Il prossimo 9 gennaio sarà una data decisiva per il Sudan. In quel giorno si terrà infatti il referendum che dovrà decidere le sorti del Sud e della regione dell’Abyei, se scegliere l’indipendenza o rimanere ancora uniti al Nord. L’evento sta suscitando entusiasmo tra le popolazione delle zone meridionali, ma è temuto dai politici e negli ambienti internazionali. La scelta infatti è piena di insidie e potrebbe risolversi in una deplorevole ripresa degli scontri bellici. Non è un mistero infatti che sia il Nord che il Sud si stanno riarmando, pronti ad ogni evenienza.
A questo appuntamento, che la conferenza episcopale ha definito storico si è giunti in seguito all’Accordo di pace di Nairobi del 2005, conosciuto come Comprehensive Peace Agreement (CPA), ossia l’Accordo globale di pace che ha posto fine alla ventennale guerra civile nel sud Sudan. L’accordo ha permesso la creazione di un governo autonomo del sud Sudan e la partecipazione dei sudanesi del sud al governo centrale di Khartum. L’accordo prevedeva appunto un referendum, da tenersi nel gennaio 2011 per il sud Sudan, oltre a un altro per la regione di Abyei contesa tra Nord e Sud.

La voce dei vecovi

In vista di questa consultazione popolare, la Conferenza episcopale si è riunita in sessione plenaria straordinaria, a Juba, dal 15 al 22 luglio scorso. I vescovi, per la circostanza, hanno rivolto un messaggio al popolo sudanese, ai leaders politici e a tutte le persone di buona volontà, intitolato Messaggio di speranza e un invito all’azione che si apre con queste parole: «Questo è un momento astorico. Questo è un momento di cambiamento. Il Sudan non sarà più lo stesso di prima».
Il Sudan, scrivono i vescovi, si trova davanti a «un futuro di speranza», ma essi sono anche consapevoli delle difficoltà che si incontreranno. Anzitutto per motivi di carattere generale. Pur riconoscendo che nel paese sono stati compiuti alcuni progressi nel campo della salute e dell’educazione, della ricostruzione nelle aree danneggiate dalla guerra, rimangono però elementi preoccupanti quali: «la guerra nel Darfur, l’islam continua a essere la fonte della legislazione nel nord, fattore questo che colpisce in maniera negativa i diritti di tutti, in particolare dei non musulmani. Il clima riguardante i diritti umani si è nuovamente deteriorato; un numero di leggi oppressive, incluse quelle della sicurezza nazionale, non sono state abrogate o messe in linea con la nuova costituzione provvisoria. I poteri degli organi della sicurezza nazionale, caratterizzati dalla tortura, dall’intimidazione e dalla detenzione senza prova, non sono statti tagliati. Le organizzazioni umanitarie in Darfur e nel resto del nord sono soggette a norme restrittive e al sequestro, e molti sono stati espulsi…».
Ma anche nel Sud che si prepara a votare l’indipendenza, esistono, sottolineano i vescovi, «situazioni di corruzione, nepotismo, mancanza di rispetto dei diritti umani, vessazioni contro agenzie umanitarie e lotte di potere… La violenza… colpisce ancora molte parti del sud Sudan. Continuano le incursioni del Lord’s Resistance Army: molta gente continua a soffrire di mancanza di cibo e dei servizi di base…
Le popolazioni delle Montagne del Nuba e del Nilo Blu, prosegue\ il messaggio dei vescovi, non hanno il diritto all’autodeterminazione, nonostante che molti si sentano culturalmente ed etnicamente legati al sud e abbiano combattuto con quelli del sud nella lotta di liberazione».

