Questo Speciale è stato proposto come un insieme di piste di riflessione
riguardanti le varie fasi del tempo che viviamo nella vita di tutti i giorni.
L’autore le presenta come appunti, per esempio per un corso di esercizi
spirituali. È comunque importante ogni tanto fermarsi e ripassare le azioni più
abituali delle nostre giornate per ritrovarne il significato, evitando così il
rischio, tutt’altro che ipotetico, di viverle solo in superficie. È una
riflessione che ci sembra opportuno offrire anche ai nostri lettori mentre
tramonta un anno e ne inizia un altro.
Le piste di riflessioni che si prestano per dei momenti di raccoglimento come in
un corso di esercizi spirituali sono molto varie. Potrebbe essere utile ad es.
l'obiettivo di ripassare ciò che si ritiene più ovvio: le azioni più abituali
della giornata. Ci sono appuntamenti così legati all' abitudine che sfuggono
all' avvertenza, passano inosservati, eppure sono espressioni significative
della vita. Non ci sono solo i momenti solenni ad es. le grandi tappe o i grandi
appuntamenti segnati dall'età oppure le ricorrenze liturgiche che rompono la
monotonia quotidiana. La vita è fatta di situazioni modeste, umili, feriali,
inappariscenti, che finiscono sommerse nell'automatismo, eppure non sono
insignificanti. È più che utile perciò il tentativo di perseguirne il senso e
portarlo sul piano della coscienza. Il filo che collega i vari momenti della
vita quotidiana è il tempo. Seguendone i ritmi è dato di imbattersi su azioni
che abitualmente si sottraggono all'osservazione.
L'invocazione dello Spirito
Un corso di esercizi inizia con l'invocazione dello Spirito, perché illumini la
mente e accenda il cuore. Se si domanda luce è per vedere quello che
abitualmente sfugge nascosto e va perduto. Si cerca di scoprire la trama
nascosta che nella vita va di continuo intessendo il gratuito. Questo è sempre
presente come silenzioso protagonista, ma non ci si pensa, si gode a piene mani
dei suoi benefici senza prenderne atto. Si vive in fondo circondati dal
gratuito, si è "pieni di grazia". La risposta ad esso è la riconoscenza, ma là
dove non c'è conoscenza non c'è neppure riconoscenza.
Dietro il gratuito è più logico pensare a una mano provvidente che non al caso,
è segno di onestà il richiamo a Dio. Quanto più lo si cala nella realtà tanto
più lo si rende concreto. Lévinas nota che «non ci può essere alcuna conoscenza
di Dio a prescindere dalla relazione con gli uomini». Si incorre spesso nel
pericolo di fare di Dio un'idea astratta, secondo la concezione pagana. Il
cristianesimo però vede Dio innestato nel travaglio della storia, lo presenta in
veste umana. Il suo volto è così come si fa avanti nell'intreccio degli eventi
umani registrati nelle fonti bibliche. È sì sopra il mondo ma nel contempo è
dentro ogni azione umana, è perciò concreto come è concreto il cibo che si
consuma. Dio va cercato in ogni azione ed evento. Non c'è quanto il suo aggancio
alla realtà quotidiana che lo rende reale e vivo.
Francesco d'Assisi lo riconosce nell' acqua che beve, nel vento che sibila tra
le fronde, nel fuoco al cui tepore si riscalda, nel sole che ammira. Il suo è il
vero Dio della creazione, lo incontra non al di fuori, uscendo dal mondo, ma
mettendosi dentro tra gli esseri più umili. Qui si concretizza la sua fede. Non
ha bisogno di ricorrere a ragionamenti faticosi, lo sente vicino, in se stesso e
in tutte le creature che lo circondano. È 1'essere nel "quale ci moviamo,
viviamo e siamo" (At 17,28). Invocando lo Spirito si chiede che ci faccia
riconoscere Dio nella stessa vita quotidiana.
