«Quando ero giovane, nelle comunità l’età media era di circa 35-40 anni e all’interno di queste la presenza di qualche anziano/a era ritenuta una benedizione: erano detti “parafulmini”. Oggi il rapporto numerico si è capovolto … ho l’impressione che si sia capovolto anche il modo di concepire l’anziano/a nelle nostre comunità…». (Fr. M.G.)

Esiste un racconto indiano che dice: «dapprima impariamo, poi insegniamo, poi ci ritiriamo e impariamo a tacere e nella quarta fase dobbiamo imparare a mendicare» . Questo certo non ci rallegra. C’è però anche un racconto, lungo quanto il Vangelo, che invita ad essere l’amore compassionevole di Dio per l’uomo, ogni uomo a partire dai più sofferenti. Se questo invito è per tutti lo è in particolare per i religiosi/e, chiamati a essere portatori della spiritualità dell’umanità, quella che scaturisce dall’umanesimo divino . Qui è la nostra profezia nel mondo d’ oggi se non vogliamo essere confusi con coloro che conoscono il contenuto dell’amore di Dio ma non sanno esprimerlo sul piano dell’esistenza.
Il punto di partenza sta nel prendere le distanze dalla mentalità corrente che è portata a considerare la vecchiaia come prodotto difettoso della società tanto da giustificarne il confinamento. Come elaborare un’immagine non svalutata «della condizione di fragilità che possa aprire la strada a una interpretazione della vecchiaia, non solo in termini di declino e di degrado ma come un diverso modo di essere dell’umanità»? Questo discorso viene fatto non per dire che anche nella VR ci sono dei processi di spersonalizzazione ed esclusione, ma per mettere in luce quale debba essere la cultura e il conseguente agire dei Religiosi/e all’interno di tutte le proprie strutture e nel raggio di influenza apostolica. C’è un approccio fondato su una condizione deficitaria dell’invecchiamento che finisce per rafforzare, nell’anziano, il sentimento di estraniamento da sé e dagli altri proprio in colui che, per natura, già tende a sentirsi più difettoso e incapace di quanto in realtà non sia. È comprensibile quanto possa risultare destabilizzante sul piano dell’identità della persona un’esperienza di autoestraniamento vissuta in un contesto sociale (potrebbe essere la comunità) che fortifica questo sentimento di alterità . Le attuali risposte di tipo sanitario, abitativo, alimentare sono quasi ovunque adeguate al bisogno della persona anziana, minore è invece l’impegno a fare spazio alle «biografie», erroneamente ritenute meno importanti della biologia. Solo attraverso la restituzione della persona alla «sua storia» è possibile rispettare il carattere irrepetibilmente individuale di ogni esperienza soggettiva, diversamente si finisce con l’alimentare meccanismi di annullamento e negazione attraverso i quali si attua la segregazione . Si tratta di ricercare le condizioni che possano soddisfare l’aspettativa di ognuno di continuare a essere considerato la persona che è sempre stata. Se la conquista dell’umanità di ciascuno di noi è avvenuta nelle relazioni e grazie alle relazioni con gli altri, quando questa umanità viene messa in discussione dal decadimento fisico e dalla malattia, è solo in ambienti ad alta sensibilità relazionale che essa può essere tutelata. Per la VR questo è un ambito di possibile profezia, quello di elaborare e praticare una cultura, dentro e fuori casa, che consideri il bisogno e la dipendenza come aspetti costitutivi della dignità umana, contrastando la costruzione di una società che attribuisce l’umanità a certi gruppi, negandola ad altri.

…«“Che tempi” … Capisco che è una espressione che non si dovrebbe dire, ma è pur vero che tutti/e la pensano … Mi interesserebbe sapere se la pensano allo stesso modo, in riferimento alla vita consacrata, i vescovi delle nostre diocesi».(Sr. G.V.)