La maledizione del petrolio


Il referendum del prossimo 9 gennaio si colloca entro questo quadro generale tutt’altro che rassicurante. Soprattutto se si tiene presente che, al di là di tutto questo, c’è una specie di bomba esplosiva, che si chiama petrolio, come lascia intravedere bene il comboniano p. Renato Kizito Sesana, missionario in Kenya, in un articolo pubblicato su World Mission (nov. 2010) dei missionari comboniani delle Filippine.
Ho visitato il Sudan recentemente, scrive il padre. Le attese e le emozioni in preparazione del referendum fissato dall’accordo di pace per il mese di gennaio 2011 hanno creato un’atmosfera di euforia che nasconde i reali pericoli. Non ho mai conosciuto un sudanese del sud che non voglia la piena indipendenza dal Nord. C’è pertanto da aspettarsi che il prossimo gennaio, il Sudan meridionale sceglierà praticamente all’unanimità l’indipendenza. Le divisioni storiche e le differenze culturali, sociali e religiose tra il Nord e il Sud sono troppo profonde per essere risanate in un lustro di tempo. Questo era facile prevederlo Ma la comunità internazionale avrebbe dovuto prevedere e prevenire anche le condizioni che potrebbero portare a un ritorno alla guerra, o alla frammentazione del Sud come un non-stato col rischio di ne risulti una nuova Somalia.
È chiaro che il Nord non ha intenzione di lasciar andare il Sud – prendendo per sé tutto il petrolio che possiede – e farà di tutto per dividerlo e indebolirlo.
In settembre, il segretario di stato americano, Hillary Clinton, in un discorso al comitato del Congresso americano, ha fatto solo una breve allusione al Sudan. Rispondendo poi a una domanda specifica ha aggiunto che le relazioni tra il Sudan del Nord e quello del Sud, nel contesto del referendum che si sta preparando, sono una bomba a orologeria pronta a esplodere.
Questa lista di dilazioni e di fallimenti degli Accordi di pace è lunga. Non solo è stato fatto poco per rendere attraente l’unità del paese a quelli del sud, come era richiesto dall’accordo di pace, ma la comunità internazionale ha fatto finta di non vedere che le due parti stavano riarmandosi. Si è permessa la proliferazione degli abusi dei diritti umani e della corruzione. Ha accettato, senza batter ciglio, elezioni come quelle dell’aprile scorso che erano ben lontane dall’essere libere e imparziali. Ha permesso che il Sudan People’s Liberation Movement (SPLM) consolidasse nel Sud tendenze centraliste e dittatoriali. Il Sudan meridionale – o comunque si chiami il nuovo stato che nascerà dalle’inevitabile divisione – sta ripetendo tutti i peggiori sbagli delle indipendenze fallite, come il Congo, la Nigeria, la Repubblica Centroafricana, per ricordarne alcune – paesi che dopo anni di formale indipendenza devono ancora mettere in piedi dei dignitosi stati indipendenti.
Il fallimento più grave, quello che potrebbe avere le più tragiche conseguenze riguarda le rivendicazioni degli enormi campi petroliferi che si trovano sul confine tra il Nord e il Sud, un confine che si pensava di tracciare entro sei mesi dalla firma dell’Accordo di pace. Ora sembra che sia stato raggiunto un accordo anche su questo argomento. “In caso di secessione del Sud – sottolinea una nota dell’UA (Unione Africana) – le parti convengono sulla creazione di un soft border (frontiera permeabile) che consentirà lo svolgersi di tutte le attività sociali, economiche e commerciali essenziali per la prosperità e l’armonia tra i due paesi”.
Intanto l’orologio cammina. Per superare le difficoltà, scrive Sesana, non bastano i tecnocrati, è importante la buona volontà politica.