Più del pane si chiede la fame e la sete della sua parola. Il salmista è un
esempio di un' adeguata disposizione all' ascolto quando si rivolge al Signore
pregandolo in termini accorati: "Già nel primo mattino mi presento e chiedo
aiuto in attesa della tua parola, i miei occhi anticipano la veglia per meditare
le tue promesse" (119,47 ss.).
Il tempo effimero
Il tempo del cristiano è vissuto "nell'attesa che si compia la beata speranza e
venga … il Salvatore Gesù Cristo". E aperto al futuro. Rompe gli angusti confini
del presente. La prospettiva in avanti comporta la prova e la perseveranza, la
durata e la fedeltà. Anche il cristiano ha la piena coscienza della fugacità
d'ogni essere nel tempo come del resto il pagano. C'è tuttavia una sostanziale
differenza. Per il pagano tutto si consuma e dissolve nel nulla, per il
cristiano all'interno dell'evoluzione delle cose si avanza verso una meta, una
realtà che non passa.
La Scrittura ribadisce la concezione del tempo effimero ricorrendo alle immagini
dell'esilio e della patria. La vita è concepita come un pellegrinaggio, si è in
via, in uno status viatoris. Il suggerimento è provocatorio. Si presta a molti
equivoci soprattutto nella nostra epoca della secolarizzazione, dove al presente
è riconosciuto il primato assoluto. Al di fuori di esso non si accetta altra
realtà.
Eppure nell'immagine del pellegrinaggio c'è un valore imponente. Ci mette in
quota e ci fa leggere la realtà a partire dall' alto con un atteggiamento di
distacco, che consente di guadagnare un quadro d'insieme sulle cose, dando ad
esse la loro giusta collocazione. Si impara la tanto difficile ma altrettanto
elevata lezione dell'umorismo. Suvvia, non tutto si deve prendere in modo
tragico. In fondo la dimora terrena è una tenda, che serve come sosta nel
viaggio dell' esistenza. La realtà definitiva è un' altra. Solo nell'esistenza
cristiana è possibile l'umorismo in senso pieno, perché solo dal punto di vista
della redenzione è accettabile la storia con le sue contraddizioni e disordini,
sciagure e morte. La parola rivelata ci fa indossare un abito su misura, ci
avverte non senza rigore che siamo pellegrini e non si ha qui sulla terra
stabile dimora a disdetta d'ogni illusione.
La figura dell' esilio va di pari passo con quella della patria, cui la cultura
contemporanea diventa sempre più refrattaria. È più difficile che mai all'uomo
contemporaneo rivolgere l'attenzione all'al di là. Si è come sequestrati
dall'effimero. È stato detto: l'istante è la nostra eternità. Un'eternità
povera, quella sola di cui è capace un uomo privo di speranza.
La promessa che la rivelazione prospetta arricchisce la vita di ideali e aiuta a
vivere in pienezza, oltrepassando gli sbarramenti nell' avventuroso cammino
dell'esistenza. A questo riguardo Isaia è il profeta più trasgressivo, eppure
non c'è quanto la sua parola che insegni la lezione più importante della vita.
Cristo a sua volta riprende in modo esplicito la speranza di Isaia e la traduce
nell' evento della risurrezione.
Il tempo feriale, tempo del lavoro
La gran parte del tempo è assorbita nell'attività lavorativa. Il libro della
Genesi dei sette giorni della creazione ne dedica sei al lavoro, riservando il
settimo alla festa. Distingue chiaramente il tempo feriale da quello festivo.
Prima di accedere a questo, il passo obbligatorio è l'attività quotidiana,
l'adempimento del dovere elementare del lavoro. In termini espliciti la Bibbia
avverte: "con il lavoro della tua fronte guadagnerai il tuo pane". Con il lavoro
si riproduce in se stessi l'immagine di Dio creatore. Ad esso è associata la
fatica ma nel contempo anche le virtù morali della fedeltà e dell' onestà. Il
pane che si consuma dev' essere un pane guadagnato, se non è guadagnato è un
pane rubato come lo è quello del parassita.
