Sulla scia dell’Assemblea per il Medio Oriente (M.O.) del Sinodo dei vescovi, a fine gennaio si svolge la 3ª Giornata internazionale di intercessione per la pace in Terra Santa. In questa occasione p. Pierbattista Pizzaballa ofm, indica il nostro compito principale: fronteggiare la paura di dover soffrire per la pace. Con questo spirito, pubblichiamo ampi stralci di un dialogo che vale come un abbraccio a tutti i cristiani del M.O. che vivono un periodo di tribolazione e di martirio.

P. Pizzaballa lei ha più volte invitato a guardare il M.O. dall’alto, con lo sguardo di Dio.
Sì, ho così voluto sottolineare il fatto che in questi luoghi le ferite, le paure, i conflitti, finiscono per schiacciarti e non sembra aprirsi alcuna via di uscita o nuova prospettiva. Allora guardare dall’alto significa anche saper prendere le distanze, uscire fuori da quest’aria e guardare il tutto con gli occhi di Dio, di uno cioè che sa andare oltre il confine, oltre il muro. San Francesco ha un’ammonizione: per essere puri di cuore, bisogna che il cuore stesso sia anche illuminato dalla mente! Se metti troppa passione in una realtà finisci per rimanerci dentro e per perderla, perché non riesci a vederla nella sua interezza. Hai bisogno che anche la tua passione sia sempre dominata da una certa presa di distanza, da una forma di sapienza… in modo da riuscire a possederla veramente. È possibile assumere uno sguardo più ampio, ma occorre farlo insieme a Dio. Solo se c’è Dio di mezzo, e quindi la misericordia, allora l’ultima parola non è il peccato.

Echi dal Sinodo del Medio Oriente

 

Sempre nel suo messaggio natalizio, lei ricorda le parole di Benedetto XVI al Sinodo dei vescovi del M.O. (Roma, ottobre 2010): «Guardare quella parte del mondo nella prospettiva di Dio significa riconoscere in essa la culla di un disegno universale di salvezza nell’amore». Quali impressioni ha riportato da quell’incontro?
Rammento la presenza al Sinodo di 180 vescovi, in rappresentanza dell’area che va da dall’Iran a Cipro, compresa la zona del Nord Africa. Si è trattata di un’esperienza di Chiesa forte e molto importante. Forse si è voluto parlare di tutto, mentre era importante focalizzare alcuni temi… Comunque gli argomenti chiave non sono mancati, tra tutti il tema dei “diritti dei cristiani” in M.O. In generale si è parlato molto della situazione dentro la quale essi vivono, meno della loro vocazione. C’è stato un confronto di mentalità: i vescovi occidentali hanno parlato di “laicità positiva”, mentre quelli mediorientali ragionavano di “piena cittadinanza”. Si è poi constatato che tra oriente e occidente non ci sono più confini: p. es. oggi, in un paese come la Svezia, la maggior parte dei cattolici è orientale; e ancora, negli Stati Uniti ci sono chiese orientali ormai di seconda e terza generazione. Il Sacro Romano Impero davvero non c’è più! E qui in M.O. ci sono milioni di immigrati cristiani (filippini, latinoamericani, nigeriani, europei); il 50% dei cristiani in M.O. è occidentale (soprattutto negli Emirati Arabi). Si tratta di situazioni pastorali nuove, molto interessanti.

