«Vale pure per noi quanto dice il salmo: «anche il sacerdote e il profeta
si aggirano per il paese e non sanno che cosa fare»? Non è certo per
disaffezione o per pigrizia, ma perché non si sa più ciò a cui siamo chiamati in
quanto religiosi/e a partire dalla nostra identità … A proposito a quale
identità appellarci?» ( p. S. P.)
I cambiamenti in campo mondiale non ci fanno capire chiaramente quale sia il
nucleo attorno cui costruire la nostra identità. Questo problema tocca l’uomo
contemporaneo, sia esso credente o no, e sarebbe miope di fronte a tutto ciò
chiudere gli occhi. Sarebbe miope dire noi siamo religiosi e la nostra identità
l’abbiamo chiara. Certamente abbiamo un nucleo in cui riconoscersi, quello di
essere gente abitata dal desiderio di imparare ad assumere l’attitudine di Gesù
che guarisce e risana. Ma non ci è chiaro come esserlo oggi. Tutto il messaggio
del vangelo dice che il cristiano non è mai arrivato. La vita del credente è
cammino, a volte nella notte, nell’oscurità per cui non è un peccato dire non ho
chiara l’identità, perché questa non è mai data, è sempre un itinerario, è
sempre un qualcosa da cercare giorno dopo giorno sapendo che sarà sempre una
identità incompiuta. Coloro (Ordini, Congregazioni, Chiese) che pensano e dicono
di aver trovato la quadratura del cerchio, probabilmente sono i più lontani
dalla verità. Dobbiamo riscoprire per la nostra vita umana e religiosa la via
maestra di essere nomadi e cercatori, piuttosto di gente che dica io ho trovato.
L’identità è un cantiere sempre aperto, è un processo che non smette. Non è ciò
che abbiamo dietro, ma quello che facciamo oggi o che faremo domani. È uno
sfociare ininterrotto che si compone sulla base delle relazioni. San Bernardo
dice che la sua identità carismatica è debitrice a varie correnti di
spiritualità a lui contemporanee. Tutto ciò viene a dire che un certo tasso di
ibridazione è vitale: «i soggetti che riconoscono dentro di sé un’identità tra
altre sono ricchi, mentre quelli che vogliono o non possono che assumerne una e
una sola, e di essa fanno, o sono costretti a fare il loro marchio di
riconoscimento sono fondamentalmente poveri, sono fondamentalisti nella loro
povertà. Di un’identità unica si muore e spesso si uccide» .
In questa direzione ci spinge pressantemente quest’ “ora” della storia, tempo di
mille istanze, e se si vuole, anche di confusione, di fronte a cui c’è un senso
di smarrimento e di difficoltà. Ma nello stesso tempo ci è di incoraggiamento
confrontarci con le scelte che Gesù ha fatto nello scegliersi i discepoli: «non
convoca gli eroi ma i piccoli, miti, poveri, piangenti. Non chiede la santità
dei puri e duri; non si rivolge ai migliori, ai più forti, si è rivolto a
pubblicani e peccatori, a rocce che poi si sono sbriciolate, come Pietro; si è
rivolto a gente dalla spada facile e dalla bugia pronta, a una che aveva sette
demoni in corpo» . Si rivolge a gente come noi per abilitarci a gesti nel
quotidiano, «ma gesti che toccano, gesti di ascolto e di pazienza, di servizio e
di dono, gesti di pace e di giustizia, gesti come quelli di Gesù, che non
vediamo mai progettare “opere” ma lo vediamo fermarsi, ascoltare, toccare occhi,
labbra, orecchie, spezzare il pane, entrare nelle case, sedere a mensa, posare
una carezza sul fondo dell'anima e parlare delle cose d'amore come nessuno prima
aveva saputo fare» . In questo consiste l’identità della vita consacrata.
Oggi poi per una identità a misura del bisogno della nuova società, senza
distogliere l’attenzione dalle origini dell’Istituto, dalle radici, bisogna
preoccuparsi della forza vitale della linfa, quella del tempo, che sale da esse.