«Dio mio, cosa sta succedendo?». Questa espressione è certamente sulla bocca o nel pensiero di molti. Ma fortunatamente non di tutti. Riporto alcune considerazioni che il vicario generale della diocesi di Trento ha espresso parlando all’assemblea delle religiose. Ciò che sta avvenendo in questo tempo – ha detto – e che molti vivono con smarrimento perché visto come disgrazia, paradossalmente, siffatta “storia”, nell’ottica di Dio può presentarsi come storia di salvezza. In quest’ “ora” in cui le chiese perdono potere, le comunità religiose perdono forza e significanza, e non hanno più persone a gestire le opere colossali del passato, tutto questo può essere letto come una grazia, un’ora in cui Dio chiama il suo popolo al cambiamento e ad avvicinarsi a lui in modo più autentico. È l’esperienza dell’esilio che ha purificato il suo popolo. Questo nell’esilio ha ritrovato la parola di Dio e dall’esilio è nato il culto sinagogale, proprio quando non c’era più né il tempio, né sacrifici né olocausti. Cosa vuol dire non poter più gestire tutti quei servizi che ci davano prestigio? Vuol dire che è finito il tempo di quella VR che per ogni malattia o bisogno produceva assistenza, carità, cultura. Anche il prete «post-tridentino» è passato; cioè quel prete che entrava nel territorio e custodiva la fede che già c’era, quella generata dalle famiglie. È passato come “personaggio” riconosciuto, rispettato e vocazionalmente attraente per il potere che sopravanzava a quello del maestro, del maresciallo, e del dottore, ed è passata, sia per il prete che per il religioso/a, anche la loro precedente funzione. Oggi, in particolare al religioso/a, è richiesto di evidenziare ciò che, entro la fede, esprime profezia del regno, attraverso una relazionalità umana piena di ascolto, vicinanza e quant’altro. E questo è un modo migliore del precedente, quello di essere non tanto i gestori in proprio della carità o essere l’anima sociale dei nostri territori ma essere comunità profetiche che entrano nel territorio attraverso vissuti relazionali intensi, che comunicano la possibilità di una vita diversa, evangelica, alternativa agli «idoli che non danno vita». Allora il compito della vita religiosa, non consisterà nel gestire, ma nell’essere segno di una comunione diversa, fatta di rapporti umani diversi, segno del primato dell’ascolto della Parola rispetto ad altro; segno della possibilità di vivere una vita in sobrietà ed essenzialità, provocazione nel dire con i fatti, che la vita non dipende dai beni. Per questi motivi non è finita la Chiesa, non è finita la VR, anche se siamo in un tempo in cui non è chiaro in anticipo ciò che si deve fare o evitare, ma c’è il pungolo ad essere nuovi entro questa storia per dare una risposta altrettanto innovativa, passando dall’essere esperti nel “predicare” ad esperti dell’ascoltare, condividere, dialogare per poter dire al fratello, che sta cercando di ancorare la vita: vieni che cerchiamo assieme perché io sono smarrito come te; e quindi una prossimità all’uomo contemporaneo che ci invita ad abbandonare posizioni di comando che in passato i religiosi/e esercitavano, per essere invece fratello con i fratelli, cercatore con chi cerca, compagni di strada.
La vocazione che ci sta davanti, diversamente da un tempo, non è quella di dire io sono diverso da te ma io con te cerco il «regno»; anzi sono qui a dirti che il «regno» è venuto a trovarti. A questo è chiamato il religioso/a, a dire all’umanità di oggi: anch’io sono tardo di cuore e lento nel credere, ma ti dico anche che è venuto a visitarmi il divino Viandante il quale mi ha detto: stolto e tardo di cuore tirati fuori e riparti dalla fraternità e dal rimetterti in cammino. La VR, se è visitata dallo Spirito, annuncia che non io sono bravo ma che ho trovato uno che mi ha detto che c’è possibilità di novità di vita, che ti dice non sono finite le ore della misericordia ed è ancora tempo di futuro e di speranza. La fraternità come primato, questo è urgente annunciare con la vita, che non consiste nel dire ci vogliamo bene, siamo tutti bravi, che bello stare insieme, ma nel riconoscere di aver bisogno del dono dell’altro, e aiutarsi reciprocamente nell’ esercitarlo. In questo sta la santità piuttosto che nel dire di essere di virtù adorno. Dietro a certi campioni di virtù, direbbe Gesù con la parabola del fariseo ed il pubblicano (Lc 18,p-14), potrebbe esserci nessuna virtù se non un egoismo mascherato. Meglio uno con difetti ma che cerca l’incontro, piuttosto che uno pieno di virtù ma che non relaziona.
