Si può interpretare il bisogno inquieto di spiritualità? Per rispondere a
questo interrogativo si sono ritrovati, lunedì 29 novembre, presso
l’accoglientissima casa dei padri dehoniani di Bologna, una decina d’insegnanti
di teologia spirituale provenienti da diverse regioni dello Stivale. Era
praticamente rappresentata tutta Italia.
A far da guida dei lavori il professor Bruno Secondin, carmelitano, insegnante
da poco emerito presso l’Istituto di spiritualità dell’università Gregoriana in
Roma. Il tono della sua conferenza, in risposta a una precisa richiesta dei
partecipanti al simposio, è stato volutamente autobiografico. Settant’anni di
vita ecclesiale, quaranta dei quali spesi nella ricerca teologica, sono un
ottimo osservatorio per registrare un tratto di storia significativo della
Chiesa italiana e universale, e per gettare lo sguardo più in là, verso il
futuro che tutti quanti attende.
Padre Secondin ha spigolato nella sua sterminata bibliografia (qualche decina di
libri, e più di duecento articoli, senza citare la direzione d’importanti
collane di storia della spiritualità) per tentare di offrire qualche risposta
all’interrogativo di partenza. Come lo Spirito è presente nella Chiesa e nel
mondo, e come plasma continuamente le nostre vite, le nostre culture, le nostre
scelte?
Per mille ragioni, padre Bruno è sempre stato sensibile a queste domande. Anche
quando s’indaga la voce di Dio nel passato, non si può prescindere dal presente.
Anzi, è forse proprio l’interesse per il presente a far sì che la ricerca sul
nostro passato più o meno prossimo sia vitale e non sterile. Così riconosce:
«Pur avendo fatto una ricerca di dottorato passando mesi e mesi in archivio e
compulsando manoscritti e codici vecchi, la mia vera vocazione è sempre stata
quella di sintonizzarmi piuttosto sul presente e le sue effervescenze. Del
passato caso mai (…) mi interessava trovare quello che poteva ispirare ancora
oggi la vita e l’ethos. Mi riesce difficile fare solo opera di archivista e di
epitomatore di fatti conclusi e archiviati: chi è stato a scuola da me lo sa che
mi riesce meglio la lettura dinamica e provocatoria del passato, e male mi trovo
a fare pura rassegna di memorie già raffreddate».
Ecco allora la nostra epoca, per la quale avere simpatia, e nella quale cercare
di arrivare a una nuova elaborazione di risposte spirituali. Padre Bruno
Secondin, cercando di fare sintesi tra tanti pensieri, ha così delineato i
compiti che ci attendono.
La fedeltà alla cultura odierna
Il primo compito della Chiesa deve essere oggi quello di incoraggiare una
ricerca spirituale che non è in opposizione alla cultura dominante. Inutile
agognare la presenza di un uomo diverso da quello che oggi sperimentiamo, per
poi piegarlo alla conversione evangelica. Questo significa che le vecchie
sintesi antropologiche – essenzialiste, atemporali, eteree – devono per lo meno
essere completate con quelle storiche, nomadiche, liquide oggi imperanti. Questo
passaggio antropologico non può essere visto immediatamente come una perdita di
radicalità evangelica o come una caduta dei valori cristiani. L’uomo
contemporaneo va anzitutto contemplato, in una sorta di viaggio estatico, e non
condannato. La storia della spiritualità ci ha purtroppo consegnato nel passato
modelli pericolosi, da questo punto di vista. Il sospetto pregiudiziale davanti
a ogni forma culturale, letta come potenzialmente nociva, è uno dei più grandi
rischi che accompagnano l’inculturazione della fede. Il paradigma dell’Abramo
errante è, forse, il nume tutelare sotto cui porre ogni tentativo di nuova
sintesi. Il dover camminare senza una patria, e senza nel contempo essere
posseduti da alcun territorio, nella continua fatica di adattarsi, con poco
bagaglio del passato, a nuove situazioni umane, è la grande strada percorsa
dalla contemporaneità. «Forse ci serve l’icona di Abramo – dichiara p. Secondin
– che non ritorna più alla sua Ur dei Caldei, che emigra e diventa padre di ogni
arameo errante, con una identità sempre in fieri».
Lo sguardo dioratico
Questa temperie culturale, che forse è inedita per la Chiesa degli ultimi
secoli, domanda fantasia e spirito di preghiera. Soprattutto si deve supplicare
lo Spirito perché susciti nella congerie del tempo attuale nuovi genî spirituali
capaci di cogliere nella confusione degli animi una nuova missione divina.
L’avventura cristiana nella storia è sempre stata accompagnata dalla presenza di
mistici capaci di penetrare con il loro sguardo la cultura e le situazioni, e di
reinterpretarle alla luce del vangelo. Il cristianesimo non si è mai arrestato a
una sola sintesi culturale, per quanto utile e benedetta. Il cristianesimo si è
dimostrato capace, come pochi altri fenomeni culturali, di trapassarsi e
superarsi, spesso lasciando decadere vecchie onorabilissime sintesi, per dar
vita a nuove forme di vita. L’ars moriendi, anche da un punto di vista
prettamente spirituale, è ciò che permette una nuova presenza dello Spirito in
mezzo a noi. Laddove invece giuridismo e fissismo pretendono di chiudere il
cammino c’è allora il rischio di non essere più obbedienti né allo Spirito né a
questo tempo. Che cosa elaboreranno i nuovi maestri dello Spirito è difficile
stabilirlo a tavolino. In qualche misura è solo la storia a poter fornire la
risposta a quest’interrogativo. A noi sta però il compito di procedere a
tentoni, brancicando le grinze del tempo presente, sperimentando nuove risposte,
e riconoscendo come esse abbiano sempre bisogno di essere superate. È ciò che p.