A chi lavora non si deve solo il compenso, si deve anche la stima. A lui si deve
tutto il rispetto come lo si deve a un cittadino che merita un giusto posto
nella comunità. Le attività abbracciano una vasta gamma di occupazioni che vanno
dalle più alte cariche alle più umili. Lo stesso impegno dell' evangelizzazione
si estende a molte forme di attività: sociali, morali, educative, assistenziali,
rivolte a infermi o bisognosi. In quest'ultimo ramo si innesta il carisma
camilliano. Il suo è certo una forma di lavoro con caratteri propri. Anzi lo si
può distinguere dalla stessa accezione del lavoro, dal momento che a differenza
di questo esige passione e cuore. Sarebbe auspicabile che qualsiasi attività si
distinguesse per entusiasmo, fosse eseguita con piacere e manifestasse una certa
soddisfazione. Se è auspicabile non è però imprescindibile.
È pensabile che si possa compiere il proprio lavoro senza provare particolare
attrazione. È sufficiente venga eseguito come l'andamento della fabbrica o del
sistema burocratico lo esige. Non si richiede la presenza di un'attitudine o
d'una vocazione. Diverso è il caso dell' assistenza, dove più che di lavoro si
dovrebbe parlare di cura. Le due accezioni sono diverse. A far la differenza è
lo spirito da cui si è motivati. Si è all' altezza della vocazione assistenziale
quando si esibiscono doti umane: gentilezza, cordialità, solidarietà,
condivisione. Balza in primo piano lo spirito di fraternità, che va oltre lo
spirito di uguaglianza di matrice illuminista. Questa infatti si fonda sulla
protesta: tu sei uguale a me, a differenza di quella che cerca di conformarsi al
grado di bisogno e urgenza. Nel servizio del malato l'ideale dell'uguaglianza
non solo sarebbe inadeguato ma addirittura anche ingiusto. Non tutti sono
bisognosi allo stesso modo. Una madre non offende i propri figli se tra questi
ha una predilezione per quello più svantaggiato.
Non per niente la tradizione per spiegare l'assistenza ai malati fa appello alla
figura materna. Si tratta d'un archetipo, presente tanto nella letteratura
agiografica quanto nella letteratura umanistica. La madre vuole il rapporto con
il tu. La persona con la quale si rapporta non è un qualsiasi sostituibile a
piacere con un altro come in una squadra sportiva. Nel suo atteggiamento mette
il cuore. Il suo perciò non è un lavoro che si esplicita in forma neutrale, è
appunto cura, ossia sollecitudine che fa propria la causa altrui, l'assume con
una partecipazione affettiva.
Questa qualifica è accentuata nella storia sacra, dove in genere le figure
criminali da Caino a Erode sono maschili, mentre al contrario solitamente la
donna interpreta la pietà, la fedeltà, la donazione, l'umiltà e perfino il
coraggio. Gli esempi sono numerosi: dalla Vergine alle pie donne, da Elisabetta
alle sorelle Maria e Marta, anche se non mancano le eccezioni, ad es. Isabel ed
Erodiade. Il tempo della vita è anche il tempo della malattia e della
sofferenza, che si soccorrono soltanto con la prestazione della cura, 1'attività
più difficile e nascosta nel quotidiano, tanto prezioso e umanamente ricco
quanto non adeguatamente riconosciuto. Il tempo della cura ha il carattere del
gratuito, in quanto tale non è restituibile. Implica il senso del dono.
Il tempo festivo
Il tempo feriale è il più faticoso e dura a lungo, ma non dura sempre. È
interrotto da quello festivo. Nel corso della vita c'è anche il settimo giorno,
che tra le opere della creazione è la più elevata. Nella tradizione cristiana è
ricuperato con la domenica, detta giorno del Signore e nel contempo anche
dell'uomo. Nel settimo giorno l'immagine di Dio, stampata nella creatura,
diventa più espressiva, ne evidenzia la dignità che vale più del lavoro.
