveggenti”, bisogna essere anche “forti”. I superiori non hanno saputo chiudere in tempo “le finestre della Chiesa e dei conventi” di fronte all’invadenza delle “correnti mondane”. Per paura di essere etichettati come persone “fuori fase”, hanno preferito «congelare la loro funzione correttiva». In una situazione del genere, l’unica alternativa è quella di individuare superiori affidabili e degni di fiducia. Secondo Alday, quanti pensano in questo modo sono un gruppo «minoritario, ma abbastanza omogeneo», formato da persone «di un’intensa pratica religiosa e di un codice di comportamento morale esigente». Solo che con la mente e con il cuore «vivono nel passato».
Che dire, poi, del gruppo dell’appartenenza svanita? È formato da persone che hanno abbandonato progressivamente «le pratiche e lo spirito della congregazione», con il conseguente e sfiduciato «distacco affettivo ed effettivo dalla comunità locale, provinciale e generale». Continuando di questo passo, senza più alcun legame con il carisma e in un atteggiamento di totale sfiducia nei confronti dell’istituzione, si finisce inevitabilmente alla deriva «della vita privata e giuridica, molto soggettiva e poco aperta alla dinamica comunitaria».
Se in questo gruppo l’appartenenza alla comunità e alla congregazione è svanita, nell’ultimo gruppo ipotizzato da Alday, è del tutto inesistente. «Ai sentimenti aggressivi che, a modo loro denunciavano comunque una qualche relazione, è subentrata l’indifferenza assoluta», spesso accompagnata da “cordiale antipatia”, da “indignazione” e da “impazienza” di fronte a determinati interventi dei superiori. A detta di queste persone, nella congregazione non ci sarebbe più spazio per nessuna forma partecipativa. «L’autoritarismo dei superiori che si credono investiti di poteri dall’alto e il docile conformismo dei sudditi congelano la corresponsabilità». Con quali prospettive di futuro? Per nulla “sorridenti!”.
Fin dall’inizio Alday aveva precisato che non esiste nessun gruppo con queste caratteristiche allo stato puro. Nella realtà le cose sono più complesse, con la sovrapposizione di un gruppo all’altro. Rimane comunque il fatto che, partito dall’analisi di un testo quasi “perfetto”, Alday arriva alla conclusione di una sempre più problematica appartenenza dei consacrati al proprio istituto e alla propria comunità.