Ogni giorno gli avvenimenti ci incalzano, e quasi niente più ci stupisce. I
fatti di cronaca ci solleticano, e raramente scatta dentro di noi qualcosa di
davvero originale. La giostra della vita continua a girare, e facciamo sempre
più fatica a scendere, fermarci a pensare per capire e darle un senso. Come un
fiore, la vita rischia di morire per mancanza di attenzione, di qualcuno che se
ne curi davvero. E, se pensiamo a noi consacrati, la cosa è a dir poco
preoccupante.
Meglio non pensare
Forse aveva ragione Pascal, quando scriveva: «Gli uomini, non avendo potuto
rimediare alla morte, alla miseria, all’ignoranza, hanno deciso di non pensarci
per vivere felici» (Pensieri, 98). Oggi, la nostra società manifesta palesemente
sintomi di fuga dalla realtà, meccanismi ben oleati per l’organizzazione di
scenari alternativi alla dura realtà della vita quotidiana. Le televisioni
producono a ciclo continuo programmi d’evasione, giochi a quiz, lotterie e
dibattiti approssimativi che invadono le nostre case e rischiano,
paradossalmente, di far apparire fuori posto i problemi della vita reale:
relazioni interpersonali e sociali, giustizia, pace, lavoro, economia, politica,
onestà, verità… È un po’ come quando si sta in una sala d’attesa e è necessario
inventarsi qualcosa per ammazzare il tempo. Peccato che la sala d’attesa sia la
vita e, con tutta probabilità, neppure sappiamo che cosa aspettare!
Nella vita di tutti, però, ci sono interrogativi, antichi e nuovi, che attendono
una risposta. Alcuni metafisici e sostanziali, altri più contingenti e legati al
cammino della storia quotidiana. Qual è il senso della nostra vita? Dove ci
porta il tempo? Siamo prigionieri o protagonisti della storia? Le nostre scelte
possono incidere o non contano niente? Possiamo dire di essere cresciuti in
umanità, oppure ne stiamo perdendo il senso?
«Meglio non pensarci!», sembra essere la reazione più diffusa. La tendenza di
sottrarsi ai problemi e alla sofferenza emotiva che comportano, in qualche
misura, è tipica di tutti gli uomini, ma è anche la base di tutte le malattie
psichiche. Jung diceva che «la nevrosi è sempre un sostituto della legittima
sofferenza». Ma con il tempo questo sostituto diventa più doloroso delle
sofferenze e fatiche che doveva ovviare, finendo per divenire esso stesso un
problema in più. Quindi: più si cerca di fuggire il problema, più ci si
invischia nella fatica del vivere! Quando cerchiamo di evitare la sofferenza che
comporta la questione del senso, così come la soluzione dei problemi quotidiani,
perdiamo per strada anche i benefici che questa sofferenza ci procura, le
offerte che porta con sé per crescere in vista di una maggior verità e libertà.
Crisi, fatica e sofferenza sono un segnale, posto sul nostro cammino, che sta a
indicare un momento cruciale per la nostra umanizzazione, il nostro divenire
pienamente noi stessi.
Angoscia e speranza
Domande esistenziali circa il senso della vita, la presenza del male nel cuore
dell’uomo, la caducità della vita e delle sue espressioni dicono riferimento a
un orizzonte di significati che si deve cercare e trovare. E il risultato di
questo confronto con le fondamentali questioni antropologiche non è sempre
brillante e positivo.
Molti uomini non riescono a sfuggire a un vero e proprio sentimento di angoscia.
Anni fa si poteva affermare, non senza un malcelato senso di superiorità, che
questa era l’inevitabile condizione dei non credenti. Non so se oggi potremmo
dire la stessa cosa. Quante persone, uomini e donne delle nostre comunità
parrocchiali (ma anche religiose!) si trovano nelle stesse condizioni, dominati
da un senso di vuoto e d’incertezza in cui a fare da protagonista non è Dio e la
sua speranza, ma l’angoscia della morte, l’illusione e il senso di inutilità
della vita, a volte la disperazione! L’aver a che fare frequentemente con la
parola di Dio e i sacramenti non riesce a condurre a un approdo di speranza, di
fiducia nel senso cristiano della vita e dell’importanza della propria azione.
