NELL’ATTUALE CONTESTO STORICO
Il carisma è la ragione per la quale esistiamo come Congregazione nella Chiesa e
nel mondo. Dio lo ha suscitato tramite i nostri Fondatori e continua a
suscitarlo tramite coloro che si sentono chiamati ad aggregarsi alla nostra
famiglia religiosa. È un dono, un tesoro che abbiamo ricevuto dal Padre e che
dobbiamo conservare con cura. Si tratta di un carisma e, come tutti, ha elementi
permanenti ed espressioni condizionate da circostanze storico-culturali. È
perciò necessario saperlo rileggere e ri-esprimere in ogni momento storico e in
diversi contesti culturali perché continui ad essere significativo e portare
vita a coloro che lo hanno ricevuto e a coloro che devono godere i frutti
dell’azione evangelizzatrice che suscita.
Per questo motivo è necessario conoscerlo bene e viverlo con entusiasmo. Questa
sarà la prima missione del superiore maggiore… A noi spetta incoraggiare i
nostri fratelli a vivere con entusiasmo e generosità questo carisma.
Come animare i nostri fratelli? Come sostenere e animare le nostre comunità?
Come dare impulso alla missione? Il documento Faciem tuam, Domine, requiram ci
offre alcune indicazioni importanti. Lo terrò presente come punto di
riferimento, ma preferisco condividere qualcosa di più personale, benché
riconosca che non è del tutto articolato.
Le sfide per il servizio del governo
Mi sembra di vedere due tipi di sfide: alcune sono esterne e vengono
dall’ambiente culturale ed ecclesiale nel quale siamo immersi; altre sono
interne o soggettive e sorgono nell’intimo di ciascuno di noi.
Sfide esterne
Ne elenco alcune con qualche commento:
Una prima sfida nasce dall’ambiente culturale nel quale viviamo. Si tratta della
cultura secolarizzata che caratterizza molte parti del nostro mondo. Non si può
negare che il processo di secolarizzazione ha portato anche aspetti positivi, ma
si è tanto radicalizzato e segna la cultura in modo tale che i religiosi ne sono
naturalmente colpiti. Ricordo che già 12 anni fa tenemmo un incontro dei
Clarettiani d’Europa sul tema Evangelizzare in tempo di non fede. Uno dei punti
che emersero con maggior forza nella riflessione dell’incontro è che la mancanza
di fede, oltre ad essere un problema pastorale, è anche un problema
esistenziale. L’impatto culturale segna il modo di pensare, di sentire e di
relazionarsi del religioso e obiettivamente si ripercuote nel suo modo di vedere
la vocazione, di percepire i valori fondamentali della vita consacrata, di
organizzare il tempo e le priorità della vita personale, di collocarsi nella
rete delle relazioni sia nella comunità che verso l’esterno. È una sfida per i
superiori accompagnare i confratelli in questo contesto culturale.
Un’altra sfida è l’individualismo. È un’altra caratteristica del nostro tempo
(ma io credo che lo è stata di tutti i tempi). Oggi è accentuato dall’insistenza
per la privacy, come valore che va rispettato sopra ogni altro. Ciò ha le sue
conseguenze sulla vita della comunità, sull’esigenza di trasparenza, sullo
sviluppo della missione della provincia quando aumenta il numero delle persone
che privilegiano i progetti meramente personali. Questo succede in tutti i
contesti geografici dei nostri istituti.
Come terza sfida potremmo indicare la missione del superiore di conservare viva
l’eredità carismatica. È una sfida di sempre, ma che oggi assume connotazioni
nuove dinanzi alla realtà di una congregazione, di province e di comunità sempre
più multiculturali che hanno come compito necessario e urgente la costruzione di
una vera inter-culturalità. Come conservare viva e ri-creare la “cultura
congregazionale”? Qui si colloca tutto ciò che si riferisce all’animazione dei
processi di formazione iniziale e permanente, che costituiscono sempre una delle
priorità della missione del superiore maggiore.