Secondin chiama lo “sguardo dioratico”. È proprio dell’uomo spirituale affinare
i suoi sensi, soprattutto la vista, per guardare attraverso le cose. Ciò che
viene da tutti giudicato essere una sconfitta per l’uomo spirituale è il seme di
una rinascita, ciò che tutti chiamano morte è il primo passo di una
risurrezione: «si auspicano delle minoranze cognitive – afferma il teologo
carmelitano – che prima degli altri sentano il tuono dei tamburi di Dio, dai
sotterranei della storia: e questi fini uditori non possono che essere i
mistici. Alla spiritualità la sfida di ascoltare ma anche di trovare percorsi
epifanici».
La virtù della vigilanza
Mai come oggi, allora, è dovere dei credenti praticare la virtù della vigilanza.
Il nuovo mondo non è privo di ricerca spirituale, anche se talvolta inespressa.
Questa ricerca spirituale non è di sua natura cristiana, ma ne rappresenta una
grande premessa. Il valore delle proposte cristiane è sempre consistito nel
ricercare una sintesi tra domanda soggettiva di senso e oggetto della
rivelazione. Non è la domanda spirituale del soggetto a costituire – da sola e
in autonomia – il dato rivelato. Essere cristiani è sempre un’opera di
obbedienza: operazione quanto mai faticosa, ma che mette l’uomo al riparo da
tanti rischi di cui la storia dell’uomo è stata tristemente gravida. Padre
Secondin riconosce come al bisogno di senso dell’uomo spesso «vengono date
risposte spesso manipolatrici, che non portano redenzione ma schiavitù, vuoto di
memoria e di futuro, miraggi inconsistenti. La sapienza secolare tipica della
spiritualità le deve consentire di ri-conoscere quello che è autentico e
separarlo dalle manie spirituali vuote».
Il ruolo terapeutico
L’ultimo grande compito della ricerca spirituale odierna deve consistere nella
sua capacità di salvezza nei confronti dell’uomo. Padre Bruno lo definisce il
“ruolo terapeutico”. Lo Spirito non è inerte nei confronti dell’uomo e nemmeno
lo tocca a un livello puramente superficiale. Ci sarà pure una ragione per cui i
racconti evangelici sono così costellati di uomini, spesso anonimi, che si
rivolgono a Gesù in ricerca di salvezza. Salvezza da una malattia, da un
fenomeno di disgregazione psichica, dalla morte. Nessuno di questi uomini se ne
è andrà da Cafarnao senza aver ottenuto dall’incontro con Dio il dono di cui
avvertiva prepotentemente il bisogno. La salvezza del vangelo si manifesta nel
corpo e nello spirito dell’uomo, non è l’incontro con una filosofia che ci
lascia solo qualche argomento nuovo di cui discettare.
In questo mondo, allora, la parola del vangelo non può essere inerte. Ogni
incontro con lo Spirito si presenta necessariamente come umanizzante e
civilizzante. «Il grido per la vita che sale da tante situazioni di oppressione
di morte, deve spingere la spiritualità verso nuovi paradigmi e nuovi linguaggi
di crescita e di esperienza spirituale, che corrispondano ad una vita degna,
sotto l’impulso dello Spirito che dà la vita».
Difficile raccontare come sarà il mondo del futuro. Di certo nel tempo presente
la spiritualità dovrà sempre custodire la sua marca inquieta. Non ci sarà mai un
momento in cui i cristiani potranno crogiolarsi nella letizia dei risultati
raggiunti, certi di aver adempiuto perfettamente il loro compito nel mondo. Gli
uomini cambiano, le culture trasmigrano, i tempi si modificano, seguendo un
piano inclinato di cui non si afferrano completamente le mille possibili
conformazioni. Non vi è un eldorado in cui i cristiani finalmente possono
abitare. Per questo motivo p. Secondin richiama una definizione di spiritualità
che tanto gli è cara, e che facilmente si può ritrovare nella sua produzione
teologica: “sapienza orientatrice”. Arrivati a ogni bivio, solo la sapienza sa
dire per quale strada tocchi incamminarsi. La risposta non è mai facile, spesso
sarà balbettata in piccole fugacissime sillabe. Di certo sarà una prolessi: una
parola pronunciata in anticipo per un futuro che domanda di realizzarsi.
Benedetto allora sia questo sapere inquieto dove lo Spirito compie la sua opera
nei tempi. È un’opera quotidiana, che si deve intraprendere ogni mattina, e fa
pari con la stessa vita dell’uomo. L’unica via d’uscita – conclude p. Secondin –
«è quella di una spiritualità che sappia coniugare la parola di Dio con i segni
dei tempi, la libertà ricevuta da Cristo con la compagnia fiduciosa verso tutti
i contemporanei, la purificazione interiore con la solidarietà verso tutti
coloro che lottano e sperano in una vita meno ingiusta e umiliata dalla
violenza. La spiritualità e l’uomo spirituale divengono sterili e inautentici se
non sanno aprirsi all’universale, accogliere le sofferenze e le speranze dei
fratelli, tessere sempre di nuovo alleanze di fraternità e di riconciliazione
fra popoli e razze, elaborare modelli di sintesi e fraternità che sostengano la
convivenza delle differenze in maniera dinamica e non puramente piatta».