Forse uno dei problemi concreti del nostro modo di pensare al senso della vita
sta nel fatto che tendiamo a pensarlo come un futuro durevole, come un
prolungamento della nostra attuale esperienza della vita. Ma gli stessi filosofi
hanno già stigmatizzato questa visione come un vicolo cieco poiché, come diceva
Heidegger, «tutte le speranze umane che vertono solo sul prolungamento di questa
vita, ci lasciano imprigionati nella morte»
Grande intuizione, invece, quella dei Padri della Chiesa che vedevano nella
morte un’invenzione dell’amore di Dio per impedire l’ “immortalarsi” della
morte. E grande dono la speranza, energia di Dio infusa nel cuore dell’uomo con
il dono dello Spirito, capace di offrire all’uomo l’opportunità di vivere già
fin d’ora animato e motivato dalla vita e dall’amore di Dio rivelato in Gesù
Cristo che ha cambiato radicalmente la storia.
La nostra umanità è in se stessa una questione da affrontare e riempire di
senso. E poiché la nostra condizione è tanto debole, mortale e così miserabile,
nulla ci può consolare quando la consideriamo seriamente. È sempre Pascal che ci
offre, come tentativo di risposta all’angoscia del vivere, la teoria del
divertissement. Il divertimento inteso come «distogliere» l’attenzione dalla
realtà, cercare di distrarsi, stordirsi per non cadere vittime dell’angoscia del
vivere.
Nuovo idolo
Oggi il divertimento, anche con le più giustificate motivazioni, è uno degli
idoli più venerati del nostro tempo. L’intuizione di Pascal ci guida ad
approfondire quel meccanismo per il quale, «noi non cerchiamo il godimento
tranquillo e pacifico che ci lascia pensare alla nostra infelice condizione…, ma
il trambusto che ci distoglie dal pensarci e ci diverte… Per questo gli uomini
amano tanto il rumore e lo spostarsi da un posto all’altro; per questo la
prigione è un supplizio orribile; per questo il piacere della solitudine è una
cosa incomprensibile» (Pensieri, 83).
Divertirsi per non pensare, per avere la sensazione di non rimanere impantanati
nei problemi della vita, per sottrarsi alla serietà della condizione umana.
Molti giovani oggi, dicono alcuni sociologi, faticano a concentrarsi nello
studio, o più semplicemente a «riflettere». Ciò che impegna razionalmente –
come, ad esempio, la dimensione spirituale e religiosa – viene accantonato, o
addirittura rifiutato, perché disturba la nostra spensieratezza. Discoteche,
cinema, palestre e centri benessere sono diventate i nuovi luoghi di culto, e la
preoccupazione di come trascorrere le vacanze o il weekend spesso si trasforma
in ossessione. Tutto questo aiuta ad affrontare il senso della vita e della
morte? Si risolve un problema cercando di dimenticarlo o evitandolo? Forse
bisogna ammettere che il divertimento è, così com’è spesso vissuto, la
confessione di una sconfitta.
Eppure, la felicità non è soltanto un desiderio che abita il nostro cuore, ma è
un mistero, una realtà di cui non conosciamo ancora i lineamenti definitivi.
Come tale, la felicità è anche vocazione, una chiamata a entrare nel dinamismo
stesso della Vita, di Dio. Non è solo realtà che l’uomo può organizzarsi in modo
del tutto autonomo, soggettivo: è un orizzonte di significato che può (e deve)
scoprire progressivamente, lasciandosi guidare.
In questo percorso che segna l’esperienza di ogni uomo, la società consumistica
esercita un influsso disorientante, poiché propone “idoli di sostituzione” che,
prima o poi, si manifestano risposte inadeguate al vero bene dell’uomo. Questi
“idoli” non contribuiscono a una progressiva coesione della propria identità, ma
ne favoriscono la dispersione. Possono gratificare il bisogno di continua novità
che l’uomo di oggi sperimenta, ma insieme lo costringono a essere semplice
fruitore di beni ed esperienze che gli procurano un’immediata gratificazione:
uno schema ripetitivo che non provoca la sua creatività, ma lo rende preda
dell’abitudine, della superficialità e, in definitiva, della noia. La prova di
ciò è offerta dalla disperazione che comunque visita l’uomo sazio di beni nelle
forme oggi più frequenti: vuoto esistenziale, depressione, le dipendenze più
diffuse (droghe, alcol, gioco, sesso), suicidi.