Promuovere la profezia è un’altra sfida che si pone al superiore maggiore: la
profezia della vita consacrata e del carisma del proprio istituto. È un tema che
è stato molto sottolineato nei documenti recenti del Magistero sulla vita
consacrata. La vita consacrata è essenzialmente profetica e ciò esige una grande
capacità di ascolto della voce di Dio e dei percorsi che deve seguire la
risposta. È un appello che si ode con urgenza nei nuovi areopaghi della missione
e in luoghi ove la Chiesa sembra lasciarsi sedurre dalla tentazione del potere e
del prestigio, benché siano, a volte, luoghi economicamente poveri.
Una sfida importante per il superiore maggiore è aiutare a creare una visione di
futuro per la propria provincia, integrando in essa – per quanto possibile – i
diversi modi di vedere e le ecclesiologie presenti nei confratelli. Senza una
visione non si può governare, si gestiscono solo opere e si mantiene uno stile
di vita che non invita alla radicalità della sequela di Gesù nel “qui e ora” di
ogni tempo e di ogni luogo. Sarà importante, da una parte, tenere presenti gli
aspetti cangianti nella vita dell’istituto e, dall’altra, ciò che non è
negoziabile, benché questo nucleo debba essere a sua volta riletto e ri-espresso
in ogni contesto.
L’inevitabile tensione tra “universale” e “particolare” è un altro aspetto che
si presenta come sfida all’azione del governo di un superiore maggiore. È una
sfida che può avere varie declinazioni: “centralizzazione-decentralizzazione”, “provinciale-universale”,
“provinciale-locale”. È una sfida per un superiore trovare un punto di
equilibrio e mettere in atto gli strumenti di dialogo necessari per rispondere
alle domande che questi binomi pongono.
Costruire una comunione dinamica con la chiesa locale è un altro tema che il
superiore deve affrontare nello svolgimento della propria missione. Non è sempre
facile essere aperti alle necessità e alle urgenze della chiesa locale e agli
orientamenti dei loro pastori, senza però rinunciare alle esigenze del carisma
dell’istituto, proprio per contribuire alla vitalità delle chiese stesse. A ciò
si deve aggiungere che qualche vescovo non ha sempre una corretta comprensione
della vita consacrata, e ciò rende ancor più difficile questo compito.
Penso che saremo tutti d’accordo che un’altra grande sfida per il superiore
maggiore è la relazione con le persone, soprattutto con i membri della propria
provincia, dei quali gli è stata affidata la cura pastorale: saper aiutare
ciascuno a vivere con gioia e generosità la propria vocazione missionaria e a
mettere a disposizione della missione i doni che il Signore gli ha concesso.
In molte parti del mondo una sfida importante è l’animazione della pastorale
vocazionale. Le vocazioni sono scarse ed è difficile motivarsi per un lavoro
serio e sistematico quando non si vedono risultati al proprio lavoro. Altrove è
forte la sfida di consolidare processi di selezione e discernimento che ci
permettano di garantire, per quanto possibile, la sincerità delle motivazioni di
quanti si avvicinano alle nostre comunità. Come mantenere vivo un entusiasmo
vocazionale che ci conduca a invitare altri a condividere la nostra vita?
Lasciatemi segnalare un’ultima sfida che, con caratteristiche diverse , è
presente in molte province. È l’economia. Alcune volte si tratta di motivare la
fedeltà alle esigenze della povertà religiosa dinanzi alla tentazione crescente
dell’imborghesimento dello stile di vita. Altre volte sarà la preoccupazione di
dare risposta alle molte necessità cui bisogna attendere con le poche risorse
disponibili. Non è certo una sfida minore.
Sfide di carattere soggettivo
Desidero segnalare anche alcune sfide che definisco soggettive perché si
riferiscono all’ambito della vita personale del superiore maggiore.