In genere parlando della domenica si mette in risalto il riposo. Non è però
questo il punto nevralgico. La festa si vive nel riposo, ma è qualcosa di più.
Ha in sé il sacro. Sorpassa l'ambito umano. Al suo centro si colloca Dio, tolto
il quale non si può più parlare di festa, l'individuo non si emanciperebbe da
una realtà appiattita, forse più movimentata che non quella dei giorni feriali,
più rumorosa e più allegra con il consumo di beni edonistici. Mancherebbe il
salto verso una realtà superiore. Si fa festa in modo autentico là dove l'uomo è
ricuperato con la sua dignità e le sue esigenze spirituali.
Si capisce come ai primordi della storia si facesse festa chiamando in causa la
divinità, cui si sacrificava il meglio della terra. Dio veniva messo al posto
che gli compete, veniva riconosciuto per quello che è. Senza di lui ci sarà
sagra o sfogo dei sensi, fruizione di beni effimeri. Con lui la celebrazione si
fa seria e solenne. Non solo. Riguarda in particolare la comunità. Non si fa mai
festa da soli. Così si costata in molti passi della Bibbia. Ad es. nella
parabola del figlio prodigo il padre al suo ritorno invita tutta la casa alla
festa. La stessa cosa si riscontra in tutte le parabole del perdono, dove la
manifestazione della gioia è corale, trattandosi di un sentimento di natura sua
altruistico.
Al centro della festa si colloca sempre il sacrificio. Si offriva a Dio il
meglio dei prodotti e degli esseri della terra. La vittima doveva essere la più
pura, per essere appunto più adeguata possibile alla maestà di Dio. In ambito
cristiano è Cristo stesso che si offre per noi al Padre come vittima perfetta.
L'evento è carico di reminiscenze storiche. Affonda la sua radice nel settimo
giorno della creazione, si prolunga poi nell'esodo (Es 20,8 ss.) e culmina con
la pasqua di risurrezione. La Bibbia ribadisce l'importanza del sabato
ricorrendo a un imperativo, riservato ai grandi valori: ricordati di santificare
il sabato. Se si pensa come si sia facili a rimuovere e a sottovalutare le
scadenze religiose, nonostante la ricchezza di contenuti edificanti, si capisce
quanto sia opportuno il richiamo biblico.
La memoria del giorno festivo non è una delle tante, è la memoria per eccellenza
perché onora Dio e implicitamente chi di Dio ne è l'immagine. Qui l'uomo trova
l'opportunità di pensare a se stesso, incontrare il suo essere dopo tante
divagazioni. In genere si vive lontani da sé, sempre fuori, sempre nella
dispersione. Si ricordano magari cose futili e si dimenticano quelle necessarie.
Si ricordano i luoghi dei ritrovi o delle ore spensierate, delle occupazioni che
alienano. Il ricordare biblico ha un significato denso. È riferito precipuamente
a circostanze principali, quelle che regolano i rapporti più profondi e intimi
verso Dio, verso il padre e la madre. Il "ricordati" è un monito che trae
dall'indifferenza, risveglia dall' apatia e scuote lo spirito per richiamarlo a
diventare quello che deve essere.
È ovvio pensare alla domenica come a un tempo sacro. Sarebbe uno sciuparlo
trascorrendolo nell'inseguimento di interessi frivoli. Non se ne capirebbe il
senso e lo si profanerebbe. L'ammonimento biblico mette in guardia: attento qui
entri in un tempo diverso da quello abituale! non perderlo! Se non lo afferri
perdi una opportunità utile per la tua formazione umana.
Al cristiano il richiamo è ribadito in ogni celebrazione eucaristica: fate
questo in mia memoria. L'annuncio della memoria è anche annuncio della speranza.
Si fa memoria del Cristo risorto che porta la salvezza. Include in sé il tempo
intero: passato, presente e futuro. Rivivifica la fede, si dirige all'anima.
