In un mondo lacerato dal rumore, discorrere sul silenzio può sembrare una
perdita di tempo. Per un gran numero di persone il piacere sta nel rumore. Ci
sono individui che lo idolatrano, altri che senza di esso si sentono persi,
perché incapaci di stare nel silenzio. Il rumore costituisce un modo di fuggire
da se stessi, specialmente da quelle realtà che sono traumatiche e frustranti, o
anche dal confronto con il proprio essere. Eppure, in mezzo a questa realtà, il
silenzio può costituire un cammino di guarigione, nel senso che dà la
possibilità di comprendere meglio gli avvenimenti che ci circondano e che
toccano la nostra vita.
In un articolo dedicato a questo argomento, p. Rogério Gomes, redentorista,
scrive che il silenzio, in una società del rumore come la nostra, costituisce
una vera e propria sfida. Soprattutto per chi vuole dedicarsi alla preghiera e
alla lectio divina e cercare Dio. ,
Un silenzio kenotico
Per giungere all’unione e all’intimità con Dio è necessario, osserva il padre,
percorrere un cammino che si sviluppa in quattro momenti o tappe.
Occorre coltivare, anzitutto, un silenzio che egli chiama kenotico. Ciò avviene
quando sospendiamo i nostri giudizi, i pensieri e le preoccupazioni; quando ci
immergiamo nel nostro mondo interiore e lasciamo la nostra casa limpida, pronta
a ricevere il visitatore illustre che è Dio. Nel silenzio kenotico la domanda
che ci poniamo è: di che cosa voglio svuotarmi? Kenosis vuol dire infatti
spogliarsi di se stessi, staccarsi dal proprio io, dalle proprie sicurezze. Non
è un distacco dovuto a disprezzo, ma l’espressione di un desiderio profondo di
lasciare che l’azione di Dio penetri nelle profondità delle nostra azioni.
Questo liberarsi da se stessi vuol dire essere come un’argilla che poco alla
volta va modellandosi nelle mani del vasaio. Ci lasciamo cioè plasmare dalle
mani del Vasaio Eterno.
In realtà, la kenosis non ci svuota di niente se non dai nostri legami
interiori. È una liberazione dalle prigioni che noi stessi ci creiamo, che sono
come delle fortezze che ci nascondono l’amore profondo di Dio. Bernard Häring
afferma: la kenosis è solo apparentemente uno svuotamento. In realtà, è tutto un
impegno per aprirsi all’azione della grazia di Dio, per rimanere immuni dagli
agguati dell’orgoglio.
Il mistero della kenosis, ci aiuta inoltre a comprendere il processo redentore
di Cristo: la sua incarnazione, vita, missione , la sua morte e risurrezione.
Infatti la vita di Cristo è stata una kenosis perenne.
Un silenzio ontologico
È necessario poi il silenzio ontologico che ci conduce ai fondamenti del nostro
essere, alla nostra abitazione interiore, al riscatto della dimensione sacrale
che è in noi e del soffio divino che molte volte dimentichiamo nel corso della
vita. Ci aiuta a comprendere che non siamo né angeli, né demoni, siamo
semplicemente esseri umani, con le nostre virtù e ambiguità. Essere umani
significa dialogare con un io interiore, con una storia personale e con una
realtà che la circonda ed esiste nel tempo e nello spazio. È questo il momento
in cui ci stiamo di fronte a noi stessi, disarmati dalle nostre verità assolute,
arcaiche, e ci mettiamo in questione in una maniera che provoca la la catarsi.
Il silenzio ontologico, sottolinea p. Gomes, nella sua profondità ci conduce
all’abisso esistenziale del nostro essere per riempirlo di significato e farci
avanzare nelle acque più profonde del mare della nostra esistenza.
È il momento in cui passiamo dall’esteriorità che è in noi e ci immergiamo nella
nostra storia personale, nella nostra costituzione bio-fisica-psicologica, nei
valori personali e culturali, consentendo così il riscatto del nostro essere. In
questa tappa, la domanda centrale è: chi sono io? Il silenzio ontologico ci
permette di prendere contatto con il nostro passato, di riconciliarci con esso,
e di entrare in una profonda comunione con il nostro essere, dandoci la
possibilità di ricominciare e la speranza di poter giungere alla perfezione.