La prima sfida che deve affrontare chi assume una responsabilità di governo è la
credibilità. Si tratta di essere se stessi come dehoniani, clarettiani,
domenicani o ciò che corrisponda alla vocazione ricevuta. Accogliere e vivere
con gioia il progetto di vita proposto dalle costituzioni dell’istituto è la
prima esigenza per chi deve essere memoria per gli altri di questo patrimonio
carismatico. Tutti sapranno scusare limiti ed errori, ma nessuno ci seguirà se
vede che non crediamo veramente al progetto di vita cui siamo stati chiamati.
La seconda sfida, che equilibra la prima, è sviluppare una sana consapevolezza
delle proprie deficienze. Nessuno ci ha preparato per esercitare un lavoro di
leadership. Lo abbiamo accettato come un servizio, come il nostro modo concreto
di partecipare alla missione della comunità. È ovvio, perciò, che una serie di
limiti ci accompagneranno durante tutto l’esercizio del governo. Non bisogna
averne paura. Si deve invece prenderne coscienza, affidarsi alla grazia del
Signore e alla collaborazione dei membri dell’équipe di governo.
Saper mantenere un giusto equilibrio tra essere e fare. È in relazione con le
altre sfide che ho indicato perché richiede di saper trovare tempi e spazi che
permettano di coltivare la propria vocazione e di organizzare bene il servizio
che ci è chiesto. Riflette anche il dilemma che comporta il dover rispondere, da
una parte, a coloro che desiderano un superiore santo, simpatico, comunitario
anche se non fa nulla e, dall’altra, a coloro cui non importa come sia il
superiore, purché faccia ciò che gli compete. Saper conservare gli spazi
necessari per coltivare l’ “essere” può dimostrarsi una condizione
indispensabile per riuscire nel “fare”.
La sfida di collocarsi correttamente nel momento sociale, culturale ed
ecclesiale di oggi. Si tratta della capacità di comprendere il mondo nel quale
viviamo e, in esso, la vita dei nostri fratelli e la missione dell’istituto.
Questa sfida comporta l’esigenza dello studio, della riflessione e del
discernimento. Non è una sfida solo per il superiore, ma per tutti i membri
dell’équipe di governo.
La tensione tra l’attenzione alle persone e alle opere. Sappiamo che sono più
importanti le persone, ma i problemi delle nostre attività ci inseguono e c’è
sempre la tentazione di subordinarvi le altre cose.
Infine, nella nostra mente sono sempre in conflitto la necessità di avere una
visione a lungo termine che dia senso a quanto facciamo e la necessità di
rispondere alle mille questioni che sorgono ogni giorno. Mantenere l’equilibrio
tra questi due poli sarà sempre una sfida per chi si dedica a compiti di
governo.
Alcune strategie per rispondere a queste sfide
Non ho assolutamente la risposta giusta per tutte queste sfide, alle quali se
ne potrebbero aggiungere molte altre. Desidero solo condividere alcune
riflessioni che ho fatto durante questi lunghi anni di governo. Sono certo che
saprete correggerle e arricchirle. Ciò mi incoraggia a condividerle.
Rinforzare la dimensione teologale della nostra vita
La nostra vita è la risposta a una chiamata ed è solo ascoltandola ancora e
lasciando che guidi i nostri processi interiori che saremo capaci di viverla con
gioia e senso. Ci dobbiamo sentire spinti a ricuperare, coltivare e approfondire
l’esperienza religiosa, sia a livello personale che comunitario. La qualità
della nostra vita si gioca su questo terreno e non su altri criteri di qualità
ed eccellenza. Per questo sarà necessario, anzi fondamentale, trovare i mezzi
adatti per coltivare tale esperienza o dimensione della vita. Noi siamo chiamati
a essere segni comprensibili del riferimento a Dio, all’Assoluto, iscritto nel
cuore di ogni essere umano. La nostra vita deve saper suscitare domande su Dio
nel cuore di coloro con cui entriamo in relazione. Siamo chiamati a vivere
questa esperienza religiosa in un nuovo contesto culturale. La situazione di non
fede o di indifferenza religiosa che si vive in molte parti del mondo non è solo
un problema pastorale, ma anche esistenziale perché entra in noi con l’aria che
respiriamo. In altri contesti, l’immagine di Dio richiede di essere
profondamente purificata con l’ascolto della parola di Dio e la contemplazione
di Gesù, per non allontanarsi dal Dio-Abbà nel quale Gesù ci invita a credere e
al quale ci chiede di affidare tutta la nostra vita. Vi è la tentazione di
passare subito a valutare altri aspetti importanti, ma non altrettanto
fondamentali, della nostra vita. Dare importanza a questi processi e condividere
l’itinerario spirituale di ognuno ci aiuterà a centrarci più profondamente in
Gesù e promuoverà una vera incarnazione del carisma e del patrimonio spirituale
dell’Istituto.