Quanto si celebra si fonda su un fatto storico e in particolare su una persona.
Non è la memoria d'un cataclisma, d'una peste, d'una guerra o qualcosa di
analogo. La memoria eucaristica ha un carattere suo proprio. È legata a un
evento passato che nel contempo perdura con la sua realtà e si innesta nel
presente. Il momento originario ritorna e si rinnova non certo con una mera
operazione mentale. Ripete la realtà e la trasferisce nel momento attuale.
La sua istituzione non si allinea con istituzioni umane che a lungo andare si
sono fatte consuetudine. E Dio l'autore. Si inserisce tra gli eventi primordiali
della creazione, quali il cielo, la terra, la vita, il lavoro. Per far festa è
necessaria la presenza di Dio e nel contempo anche la presenza dell'uomo, che
proprio nella celebrazione dell'evento sacro ricupera se stesso e arriva
finalmente alla sua libertà. A contraddistinguere il giorno festivo è anche la
sospensione del lavoro.
Il riposo: tempo di contemplazione
Associato inscindibilmente alla domenica è il riposo. Se questo è a quella
costitutivo, lo è però come cornice. D'altra parte per riposare non occorre ci
sia la festa. Eppure tra riposo e festa si dà una parentela. Ci si riposa per
sollevare le forze del corpo e soprattutto per rigenerare lo spirito creando la
condizione più adeguata alla contemplazione, l'esperienza più elevata cui è
chiamato l'uomo. Anche il lavoro è subordinato ad essa. Non si lavora per
lavorare, ma per arrivare a una fruizione del tempo libero. Guai a chi evita il
peso delle fatiche quotidiane scaricandolo sugli altri, ma guai anche a chi non
ha imparato a riposare, sa far tutto ma non è capace di non far niente (Péguy).
L'intera cultura occidentale da Aristotele a Tommaso fino a Heidegger esaltano
come ideale supremo la contemplazione. L'uomo arriva alla pienezza del suo
essere e alla propria identità una volta che impara a contemplare. Il
significato etimologico di contemplazione si è logorato con l'uso, facendone
dimenticare la radice etimologica: il tempio. Si è rimandati ancora al sacro. Il
tempio è il luogo riservato alla divinità. Chi contempla si mette in rapporto
con Dio. Non si affatica a tradurlo in concetti, facendo di esso una dottrina o
una realtà anemica e astratta. Questo atteggiamento è un attacco alla sovranità
di Dio. Si fa di lui un prodotto della propria ragione, un altro pezzo di mondo
che si aggiunge a quello già presente (Bonhoeffer). Dio non lo si può conoscere,
lo si può tuttavia contemplare e adorare in umiltà e stupore. È l'intera persona
a essere coinvolta con la sua mente e con le sue emozioni più nobili: gioia,
speranza, serenità, umiltà, fiducia. Si è come sollevati al di sopra di sé, si
entra in comunicazione con l'essere supremo. L'ingresso nel tempio è
un'emancipazione dalla realtà piatta e banale. In se stesso il riposo non è
celebrazione sacra, eppure potrebbe essere considerato come un anticipo del
riposo eterno.
Prima però di dirigere l'attenzione all' al di là, è bene rendersi conto della
trasformazione che la sosta contemplativa porta nella stessa vita quotidiana.
Non avvengono dei cambiamenti vistosi. Il mondo circostante e le cose restano
sempre le stesse, cambia però il modo di vederle. Ci si stacca da sé. Si
guardano come sono in se stesse, non in quanto giovano e si prestano a degli
utili. La contemplazione purifica l'occhio. Il vedere è solo un esempio, cui si
può aggiungere il leggere, il sentire, il valutare, il parlare. Tutte le
operazioni dell'anima si fanno acute. Quando ci si trova in armonia con gli
esseri, si sente la gioia della loro presenza, si ripete l'esclamazione del
creatore: è bene che tutti gli esseri esistano. Si ha allora la chiara
percezione di essere accolti e protetti. È in questo contesto sereno che l'anima
si distende e riposa.