La terza dimensione del silenzio è quella mistagogica. È il silenzio che ci pone
davanti al mistero, all’ineffabile, a una realtà destinata a provocare in noi,
esseri umani, il desiderio supremo e ci fa comprendere il senso della nostra
grande piccolezza. Ci conduce a una profonda esperienza del mistero, a una
spiritualità mistagogica. Il silenzio mistagogico ci stimola a scrutare il
mistero di Dio, in un atteggiamento di fede. Ci permette di vivere l’esperienza
dell’amore autentico davanti a colui che ci ha creato. E tanto più amiamo,
quanto più conosciamo. Giunti a questo grado, possiamo scrutare, al di là del
mistero che è Dio, anche il mistero che siamo noi stessi.
C’è infine il silenzio teofanico quello che, nel profondo svuotamento
dell’essere, fa incontrare il mistero e permette alla voce di Dio di parlare.
Ascolto amoroso di Dio che parla
Il silenzio conduce a un ascolto amoroso di Dio. Ascoltare/udire suppone un
atteggiamento discepolare, obbediente. Il discepolato del silenzio porta quindi
a quel servizio caritativo che va incontro all’altro e l’accoglie così come è;
si tratta dell’ascolto di Dio che parla anche attraverso l’altro. Il grande
esempio è quello di Maria (Lc 1,29-45) che accolse l’annuncio dell’angelo, si
interrogò sul significato di ciò che aveva ascoltato e si mise in viaggio per
andare a visitare la cugina Elisabetta.
La Sacra Scrittura è piena di testi che si riferiscono all’ascolto di Dio. Per
l’israelita, ascoltare ha delle implicazioni profonde nella sua vita, nel suo
agire etico-spirituale. In breve possiamo affermare che gli israeliti furono il
popolo dell’ascolto di Dio, e quando non lo ascoltarono, andarono incontro a
delle conseguenze disastrose nella loro vita.
Per ascoltare è necessario fare silenzio, aprire gli orecchi e fare attenzione a
colui che parla. Ma come ascoltare Dio se non lo vediamo? Un dialogo infatti
suppone due interlocutori, uno che parla e l’altro che ascolta. Dio ci parla, ma
noi non lo vediamo… Per questa ragione, senza un ascolto amoroso, Dio rimarrà
sempre sconosciuto, susciterà solo paura, e mai saremo in grado di instaurare
con lui un dialogo vicendevole. Egli è un interlocutore silenzioso, ma ci
interpella con la voce del silenzio… Dio infatti è uno che dialoga e con cui si
dialoga: basta volerlo ascoltare!
L’atteggiamento dell’ascolto non è facile soprattutto quando abbiamo a che fare
con persone che dicono cose che non abbiamo voglia di ascoltare. Ascoltare gli
amici è facile, ma ascoltare persone estranee, con i loro problemi, richiede
ascesi. Ma se vogliamo fare una profonda esperienza di Dio, è necessario
ascoltare e assumere l’atteggiamento dell’autore biblico quando afferma:
«Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. tu amerai il
Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze.
Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi
figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via,
quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un
segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti
della tua casa e sulle tue porte» (Dt 6,4-9).
Questi versetti forniscono elementi molto preziosi per riflettere sull’ascolto
amoroso di Dio. Lo Shemá è un imperativo che manifesta una convocazione, una
professione di fede israelita nell’unicità di Jahweh: uno solo è il liberatore e
a motivo della sua azione liberatrice nel mondo deve essere ricordato
incessantemente e amato di generazione in generazione, poiché le sue azioni
hanno segnato profondamente la vita del popolo. Esso evoca una profondità di
ascolto ineffabile. Si tratta di auscultare, ossia, di prestare attenzione,
comprendere, accogliere, intendere, esaminare, discernere, farsi obbedienti,
acconsentire. È mettere in pratica ciò che si è ascoltato coniugandolo con la
vita in modo che colui che ha ascoltato annuncia, proclama e invita gli altri a
fare l’esperienza del Dio unico.
L’implicazione di questo ascolto è l’amore. Si tratta infatti di una realtà del
cuore, inteso come centro delle decisioni, luogo dove l’essere umano è quello
che è, del luogo della coscienza.