In questo si è aiutati dal prendere atto che Gesù non è venuto a mettere il
mondo dentro la Chiesa, ma la Chiesa dentro il mondo , per cui il mondo viene ad
essere non soltanto uno spazio dell'agire ma un elemento che gioca un ruolo
determinante, linfa appunto, nella costruzione dell'azione apostolica. Per
avanzare dovremmo inoltre imparare dalla scienza la cui forza non sta nel
riferimento al tradizionale, al saputo, ma al dubbio, alla ragione, alla
sperimentazione.
«Il Papa ci sta insegnando a non aver paura della verità. Così si è espresso il
card. Bagnasco nel Tg1 del 24.5.10, in riferimento ai noti fatti dolorosi che
hanno investito la Chiesa. Che cosa viene a dire questo invito alla vita
religiosa? Ma anche quali le verità di cui prendere atto?» ( Sr. A. D.).
Veniamo dal tempo in cui si diceva che i panni sporchi si lavano in casa. Ma ci
si è accorti che questo è stato inteso troppo estensivamente. La VR, come la
Chiesa, per essere credibile di fronte al mondo, oggi particolarmente perplesso,
e per creare la stima che dà credito, dev’essere trovata trasparentemente
sincera. L’amore per la verità è la luce che rende pienamente autentica la vita,
la sua assenza ciò che la rende inautentica. Quanto si dice per la Chiesa –
scrive C. Duquoc – a maggior ragione va detto per la VR, anch’essa tentata di
occultare la propria precarietà con l’altezza del discorso dottrinale. Il modo
proprio che le è dato per abitare e incuriosire nella cultura attuale non è la
grandezza ma è l’umiltà . Umiltà di vita ma anche nella proposta culturale.
Si dice che K.Rahner, uno dei più grandi teologi del ‘900 a un altro teologo che
gli chiedeva quanto avrebbe contato nell’incontro con il Signore la sua grande e
apprezzata ricerca teologica, rispose che non avrebbe portato con sé le sue
opere temendo di essere giudicato per queste. Il vero teologo è una persona che
si è fatto umile perché ha compreso che il mistero divino può essere scrutato
con delicatezza, sapendo che non potrà mai essere svelato del tutto . Umiltà
inoltre perché «l’assolutizzazione della verità, l’idea di essere depositari e
possessori della verità è stato un fattore che ha causato violenze e oppressioni
in nome di Dio» . Cercare la verità vuol dire anche aprire gli occhi e lasciarsi
interpellare dai fatti perché «ciò che non è assunto non può neppure essere
sanato». È solo connettendosi con le domande della storia che si mette il nostro
agire sui sentieri di senso. Se non facciamo nostre le giuste critiche agli
assetti del passato, se non si ricerca il punto di equilibrio che sta
nell’indagare la verità che è fuori di sé, non si potrà comprendere perché
queste figurazioni sono entrate in crisi e non si potrà elaborare adeguate
traiettorie di uscita .
In particolare ciò di cui la VR deve prendere consapevolezza sta nel saper
riconoscere quando è finita la missio. Alcuni dei segni che fanno intravvedere
questo esito si hanno:
– quando, nata per rispondere a dei bisogni cui la società un tempo non riusciva
a rispondere, si ritrova a dover competere con centinaia di enti che fanno la
stessa cosa;
– quando, fondata per offrire spiritualità, per sopravvivere sceglie di gestire
servizi;
– quando, sorta per i più poveri tra i poveri si ritrova a dirigere pensionati
universitari;
– quando, nata contemplativa si ritrova a condurre ostelli;
– quando, per funzionare al meglio deve estromettere la comunità religiosa
dall’esser cuore dell’opera stessa;
– quando, crede di poter approdare da qualche parte con il criterio del tutti
insieme scartando le minoranze creative;
– Infine, quando a tutto questo si aggiunge il fatto che molte opere non sono
più governabili, non solo per la complessità gestionale, ma perché sempre più
autonome rispetto a logiche di Istituto, è evidente che le colonne d’Ercole sono
esse a venirci incontro.
«Lavoro con i giovani e non mancano le occasioni per parlare di vocazione ma
sento che l’ostacolo maggiore, anzi barriera, è l’dea che i giovani hanno della
VC,, idea espressa nel dire di uno di loro: “desideriamo le forme di vita che
amano innanzitutto la terra”. Non sarà che ci vedono principalmente come
paladini dei “beni futuri” contrapposti ai beni terreni?» (p.R.F.).