A partire da queste considerazioni, le domande che la VR deve porsi sono: cosa fai per risvegliare il Dio che è nascosto dentro ogni persona? cosa stai facendo per suscitare voglia di Vangelo e per proclamare che anche l’oggi è storia sacra abitata da Dio? . Come, rendi trasparente il fatto che “consacrazione” significa “dono” e non agenzia di servizi? Nel tipo di risposte a queste domande sta’ la possibilità o meno, di superare la sindrome da tramonto, con il trovare nuove tracce di senso che rendano evidente la sua funzione di “segno”.

«Uno dei problemi con cui oggi un istituto deve fare i conti non è soltanto quello della mancanza di vocazioni ma quello dello "stato di vitalità" dei religiosi/e. Che cosa sta all'origine della disaffezione e conseguente appartenenza con riserva? Non sarà che proprio l’attenzione alle opere sta avendo, come conseguenza la disattenzione alle persone?». (p.R.E.)

Lo stato di vitalità di un carisma è desunto dal “ben-essere” dei sui membri oggi particolarmente minacciati da cause plurime e talvolta contrapposte. Lo stato di vitalità è compromesso innanzitutto per il fatto che il numero maggiore di religiosi/e è dato da coloro che hanno vissuto una vita all'insegna di scelte o posizioni stabili, ordinate, sicure, i quali oggi non hanno più gli itinerari rassicuranti di un tempo. In altri casi lo stato di vitalità è compromesso dal non soddisfatto bisogno di espressività, dal non essere riconosciuti e valorizzati nelle competenze acquisite all’interno delle loro opere, vale a dire tutti coloro che la propria identità l’avevano riposta in ciò che facevano nell’opera, oggi (per l’età o per altro) privati di questa si sentono privati dell’identità stessa. Con costoro rischiano di trovarsi fuori ugualmente tutti coloro che anche se affaticati dal pluridecennale cammino verso nuove mappe concettuali, avevano sperato nelle aperture capitolari che spingevano al “sogno”, ma oggi scoprono che, in Italia, non c’è più spazio per questo ma soltanto per la “manutenzione” o per il “puntellamento” dell’esistente anche se carismaticamente improduttivo. Salvare le Opere ad ogni costo, questa sembra ad alcuni essere l’unica scelta possibile, anche nel caso il costo consista nel marginalizzare la comunità religiosa. In una bozza di progetto pensata da una Provincia italiana veniva prospettata l’Opera articolata e modulata non più in riferimento alla comunità religiosa. Era l’invito a passare (anche se spinti da comprensibile necessità) dalla comunità cuore dell’opera alla comunità “a fianco”. Il rischio conseguente per i religiosi/e (formati a fare dell’opera la ragione per cui spendersi) è di tendere a diventare ospiti di un mondo nel quale non si ritrovano più i valori, stili di vita, ricordi che pure sono stati i punti di riferimento della propria vita, così da far insorgere un senso di inutilità e una mancanza di relazioni. Il pericolo è di diventare persone anonime, con la tendenza a somatizzare e a isolarsi con il conseguente debole senso di adesione all’istituzione. Alla percezione di privazione della cittadinanza corrisponde la deresponsabilizzazione, vale a dire lasciare che tutto succeda.
Era prevedibile tutto questo? Non interpella il fatto che da oltre cinquant’anni le nuove forme di vita evangelica hanno espresso la loro scelta discepolare mutuando ben poco dalle consolidate forme della vita apostolica dei religiosi/e? Nell’enciclica Deus caritas est (31), si dice : «è molto importante che l’attività caritativa della Chiesa mantenga tutto il suo splendore e non si dissolva nella comune organizzazione assistenziale, divenendone una semplice variante». Il Convegno di Assisi dal titolo «il Vangelo nelle opere di carità» ha fatto intravvedere per i Religiosi/e migliori possibilità apostoliche con la scelta delle opere della fede piuttosto che le opere della legge (le tradizionali Opere), indicando – con l’intervento del teologo Bruno Forte – come ipotesi migliore per la VR, la scelta della “compagnia” (per la quale oltretutto non ci sono limiti di età), piuttosto che la “supplenza”.