Insieme a questa vi è la sfida di approfondire una spiritualità della
piccolezza, della kenosi, anche nel mezzo dei grandi progetti che eventualmente
stiamo portando avanti. Il religioso “si è svuotato” per lasciare che Dio lo
colmi e perché la sua vita lasci, così, trasparire la sua presenza.
Curare questo aspetto nell’accompagnamento dei confratelli è fondamentale. Credo
che sia uno dei servizi più importanti che il superiore deve offrire in questi
tempi per rispondere alle sfide che ho sopra indicato. È bene che il superiore
maggiore animi questa dimensione nelle visite alle comunità e in altri incontri
provinciali o regionali.
L’eredità e la profezia: al centro sempre la missione
La missione è al centro della vita consacrata. I carismi sono doni dello Spirito
per il bene di tutta la comunità ecclesiale, perché possa crescere nel proprio
cammino di fede, costruire una vera fraternità e sviluppare la missione di
testimoniare e annunciare il Regno. La vita consacrata, e ogni istituto in
particolare, deve assumere ciò che le spetta nella realizzazione della missione
che il Signore ha affidato alla sua Chiesa. Tramite la testimonianza della
nostra vita e la disponibilità assoluta per la missione, a noi religiosi spetta
di ricordare nella Chiesa che il Regno è l’unico bene per il quale vale la pena
dare tutto. È indispensabile, perciò, insistere sulla fedeltà al proprio
carisma. Non siamo chiamati a fare tutto, né a fare un po’ di tutto, e meno
ancora a fare ciascuno ciò che gli piace o gli interessa. Ri-creare il carisma
nei diversi contesti è una delle grandi sfide che viene posta alla vita
consacrata. Ma ciò diviene possibile solo se si è assimilato bene il carisma. Si
deve studiare a fondo l’itinerario spirituale del Fondatore e comprendere
perché, nelle circostanze concrete del suo tempo, egli ha espresso il proprio
carisma in quella forma specifica. Come succede quando si legge la Scrittura, si
deve conoscere bene il contesto per poter comprendere il senso preciso del
testo. Ciò darà la libertà necessaria per trovare in ogni luogo nuove
espressioni attraverso le quali il carisma originale può porsi al servizio della
missione della Chiesa.
Il processo di approfondimento carismatico è particolarmente importante in
questo momento della storia della vita consacrata nel quale, fortunatamente,
aumentano negli istituti i membri che sono nati e si sono formati in ambienti
culturali ed ecclesiali molto diversi da quello in cui era sorto il carisma. In
caso contrario ci troveremo a ripetere modelli di vita e strutture pastorali che
imitano quelle di altri luoghi o di altri tempi, senza essere capaci di
esprimere adeguatamente il carisma che il Signore ci ha chiamato a vivere nella
sua Chiesa.