Soltanto colui che fa l’esperienza di ascoltare l’altro è in grado di amarlo
nella sua totalità, con tutto il cuore. Amare con tutto il cuore è donarsi
gratuitamente, senza riserve, da cuore a cuore; è fare l’esperienza della gioia,
del timore, del coraggio, della sofferenza, del desiderio, della tristezza.
Amare con tutto il cuore richiede di andare al centro delle nostre decisioni e
della genesi delle nostre intenzioni, e fare l’esperienza dell’amore assoluto,
Dio, con tutta la nefesh (v. 5), termine che può essere tradotto con tutta la
vita, l’anima, il respiro… con tutto ciò che rende l’uomo capace di vivere. È la
creatura con tutta la vita, con tutta la forza del suo essere, con i suoi
appetiti e desideri, col suo essere e l’esistenza, e anche con le sue miserie. È
l’esperienza dell’indigenza che desidera Dio in maniera straordinaria con tutte
le sue forze.
Silenzio e presenza di Dio
Se il silenzio è un ascolto amoroso che ci fa entrare nell’intimità del nostro
essere. Ci introduce nel nostro tempio interiore e ci permette di percepire Dio
che entra in questo santuario che lui stesso ha creato, per così contemplare la
sua meravigliosa opera. È qui in profondità che il creatore e la creatura si
contemplano, è qui che si fa l’esperienza profonda dell’amore di Dio che viene e
che permea tutto ciò che è umano nella sua totalità.
Sant’Agostino, nel secolo IV parla dell’importanza di riservare uno spazio alla
meditazione e al silenzio. A questo scopo, è necessario raccogliersi, isolarsi
da ogni rumore, di immergersi nel profondo dell’anima, lasciando da parte il
rumore e la confusione, e ascoltare nella calma la parola per comprenderla. Il
silenzio è il cammino per giungere all’interiorità, e la condizione che consente
di cogliere la voce della verità e intenderla.
Sapremo di essere giunti al vero silenzio quando sentiamo il battito del nostro
cuore, e in mezzo al rumore, il ritmo dei nostri passi. Il silenzio raggiunge e
penetra il cuore umano ed è qui che risiede la nostra interiorità, è il luogo
dove siamo ciò che siamo. Il silenzio fatto di preghiera ci mette in comunione
profonda con la Trinità e ci spinge all’azione.
Un tesoro da non perdere
Il silenzio ci aiuta, nel processo di integrazione personale, a cogliere le
nostre luci e le nostre ombre e a convivere armoniosamente con esse. Il silenzio
suscita sensibilità, e al momento giusto dà le risposte alle inquietudini
personali.
La mancanza di silenzio invece fa perdere la sensibilità. Non bisogna mai
dimenticare nelle preghiere personali e comunitarie che i momenti di silenzio
sono importanti per l’interiorizzazione. Molte volte facciamo delle nostre
preghiere personali e comunitarie dei discorsi. Vogliamo metterci dentro tutto
quello che sappiamo, ma allora questo è meno di tutto che pregare. Non lasciamo
cioè parlare lo Spirito, soffochiamo con la nostra ragione discorsiva il
sentimento cuore che invece vuole assaporare il silenzio emanato dal soffio
dello Spirito. Il silenzio conduce alla comunione contemplativa con tutto
l’universo, a prendere coscienza che anche noi ne siamo parte, e nello stesso
tempo a contemplarlo come opera del Creatore. Ci permette di formarci una
coscienza riflessiva ed ecologica, a destarci alla bellezza emanata dal cosmo, e
a percepirlo come la grande casa che accoglie l’essere umano e lo sostenta
perché possa sviluppare le sue potenzialità.
C’è chi si perde d’animo, conclude p. Gomes, perché non riesce a fare silenzio.
In effetti, si tratta di un cammino lento e arduo, che richiede costante
esercizio e apertura allo Spirito. C’è anche chi riesce a fare silenzio in mezzo
al rumore e a coltivare un alto grado di meditazione e di intimità con Dio. In
una parola, se vuole pregare, bisogna fare silenzio.(a cura di Antonio
Dall’Osto).