Per quanto sia legittima la ricerca della felicità, non ogni mezzo è in grado di
condurre ad essa, e l’uomo postmoderno fa proprio questa esperienza. Tutto preso
dalla propria libertà, si illude di poter giungere alla felicità per la via
della spontaneità e dell’immediatezza. E si trova prigioniero delle dinamiche
pulsionali ed emotive, meno libero di cercare dove realmente stia di casa quel
pieno compimento di sé che tanto desidera, ma che non sa come raggiungere. Essa
può essere conosciuta e sperimentata solo progressivamente, impegnandosi a
passare dal campo delle semplici sensazioni a una lettura della realtà e
dell’esperienza mediate dal significato. L’uomo, infatti, pensa di trovare la
felicità nelle cose, nelle persone, in particolari condizioni di vita, in
determinate situazioni o esperienze, e non si rende conto che tutte queste
realtà sono solo simboli di beni assoluti, vera ragione della speranza che abita
il cuore dell’uomo.
Alla luce di un mistero
Il cristiano, e a maggior ragione il consacrato, alla domanda cruciale se la
vita abbia un senso o sia dominata dall’assurdo, risponde che un senso c’è, ed è
un mistero: il mistero dell’amore di Dio che, in Cristo, si fa storia per
trasformarla in un sentiero che porta a lui.
Per la maggior parte degli uomini e donne del nostro tempo la questione del
senso della vita è il problema centrale, anche se non sempre viene tematizzato
in modo cosciente. Il riemergere di fenomeni come l’occultismo, l’astrologia, la
chiaroveggenza, dei tanti fenomeni riconducibili al movimento New Age sono segni
di una ricerca di significato per la propria esistenza.
Anche per il credente il senso della vita non è un dato acquisito e assicurato
una volta per tutte per il semplice fatto che ha fede o ha compiuto una scelta
di vita definitiva. Non è un dato statico per cui si possa dire: «io credo,
quindi la mia vita ha senso!». Non ci sono sconti speciali sul prezzo da pagare
per dare senso alla propria vita, e una volta scoperto e scelto il senso della
propria vita non è garantita la coerenza, né assicurata la fedeltà.
Soprattutto, il mistero dell’incarnazione di Cristo e la sua esperienza di vita
ci dicono che solo incontrando gli altri e vivendo con attenzione e pazienza le
vicende della storia ci si può aprire al dono salvifico di Dio. La dimensione
spirituale tipica del cristiano e del consacrato esprime questa attitudine
all’incarnazione, assumendo così una concreta fisionomia sociale, dal momento
che Dio ha scelto di agire nella storia passando attraverso l’accoglienza e la
collaborazione delle sue creature.
Tutto ciò fa parte del dinamismo tipico della conversione, che chiama sempre
fuori da noi stessi per aprirci ai più ampi orizzonti di Dio, al nostro futuro
più autentico. Essa mette sempre in discussione l’uomo, lo rilancia verso il
compimento di se stesso e lo chiama a verificare l’autenticità del proprio
cammino vocazionale. Sarebbe bene chiedersi sistematicamente quali sono i
modelli di riferimento (reali) più frequenti per la vita e le scelte dei singoli
consacrati e delle comunità? Quanto sono evangeliche le nostre scelte
quotidiane? Con quanta libertà ci lasciamo provocare dall’ideale della vita
consacrata? Quanto ci sentiamo parte della storia, dei tanti drammi dei nostri
giorni, in cammino con l’uomo del nostro tempo?
C’è una crisi di spiritualità nella vita consacrata. È una crisi di significato
che non può trovare soluzione attraverso progetti vocazionali più originali in
cui si investe sul futuro, su chi ancora non è nella vita consacrata, ma che
trascura di mettere a tema i punti scottanti che deve affrontare chi consacrato
lo è già.
La difficoltà di un’azione apostolica rivolta a un mondo catturato da interessi
totalmente diversi mette a dura prova la nostra speranza. Ogni giorno viviamo la
tentazione di addomesticare l’originale intuizione evangelica e la missione
propria della nostra vocazione all’idealità piatta di un mondo globalizzato dal
criterio dell’efficientismo, dell’ economia e dal “dio” denaro. Come consacrati
non dovremmo mai dimenticare che più esigente è l’impegno nella storia
dell’uomo, più è necessaria una vita di preghiera e una spiritualità profonda.
Solo esse possono nutrire il cuore dei consacrati con quella forza che rende
possibile l’impegno richiesto dai problemi del nostro mondo – primo tra tutti:
riconsegnare ogni uomo alla speranza e alla dignità di figlio di Dio.