Nel suo messaggio di Natale, il Patriarca latino di Gerusalemme mons. Fouad Twal scrive che «il Sinodo ha invitato i cristiani del M. O. a vivere da buoni credenti e da buoni cittadini. La fede, lungi dall’allontanarci dalla vita pubblica, dovrebbe renderci tutti più coinvolti nell’edificazione delle nostre rispettive società, sia nei paesi arabi che in Israele».
Posso dire che nel Sinodo si è parlato molto del rapporto con l’islam, quasi per nulla di quello con Israele. Purtroppo la persecuzione dei cristiani è diventata un fatto di dominio pubblico. Bisogna però ricordare che i vescovi del M.O. sono arabi: perciò, anche se il messaggio finale del Sinodo parla in modo blando di Israele, non è stato comunque accolto bene dallo stato ebraico. C’è infatti un problema con Israele, perché i vescovi arabi fanno fatica a digerire la situazione attuale. Nei paesi arabi c’è una forte educazione anti-israeliana, che condiziona la mentalità e la crescita di chi vive in quegli ambienti. Poi c’è la questione palestinese, la realtà del Muro, che molto spesso viene usata come pretesto dai paesi arabi… anche se poi non sembra che agli stessi paesi arabi interessi fino in fondo la sorte dei palestinesi! Comunque va registrato che nel mondo cristiano orientale c’è un forte risentimento anche nei confronti di Israele… una situazione conflittuale e di non conoscenza reciproca aggravata dal fatto che nelle Chiese d’oriente, tranne quelle cattoliche, si è deciso di non far leggere al popolo cristiano l’Antico Testamento perché non ci si vuole “latinizzare”!

Un altro aspetto del Messaggio natalizio del Patriarca latino riguarda il turismo religioso e i pellegrinaggi in Terra Santa, che stanno conoscendo cifre record. Cosa succede?
Si parla di 3milioni e mezzo di presenze nel 2010… ma bisogna subito precisare che per l’80% si tratta di turismo religioso e solo per il 20% di pellegrinaggi. Cosa differenzia il pellegrino dal turista? Il pellegrino viene per fare esperienza, per pregare e per rimanere nei luoghi sacri. Il turismo spesso danneggia i pellegrinaggi… Il fatto è che non essendoci più violenza fisica (ma solo politica) la gente viene. E cominciano ad arrivare sempre più gruppi dai paesi in via di sviluppo.

Storia e geografia della salvezza
 

Ci può ricordare i compiti fondamentali della Custodia di Terra Santa oggi?
La Custodia è un’istituzione antica con una missione, affidata dalla Chiesa cattolica ai frati francescani, che è sia quella di recuperare i Luoghi santi (dopo l’esperienza delle Crociate) sia quella di organizzare la comunità cattolica andata distrutta in Terra Santa. Fino al 1847 la Custodia è stata l’unica presenza ufficiale. Dopo tale data, si è potuta ricostituire ufficialmente la Chiesa latina e la Custodia è rimasta un importante riferimento che gestisce oggi gran parte delle attività pastorali. I frati, poco più di trecento, di quarantotto diverse nazioni, gestiscono infatti parrocchie e scuole nei luoghi chiave (Nazareth, Cana, Betlemme ecc.).
La Custodia ha poi anche incarichi che riguardano il cosiddetto “status quo”. Dopo epoche di conflitti insanabili, alla fine dell’impero ottomano ci si decise a congelare la situazione: da qui sorge un insieme di consuetudini consolidatesi nel tempo, con la creazione di un regolamento che stabilisce le relazioni tra cattolici, ortodossi e armeni. Qualcosa si può toccare se c’è l’accordo unanime di tutti… che non ci sarà! Dobbiamo ricordare che, pur avendo la stessa fede, siamo diversi. Per esempio, la nostra liturgia per i greci è teatro! Quando noi suoniamo l’organo, loro si tappano le orecchie. Concepiamo tutto in modo diverso, dal modo con cui ripulire i luoghi al modo con cui restaurarli. Non posso pensare che io, solo perché ho vissuto il concilio e ho tolto le scomuniche, sia in diritto di pretendere un dialogo aperto e nuovo dall’altro. Con i greci abbiamo finito un lavoro sui servizi igienici al Santo Sepolcro dopo venti anni di discussioni. Questo è il livello a cui siamo… Allora lo “status quo” è anche un modo per poter custodire i propri spazi. Qui in Terra Santa se non hai il tuo spazio fisico, tu non esisti. Se c’è la storia, c’è anche la geografia! Non c’è solo la storia della salvezza, c’è anche la geografia della salvezza. Se non c’è il luogo, non c’è neanche l’evento. La Rivelazione è un evento prima che un racconto messo per iscritto. Abramo non è solo un genere letterario, è stato una persona in carne e ossa. Se non c’è Abramo, non c’è neanche Gesù. Se ci sono Abramo, Isacco, Giacobbe, Davide, Salomone, i profeti fino a Gesù… allora c’è anche il luogo dove essi hanno vissuto. Stare nella terra e custodire i luoghi della memoria di quegli eventi significa legarci a quella storia. La Terra santa è chiamata anche il “quinto evangelo” o “ottavo sacramento”, perché ti consente di fare esperienza dell’evento.