Sarebbe illusorio e autolesivo non riconoscere che siamo entrati,
irreversibilmente, in un periodo in cui le immagini tradizionali della vita
consacrata non tengono più . L’idea che i giovani si sono formati – ma non solo
loro – è frutto di sedimentazioni di immagini non certo pasquali che hanno
segnato una storia millenaria. L’iconografia, raffigurando i santi, non ci
regalava emozioni gioiose ma di afflizione; non i volti sorridenti, ma le
stimmate sembravano essere il suggello di una vita per Dio. Tutto frutto di una
teologia che indicava come ideale l’offerta vittimale. All’ “umanizzazione” era
preferita l’ “angelizzazione”, infatti i due padroni ai quali non si può servire
in contemporanea erano visti nella contrapposizione “corpo e spirito” oltre che
in “Dio e mammona”.
Come sarà la vita religiosa? Questo non lo sappiamo ancora, ma sappiamo che essa
è una proposta di «vita» e non di una ideologia o di un impegno etico-virtuoso
individuale. Allora la domanda è: cosa dobbiamo cambiare perché serva la vita?
Diversamente da un tempo, non potrà pretendere di essere ricercata unicamente
perché anticipa i “beni promessi” ma il tendere alla vita deve dimostrarlo a
partire dall’ amare i beni che il Signore le offre oggi, perché il senso della
vita è la vita stessa. In un tempo di passioni tristi, la profezia sta nella
proposta di “passioni gioiose”, frutto della promessa: io sono venuto perché
abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza. Deve portare al gusto di vivere,
perdendo il quale non si è più neppure cristiani.
Un giovane può essere attratto da questa proposta, quando sente che vi sono
persone, spazi, ambienti, dove la vita è presente in modo abbondante, già su
questa terra. Il seguirla è frutto di fascinazione. Il pensiero dei giovani si
ritrova nel dire di C. Wieland: «preferisco una follia che mi entusiasma che una
verità che mi abbatte», che significa: non mi interessa il divino che non
alimenti l’umano.
Occorre ridonare alla vita religiosa la sua bellezza umana e divina, quella che
crea gioia nel vivere e nel donarsi, per meritare ciò che Benedetto XVI
(Pentecoste 2005) ha detto ad altre nuove esperienze evangeliche, quelle che
hanno saputo rispondere alle esigenze di cambiamento: «Cari amici discepoli in
questo nostro tempo, convocati per proclamare la gioia del credere… i vostri
cammini sono nati proprio dalla sete della vera vita; sono movimenti per la vita
sotto ogni aspetto». Dovrà essere il vivere, colto nella gioia che traspare dal
volto, il ritratto vivo di quella persona – il religioso/a – in cui «il divino e
l’umano si abbracciano con ammirevole naturalezza». In ciò sta la gloria di Dio
non nella morte.
In questo consisterà, per il consacrato, essere buona notizia tra la gente,
piuttosto che nell’essere visto come personaggio del tempio, della legge, del
diritto, delle istituzioni . La morale sottesa nel dire di Gesù: se il chicco di
frumento muore porta molto frutto è quella della fecondità, non quella del
sacrificio. Il sacrificio rimane: è la potatura del tralcio, ma lo scopo è il
frutto moltiplicato . Gesù stesso non ha scelto la croce e la sofferenza per se
stesse, ma le ha accettate quando nella sua vita si sono presentate,
trasformandole in una testimonianza di fedeltà e di amore . Se nel passato molta
parte della VR ha investito sull’ “utile” oggi deve scommettere sul “bello” e in
questo essere riconosciuta “utile”. Nel messaggio del Concilio agli artisti (n.
55) è detto: «la bellezza come la verità, mette la gioia nel cuore degli
uomini»; anzi la tendenza alla bellezza (evidentemente non quella che si
esaurisce nell’estetica) è la trappola più frequente di cui Dio si serve per
aprire l’anima dell’uomo.
Uno dei grandi innovatori della teologia, H.Urs von Balthasar che si è occupato
non solo della verità astratta ma anche della verità della vita, ci rende
avvertiti: dove la bellezza si dissolve, anche il bene perde la sua forza di
attrazione, e la verità esaurisce la sua forza di conclusione logica.