Una bomba esplosiva

La tensione sale di giorno in giorno. Alle dichiarazioni bellicose quanto inappropriate dei rappresentanti del Sud, il Nord reagisce con una metodica ostruzione del dialogo e dell’opera di preparazione del referendum. Più ci avviciniamo a quella data, maggiore è il rischio di un ritorno a un conflitto armato.
La minoranza degli islamisti e dei fanatici che rappresentano la linea dura nel Nord sembrano fare affidamento sulla loro abilità di lasciar passare la tempesta, di assorbire il dissenso, di favorire le divisioni nei due campi opposti. Per esempio, nei media c’è stata una certa attenzione al Darfur nel passato recente, ma il governo è stato in grado di controllarla, e attualmente sono sempre meno i media che dedicano attenzione a questa area tormentata. Inoltre, la recente visita del presidente Omar al-Bashir a Nairobi per l’inaugurazione della nuova costituzione del Kenya ha dimostrato l’inefficacia del mandato di arresto nei suoi riguardi da parte della Corte Criminale internazionale.
Forse il Sud crede, al peggio, di poter vincere una breve guerra di secessione pensando di avere l’aiuto della comunità internazionale. I capi del Sudan, in effetti, non sono più considerati dei “ribelli” ma rappresentanti democraticamente eletti dal popolo del Sudan del sud, malgrado i dubbi sorti nelle elezioni dello scorso aprile.
La lotta per il controllo delle riserve petrolifere, con tutti i mezzi possibili, sembra inevitabile, a meno che non intervenga un qualche accordo o progetto conosciuto solo nei corridoi della diplomazia internazionale, e negli uffici dei mercanti di armi. Non si può infatti immaginare, osserva ancora Sesana, che Hillary Clinton e la comunità internazionale non siano al corrente di quanto sta avvenendo, non abbiano previsto tutti gli scenari possibili e non abbiano dei progetti per intervenire. Obama e Clinton stanno davvero aspettando che scoppi la bomba prima di intervenire? Il Sudan non è soltanto un campo di battaglia economico. Costituisce un importante terreno di prova delle relazioni tra gli Stati Uniti e il mondo arabo. Nei primi anni novanta, Khartum è stata la base operativa di Osama bin Laden e molti del Nord sarebbero certamente pronti a offrire ospitalità ad al-Qaeda. In uno scenario del genere, un nuovo conflitto armato costituirebbe un serio fattore destabilizzante nel Corno d’Africa, che è già una polveriera.
L’indipendenza del Sudan, sia del Nord che del Sud, conclude Sesana, è ancora un processo lungo e difficile, con un alto rischio di diventare sanguinoso. È come un treno in rapido movimento. Se alcuni manovratori degli scambi sembrano distratti, non c’è dubbio che al momento opportuno essi saranno pronti a intervenire e a decidere la direzione.
Fin qui p. Sesana.

I cattolici e le religioni presenti

Per quanto riguarda le religioni presenti nel Sudan, nel Nord /esclusa regione dei monti Nuba), su una popolazione di circa 22 milioni di abitanti 17 milioni sono musulmani (80%), un milione e mezzo cristian. di cui 65% cattolici. e oltre due milioni e mezzo di animisti. Nel Sud su una popolazione globale di quasi 8 milioni il 12% è musulmano, circa 3 milioni sono cristiani (40% ca.) e oltre 3 milioni e mezzo animisti, molti dei quali però si dichiarano cristiani pur senza essere battezzati.
Complessivamente i cristiani nel Sudan (nord e sud) sono circa 5 milioni. In epoche recenti essi hanno subito una dura persecuzione. Nel 1964 il governo decretò l’espulsione dei missionari stranieri e tentò persino di obbligare i cattolici a costituire una chiesa “patriottica” ricopiando il modello cinese. Nel 1983 fu introdotta nel paese la legge islamica shari’a, fatto questo molto grave che innescò un sanguinoso conflitto tra nord e sud musulmano e arabo e il sud africano, cristiano e animista. A causa di questa legge le comunità cristiane ebbero molto a soffrire, tanto che Giovanni Paolo II, durante il suo pellegrinaggio in questo paese, nel 1993, ebbe a dichiarare: «In questa parte dell’Africa scorgo chiaramente una riproduzione particolare del Calvario nelle vita della maggioranza dei cristiani».
Del Sudan sono da ricordare in maniera particolare due figure luminose, giunte alle vette della santità: sr. Bakhita, canonizzata nel 1998 da Giovanni Paolo II, e il grande apostolo e missionario, Daniele Comboni (1831-1881), canonizzato nell’ottobre 2003, dallo stesso pontefice.
Ora le attese sono tutte rivolte al referendum. I vescovi al termine del loro messaggio dello scorso mese di luglio, scrivono: «Abbiamo compiuto un lungo cammino per giungere a questo punto. Non è stato un viaggio facile e abbiamo incontrato grandi difficoltà. Ma abbiamo affrontato queste sfide al meglio possibile con l’aiuto di Dio…
Incoraggiamo tutti coloro che hanno diritto di voto per i referendum nel Sudan del sud e nell’Abyei a scegliere quel genere di futuro di cui potranno godere essi, i loro figli e le generazioni future. Li incoraggiamo a scegliere la vita». (a.d.)