Per rimanere nell'esempio della vista, è facile costatare come si disimpari a
vedere. Tante cose passano sotto gli occhi, ma solo poche vengono notate. La
vista è sottoposta a un sovraccarico di stimoli. Si vede eppure è come se si
fosse ciechi. Si può non vedere per difetto, quando viene meno la vista e tutto
il mondo è avvolto nel buio, ma si può non vedere anche per eccesso, quando
l'esibizione delle immagini è inflazionata e aggressiva. Infinita la serie dei
volti, degli oggetti e degli eventi offerti alla vista. Si parla d'uno scempio
ecologico. Si lamenta il frastuono assordante che ottunde l'udito. Ma c'è anche
un rumore visivo, un'eclissi della vista. Con il continuo assedio di immagini si
disimpara a vedere. Una ricetta benefica per sanare i sensi è il riposo. Esso
ristabilisce l'ordine violato e il creato ritorna sano come lo era in radice.
Se poi passiamo dal riposo effimero a quello eterno si ripresenta ancora la
vista, l'organo che fa da protagonista. L'Apocalisse ha come autore il veggente.
I quadri descritti esordiscono ripetendo di continuo: vidi, vidi! e ancora: vidi
... Il riposo riempie l'anima, diventa un modo di vedere, che è incanto,
stupore, rapimento estatico, adorazione, pieno compimento della contemplazione.
L'invito del maestro: venite in disparte e riposatevi un po', arriva al suo
punto culminante. Si esce dal mondo della dissipazione e il riposo non è solo
d'un breve lasso di tempo, diventa perenne.
Il passo dal riposo alla festa è qualitativo come un salto, riesce è però meno
difficile, quando si è maturata la disposizione più congeniale al suo godimento.
La disponibilità all' ascolto rende possibile la parola. Ristabilito l'ordine
interiore, l'anima è pronta alle grandi esperienze del vedere, ascoltare,
ammirare, adorare. Davanti a Dio non c'è gesto più adeguato quanto quello dell'
adorazione. Se non si è capaci, è necessario imparare, trattandosi d'un gesto
supremo, l'unico gesto adatto a stabilire il giusto rapporto con Dio.
Il tempo conviviale
La festa non si limita allo spazio del tempio e all'azione della preghiera
orale. Si estende anche ai momenti dell'intera giornata. Si fa festa anche in
casa quando si è raccolti a mensa. Da quella eucaristica si passa a quella della
famiglia. Si dice che anche l'uomo mangia. L'affermazione non è corretta. Si
dovrebbe dire che solo l'uomo mangia. Sì, perché l'animale divora, sbrana. Il
mangiare è un atto umano e lo è per molteplici ragioni. Anzitutto ad esso è
inerente la socialità. Il vero mangiare, come è gestito in circostanze
ufficiali, si compie sempre in compagnia. Dovesse questa mancare, si avrebbe la
perdita d'una componente essenziale. Allora il mangiare scadrebbe di rango.
Il mangiare è condivisione. Il Signore ci insegna a rivolgerci a Dio chiamandolo
Padre nostro. Segue poi il richiamo al pane, cui è annessa la connotazione di
essere nostro. Il pane cristiano non è mai mio, diventa appunto cristiano quando
da mio diventa nostro, è condiviso. La mensa alla quale ci si asside prevede la
presenza del gruppo, con il quale si vive in un rapporto affettivo. C'è l'unione
della famiglia, c'è l'affiatamento degli amici e l'accoglienza degli invitati.