Mi sembra di somma importanza che i superiori maggiori promuovano e accompagnino
questa riflessione e incoraggino l’adesione cordiale di tutti al cammino di
discernimento che tutta la comunità deve fare insieme. Investire
sull’approfondimento della conoscenza del carisma e dedicare tempo a riflettere
su come viverlo ed esprimerlo nelle opere apostoliche in ogni luogo non è
perdere tempo. Il superiore deve promuovere questa linea di azione con grande
convinzione e preparandovisi adeguatamente.
Insieme a questo, il superiore deve preoccuparsi che si mantenga viva la
dimensione profetica inerente alla vita consacrata e alla sua proiezione
apostolica. Quando parlo di dimensione profetica mi riferisco alla vocazione di
presenza alle frontiere geografiche, sociali e culturali della missione, che è
dove viene collocata la vita consacrata dalla proposta 24 del sinodo sulla
Parola. La nostra presenza deve avere un dinamismo di trasformazione della
realtà e di annuncio di speranza, proprio perché è profondamente radicata nella
Parola della Vita. La sequela di Gesù, come è proposta dal Vangelo, è la norma
di vita dei consacrati (cf PC 2). Essere memoria di questa dimensione profetica
e contrastare tutti quei fattori che sono di ostacolo per viverla con generosità
e audacia è un compito molto importante del superiore maggiore. Nel dialogo con
le persone, nell’incontro con le comunità, nelle esortazioni che periodicamente
offre ai confratelli, il superiore cercherà di promuovere l’apertura delle menti
e dei cuori all’azione dello Spirito che continua a effondere sui consacrati lo
spirito di profezia per il bene della Chiesa e dell’umanità.
Si colloca qui il tema del discernimento. La comunità è chiamata a cercare la
volontà di Dio e il superiore ha una missione specifica in questa ricerca. Non
dobbiamo avere paura delle conclusioni a cui ci può condurre un discernimento
sincero e veramente aperto alle mozioni dello Spirito. Credo che il superiore
dovrebbe dare impulso a questa audacia, che è obbedienza a Dio, troppo spesso
frenata da paure e interessi che non hanno nulla a che vedere con il Regno. Ci
sarà sempre qualcuno a ricordarci le difficoltà e a raccomandarci prudenza. Il
superiore dovrà sempre aiutare la comunità a guardare verso nuovi orizzonti.
La dimensione comunitaria
L’individuo è stato la grande conquista della modernità, ma ne è nociva
l’esasperazione – l’individualismo – purtroppo rafforzato dalla cultura
mercantile e consumistica. Nei gruppi sociali che godono di un certo livello di
vita, come il nostro, il consumo non si orienta alla famiglia, ma all’individuo:
che ognuno abbia la propria TV, la propria macchina fotografica, il proprio
computer, il proprio cellulare, la propria auto, ecc. Si diventa sempre più
gelosi della propria privacy, sino ad eccessi che minano le basi stesse della
famiglia e della comunità. È singolare notare che questa tendenza si riscontra
tra noi anche in luoghi in cui l’ambiente circostante non ne è stato
praticamente ancora toccato. In tale contesto, ricuperare, coltivare e
approfondire l’esperienza e le pratiche comunitarie è oggi una grande sfida per
la vita consacrata. Dovremo cercare quali mezzi possano aiutarci a intrecciare e
a consolidare il tessuto della comunità. Non è cosa da lasciare
all’improvvisazione.
La Chiesa ha ripetuto con insistenza che la vita fraterna in comunità è la prima
parola missionaria. È bello ascoltare l’esperienza di chi testimonia che la
comunità lo ha aiutato e lo aiuta a vivere con gioia la propria vocazione e
rafforza il suo impegno missionario. Ed è molto triste ascoltare il contrario. È
spesso una sfida il passaggio dall’ “io” al “noi”. Abbiamo bisogno di
approfondire la comunicazione nella comunità e di dare maggiore importanza ai
processi di elaborazione e di valutazione dei progetti comunitari. È qui che
trova luogo e senso l’obbedienza come espressione dell’adesione cordiale al
disegno di Dio che si manifesta attraverso il discernimento della comunità e la
mediazione dei superiori.