Cosa fate come francescani per cooperare alla pace tra i due stati?
Niente. i cristiani non hanno e non possono avere qui un ruolo di mediazione. Perché qui i cristiani sono arabi… per fare i ponti bisogna poter essere sia di qua che di là… se sei solo di qua non puoi fare ponte con gli altri. Dagli ebrei israeliani i cristiani sono avvertiti sicuramente come una realtà pacifica, ma comunque “altra” rispetto a sé. Il nostro ruolo non è dunque quello di mediazione: se palestinesi e israeliani non si parlano è perché non vogliono farlo. Quando vogliono parlarsi, lo fanno molto ben senza di noi. Questo non significa che la nostra realtà qui non abbia senso. Al contrario. Noi siamo sempre stati qui. Siamo l’unica religione che è nata qui. Gli ebrei sono nati nel Sinai, i musulmani in Arabia… eppure noi siamo qui in minoranza da sempre! Si tratta di un paradosso. Il nostro ruolo dunque non è quello di essere al centro dell’attenzione, ma di dare testimonianza viva. Custodire il Santo Sepolcro non è solo sostare sul luogo, pregare, ma anche preservare quella memoria del perdono che è la Croce.

Come ha imparato a guardare questa terra dall’alto?
Io sono sempre vissuto “in mezzo”. Sono cattolico e sono andato a studiare in un’università ebraica, perché abitavo nel quartiere musulmano della città vecchia. Ogni giorno dovevo passare da una parte all’altra: ho visto sia i soldati ebrei con i loro soprusi sugli anziani sia gli stupendi studenti ebrei all’università. Poi mi sono fermato a veder litigare i cristiani presso il Santo Sepolcro e, tornando a casa, ho incontrato il musulmano che ti sputava addosso. Tutto questo costringe a ridimensionare i propri giudizi, le proprie appartenenze. Perché riconosciamolo, schierarsi umanamente gratifica sempre molto! Mentre cercare di volere bene, cercare di comprendere senza giudicare, comporta anche una grande esperienza di solitudine…
Certo lo stare in Terra Santa cambia anche il modo di pensare e di vivere la fede. Anzitutto ti rendi conto che non sei l’unico ad amare Gesù; anche gli ortodossi, per esempio, amano Gesù e non meno di me… anche loro sono pronti a dare la vita per lui! Nessuno di noi dunque ha il monopolio sulla fede in Gesù. Ci dobbiamo dividere questo luogo e ci dobbiamo dividere anche la memoria di quella morte e risurrezione, che è il nocciolo delle nostra fede. È cambiato poi anche il modo di leggere la Scrittura. Con i religiosi ebrei con cui andavo a scuola, persone straordinarie, si parlava della propria vita di fede. Mi sono accorto che all’inizio (ero sacerdote da poco) davo risposte studiate a tavolino. Quello che avevo studiato, i miei modelli, non passavano nella comunicazione. Col tempo ho dovuto trovare un modo nuovo di parlare della mia fede, soprattutto puntando su quella che era la mia esperienza personale di Gesù.
E ancora, leggere insieme il Vangelo con un ebreo che non conosce Gesù e che non lo vuole come Signore è stata un’altra bella esperienza, che ti aiuta. Questo secondo me è il vero dialogo interreligioso. Anche il modo di pregare e di celebrare cambia, perché noi cambiamo. Il modo di pregare deve dire quello che sei. Leggi la tua identità a confronto con quella che viene dalle altre fedi… e non la perdi!