Il tema è fatto oggetto di riflessioni da parte di molti pensatori. La
convivialità è una di quelle esperienze elementari che non si prestano
facilmente ad essere tradotte in linguaggio verbale. Qui si vive e vivere è
sempre più di pensare. Platone ha scritto il Convivio, uno dei documenti più
elevati dell'intera cultura occidentale. Ma il vertice è l'ultima cena del
Signore. Il momento è solenne. Unisce cielo e terra, l'uomo e Dio. Il pane che è
offerto tocca il sublime (sub-limen), la linea di confine dell'umano.
Il cibo che si consuma, lo si consuma in modo pienamente umano se si è insieme,
formando comunità come Cristo con gli apostoli. È perciò un annuncio di
fratellanza. Il cristiano non può non richiamare la figura del Salvatore che
assiso alla mensa benedice il pane e lo spezza come poi ha ripetuto con i
discepoli di Emmaus.
Il tempo della notte
C'è un altro appuntamento della giornata carico di senso: la notte. Di solito
quando si pensa al tempo, viene in mente il giorno con le sue ore di luce e con
il fervore delle sue opere. Si lascia cadere in secondo ordine la notte,
nonostante sia un tempo tanto importante quanto il giorno. Il calare della notte
è il momento del resoconto. Si ripassa la giornata trascorsa e il più delle
volte si prova rammarico per quello che non è andato bene, per le scelte
sbagliate e le omissioni.
Altre volte, più raramente, si chiude il giorno contenti per eventi fortuiti a
noi favorevoli. Sono capitati senza essere previsti. Si è stati semplicemente
sorpresi. Bisogna riconoscere che nella vita il gratuito gioca un ruolo
determinante. Non solo quando siamo lieti perché tutto è andato per il giusto
verso. Ci sono stati incontri fortunati, esperienze esaltanti, progetti
riusciti, ma anche quando qualcosa non ha funzionato a dovere e se ne prova
delusione e scontentezza. Se al rincrescimento è unito anche un senso di colpa,
è segno che si è persa un' occasione buona, si è sciupato del tempo e non si è
colto il momento propizio. La riflessione della sera fa capire come è la vita,
come essa corra sulle trame del gratuito. Si ripresenta nella sera quello che si
è sperimentato alla comparsa della luce mattutina. Il gratuito è un grembo entro
il quale siamo nascosti e protetti.
Ad esso si risponde con il sentimento della riconoscenza. La preghiera
cristiana, in particolare il breviario insegna a dire grazie. Si sa poi che
grazie non lo si dice a una legge o a un processo di natura, non avrebbe senso.
Lo si può dire solo a una persona. La preghiera la ricorda, chiamandola per
nome: Dio.
Anche la notte, come ogni istante dell'esistenza è dono. Non è un evento neutro
e impersonale, è opera di una mano provvida, alla quale ci si affida nel sonno.
Entrando nel sonno è come se smontassimo di guardia per cederla a un custode. È
Dio che veglia, come suggerisce la compieta e ancora una volta ci troviamo nel
gratuito.
Molti poeti hanno inneggiato alla notte, da Dante a Foscolo, da Novalis e Péguy.
In particolare quest'ultimo vi riconosce una seconda creazione. Attraverso di
essa si rigenera il mondo. La notte è la creatura della più grande carità, dal
momento che culla gli esseri in un sonno riparatore, cura le ferite e porta
consiglio. Agostino la rievoca nell'inno dell'Exultet, uno dei canti più
commoventi della liturgia. Si coglie uno sfogo di stupore e un'esplosione
incontenibile di gioia.
Tutti gli eventi centrali della Bibbia hanno come loro cornice la notte: la
liberazione dall'Egitto, la nascita di Cristo, perfino la sua morte, avvenuta in
un buio che ha coperto la terra e da ultimo la risurrezione.