In questo senso, la visita frequente alle comunità deve costituire una priorità
nell’agenda del superiore maggiore. A mio modo di vedere, è la sua principale
occupazione. Allo stesso modo, ritengo che sia molto importante curare le
relazioni con i superiori locali, perché si sentano veramente appoggiati nella
loro missione di dirigere le comunità.
La crescente interculturalità delle comunità religiose costituisce una nuova
dimensione della vita comunitaria. È un’opportunità di crescita, ma è anche
fonte di preoccupazioni e di tensioni. Le nostre comunità saranno sempre più
multiculturali e un impegno importante sarà passare dalla “multiculturalità”,
che è un dato oggettivo, all’ “interculturalità” che richiede un’opzione ed
esige atteggiamenti e comportamenti determinati. Sappiamo che non è un compito
facile, ma che porta vita. Ci dobbiamo preparare per vivere il dono della
fraternità nelle comunità interculturali. Il superiore maggiore ha il dovere di
fare in modo che chi giunge da una cultura diversa abbia il tempo sufficiente
per integrarsi nel nuovo ambiente culturale; forse dovrà anche costringerlo a
seguire corsi o ad adottare strumenti che possano aiutarlo per questo percorso.
Al tempo stesso, il superiore deve promuovere nelle comunità che ricevono questi
confratelli la sufficiente flessibilità e apertura per raggiungere
un’integrazione in cui si uniscano le ricchezze di ciascuno.
Curare i processi formativi
È interessante costatare che il documento della CIVCSVA Ripartire da Cristo (14
giugno 2002) colloca il tema della formazione permanente prima di quello della
formazione iniziale. È interessante e significativo perché, se non si cura la
formazione permanente si spreca gran parte della fatica che dedichiamo alla
formazione iniziale. In quali comunità si inseriranno coloro che concludono il
processo di formazione iniziale? Per questo credo che la formazione permanente è
un’altra sfida che dobbiamo affrontare nella vita consacrata: una formazione
permanente che ci conduca a vivere con maggiore gioia e intensità la nostra
vocazione, che sviluppi in ciascuno un forte senso di appartenenza all’istituto
e che prepari a un lavoro apostolico più creativo ed efficace. Questo è un altro
tema che richiede l’attenzione del superiore maggiore se vuole che la vita della
sua provincia sia significativa. Risulta importante in un duplice senso:
l’attenzione che il superiore deve dare alla propria formazione permanente e la
cura che deve porre perché la formazione sia una priorità per tutti nella
provincia.
Vi è poi la responsabilità per la formazione iniziale di chi si sta introducendo
nella vita consacrata. Vediamo che nella formazione iniziale si deve
privilegiare l’interiorizzazione degli elementi fondamentali della vita
consacrata e del patrimonio spirituale dell’istituto più che i programmi
accademici, pur riconoscendone l’importanza. È necessario far maturare
convinzioni profonde nelle persone. Dovremo anche curare molto bene
l’accompagnamento personale dei formandi, che è fondamentale per una vera
maturazione psicologica e spirituale. Vi è un’altra dimensione nella formazione
iniziale che non possiamo dimenticare: la rinuncia. Scegliere di seguire Gesù
nella vita consacrata comporta la rinuncia ad altri valori e ad altre realtà.
Quando non si interiorizza sufficientemente questo aspetto, può sopraggiungere
la tentazione di ricuperare ciò cui non si è veramente rinunciato, per la qual
cosa si possono trovare molte giustificazioni di tipo culturale, pastorale ecc.
Ciò destabilizza le persone ed è fonte permanente di tensioni nelle comunità.
Dobbiamo ricuperare la dimensione positiva dell’ascetica. Il superiore maggiore
è il primo responsabile della formazione. Se la visita alle comunità deve essere
una priorità nell’agenda del superiore maggiore, a maggior ragione lo devono
essere le visite ai centri formativi. La sua presenta sarà sempre utile e
contribuirà a consolidare il senso di appartenenza all’istituto.