Nella notte ci si dispone al sonno. C'è chi l'ha interpretato come una rapina
perpetrata ai danni della vita. Un chiaro fraintendimento. Il sonno non ruba,
anzi consente il disbrigo degli impegni quotidiani. Peggio sarebbe pensare che
il sonno spegnendo la coscienza ci renda simile agli animali. Si dimentica che
lo stesso proverbio popolare parla del sonno del giusto. Assume perciò una
qualifica morale. Il breviario a sua volta cita il sentimento della fiducia in
Dio, nelle cui mani ci si rimette. Invita alla distensione. Si ricorda il
passato e nel contempo i volti delle persone sulle quali è scesa per sempre la
sera. La fine della giornata e il sopraggiungere del sonno suggeriscono la fine
ultima. È un'immagine della vita che volge al termine. Un richiamo velato di
malinconia. Ogni congedo è sempre una ferita, è il momento dell'Amen su quello
che è stato e su quello che verrà. La fine della giornata è un anticipo o
preludio della fine del tempo dell' esistenza.
Dire amen
Si dice: il tempo corre e passa. È davanti e dietro di noi. Quello rimasto alle
spalle è contrassegnato da una storia di compiti assolti e di altri rimasti
inadempiuti, di piccoli obiettivi raggiunti e altri falliti, di gioie e
delusioni, di sorprese liete e sciagure amare. Tutto è passato e resta il
rammarico per quanto di sbagliato o trascurato è rimasto dietro di sé. Come
sarebbe bello se molte cose non fossero capitate. Si vorrebbe vedere un panorama
pulito, senza segni di degrado e macchie. Sarebbe così bello se tutto avesse
funzionato con ordine, ogni gesto, ogni parola, ogni iniziativa e ogni
desiderio. Ma non saremmo allora al di fuori della storia? Non ci si fermerebbe
nel mondo del sogno e della fantasia, in un mondo irreale? Camminare nei
sentieri del mondo comporta accettare l'imperfetto. È il momento di dire: amen!
Quello che è stato poteva essere diverso, ma è inutile esasperarsi per quanto
non può essere cambiato, eppure se ne può trarre una lezione di saggezza, quella
più importante, perché insegna ad accettarsi come esseri limitati. Dire amen al
passato con le sue carenze è un atto di umiltà.
Forse bruciano le ferite di un dolore non ancora digerito. Si è bloccati dalla
domanda: perché? Non è facile evitarla. È carica di risentimento. Davanti a una
sciagura è istintiva la ribellione. Non è questa però la risposta più
pertinente. Si pretendono delle giustificazioni impossibili. Chi ce le può dare?
Ammesso poi il caso che ci fossero date, sarebbero capite e accettate? Si chiede
"perché?" là dove non si ama a sufficienza. Non è il "perché?" la giusta
reazione alle contrarietà, ma l'amen. Chi sa dire amen alle prove più dure è
arrivato alla risposta più elevata.
Il tempo è anche quello che ci sta davanti. Non si sa quale destino ci aspetta.
Davanti al futuro si vive di trepidazione. Si è sospesi nell'incertezza. Ripugna
dover brancolare in un contesto che non è rassicurante di fronte ai possibili
rischi. Al cristiano è chiesto fiducia e di questa è testimone se ancora una
volta arriva al punto di dire amen.
Un malato stretto da dolori atroci, dopo aver esposto in termini chiari la sua
situazione, ha concluso: sono nelle mani di Dio. Ha detto il suo amen, quello
più difficile. Non si è domandato: perché? Non c'era più tempo da perdere con
interrogativi. Nel momento supremo ha trovato la forza di dire amen, parola più
giusta e più appropriata del credente. Mai il tempo è vissuto in maniera più
intensa come quando si pronuncia rivolgendosi a Dio il proprio amen. E difficile
da proferire sul passato e lo è anche sul futuro. Insegna a non essere
importanti, a sentirsi precari, bisognosi di salvezza. L'amen diventa allora la
preghiera del supplice, ci mette al giusto posto, stabilisce il corretto
rapporto della creatura nei confronti del creatore. È il sì della creazione
dalla quale parte il corso del tempo ed è il sì della meta finale verso cui il
tempo è diretto, il sì che Cristo pronuncia al Padre (Ap 3,15 e 2Cor 1,19).