Vi è infine il problema della formazione dei formatori e, ancor prima, della
destinazione di personale ai compiti formativi. È un tema di priorità che
compete specificamente al superiore maggiore. La scarsità di personale e la
necessità di avere persone qualificate per posti di responsabilità nelle opere
della provincia non dovrebbe essere a scapito della designazione di persone
competenti per la formazione. Qui ci giochiamo il futuro della provincia e dello
stesso istituto. È importante partecipare agli incontri dei formatori perché
sono un’occasione privilegiata per conoscere la situazione dei percorsi
formativi e per sostenere il lavoro dei formatori.
La missione condivisa
Sappiamo che l’idea della missione condivisa nasce da una visione di Chiesa
nella quale i carismi, i ministeri e le forme di vita che questi suscitano sono
tra loro in una stretta comunione, che li rende reciprocamente fecondi perché
portino vita per il mondo.
È un modo di condurre la missione che ci inserisce in un “noi” che va molto al
di là della nostra comunità religiosa e ci mette in una relazione di solidarietà
e di corresponsabilità con altre persone. Siamo veramente disposti a condividere
la missione con altri, cercando di integrare nella nostra spiritualità e nel
nostro stile apostolico i necessari elementi di complementarietà e
corresponsabilità? L’aumento dei laici che si integrano nelle opere dei nostri
istituti è un fatto innegabile. È altrettanto innegabile che il loro apporto è
stato ed è molto significativo. Curare la formazione di questi laici, aiutandoli
ad assimilare il carisma dell’istituto, che dà origine e senso a quelle opere, è
un obbligo che abbiamo. Il superiore maggiore vi deve dedicare tempo e deve
curare la loro integrazione corresponsabile nella vita della sua provincia. Per
molte congregazioni si è dimostrata importante la partecipazione di questi laici
nelle Assemblee, e persino nei Capitoli (almeno in alcuni momenti della loro
preparazione o del loro sviluppo). Il superiore maggiore deve preparare anche i
confratelli ad assumere questa nuova realtà come “realtà di vita”.
Condividiamo la missione nelle chiese locali, desiderando contribuire alla loro
crescita e al loro dinamismo missionario con il carisma che abbiamo ricevuto. In
questo senso ha una grande importanza la relazione del superiore maggiore con i
vescovi. Credo che in teoria ne siamo tutti consapevoli. Il problema sorge
quando il dialogo si fa difficile per visioni di Chiesa diverse o per concezioni
divergenti circa l’esercizio dell’autorità. Penso che non si debba mai
abbandonare la linea del dialogo, ma non possiamo tradire le esigenze del
carisma che abbiamo ricevuto per il bene di quelle stesse chiese. Ritengo molto
importante lo studio dei grandi documenti delle Chiese continentali e dei
Sinodi, che ci offrono punti di riferimento fondamentali per questo dialogo.
Vedo ancora una sfida a proposito della missione: lavorare in rete. Sì. Inseriti
in progetti che non sono “nostri”, nei quali partecipiamo senza esserne i
protagonisti. Sono progetti che siamo chiamati a condividere con altre persone e
istituzioni che cercano la trasformazione del mondo secondo il disegno di Dio
motivati da altre tradizioni religiose o da ideologie umanitarie. È importante
saper portare a questi movimenti lo spirito del Vangelo e lo è anche saper
accogliere le nuove chiavi di lettura che offrono alla nostra stessa fede e al
modo di esprimerla concretamente nel mondo.
Allo stesso modo è un compito necessario cercare percorsi per collaborazioni
intercongregazionali, oltre alla partecipazione alle Conferenze dei superiori
maggiori. Abbiamo fatto qualche passo in questa direzione, ma ancor troppo
timidamente.
Credo che promuovere questo stile di presenza missionaria sia un altro degli
aspetti che un superiore maggiore deve curare in modo particolare in questo
momento della vita ecclesiale.