«La povertà in Italia è tuttora un nodo irrisolto e rischia di venire percepito dalla sensibilità comune come una delle negatività fisiologiche e irrisolvibili della compagine sociale, per le quali non vale la pena di impegnarsi più di tanto». Con queste parole mons. Pasini, presidente della Fondazione Zancan, ha presentato in modo critico e puntuale il X Rapporto su povertà ed esclusione sociale in Italia, a cura di Caritas Italiana e Fondazione Zancan, intitolato In caduta libera.
Le proporzioni del fenomeno, ha incalzato mons. Pasini, vanno ben oltre le disfunzioni tollerabili in un paese come l’Italia, classificato tra i più ricchi. La sua permanenza è inoltre palesemente in contrasto con il dettato dell’art. 3 della Costituzione, che impegna la Repubblica a garantire a tutti i cittadini pari dignità e uguaglianza e a “rimuovere gli ostacoli, di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”.

Il nodo irrisolto della povertà

Il Rapporto 2010 dice a voce alta che non è vero che siamo meno poveri, come gli ultimi dati ufficiali sulla povertà farebbero pensare. Si tratta di un’illusione ottica: visto che tutti stanno peggio, la linea della povertà relativa in realtà si è abbassata. Quindi 223mila famiglie ridiventano “povere relative”: circa 560mila persone da sommare a quelle già considerate dall’Istat (7mln 810mila poveri). Il risultato è certamente più pesante rispetto ai dati ufficiali: sono 8mln 370 mila i poveri nel 2009 (+3,7%). Un fenomeno confermato da alcuni dati: nel 2009 il credito al consumo è sceso dell’11%, i prestiti personali hanno registrato un -13% e la cessione del quinto dello stipendio ha raggiunto il +8%. Facendo una media di tali indicatori, si può calcolare proprio un 10% in più di poveri, da sommare agli oltre 8 milioni stimati.
Alla luce di tutto ciò, il X Rapporto mette al centro la famiglia per tre motivi: è la prima vittima della povertà; la precarietà del lavoro impedisce alle nuove generazioni la creazione di nuovi nuclei familiari; le istituzioni e la politica non la valorizzano e non si impegnano a sufficienza a rimuovere gli ostacoli che la mortificano.
Per maggior chiarezza, si può distinguere il fenomeno in tre ambiti. La povertà relativa che riguarda chi può spendere per i consumi meno della metà della spesa media. La povertà assoluta che riguarda chi non può accedere ai beni essenziali per uno standard di vita accettabile. Ci sono poi gli impoveriti/a rischio di caduta nella povertà: persone che hanno peggiorato, nel corso degli anni di crisi, la condizione economica e che rischiano, per un qualsiasi pesante imprevisto (licenziamento, disoccupazione prolungata, riduzione del reddito, malattie, difficoltà a saldare la rata del mutuo, infortunio, ecc.) di cadere all’improvviso sotto la linea della povertà.
Con il tasso di disoccupazione all’8,5% (la disoccupazione giovanile invece sfiora il 28%: un giovane su quattro è disoccupato) e con il calo del potere reale d’acquisto (la spesa delle famiglie nel 2009 è scesa dell’1,9%), si può dire che il 20% della popolazione è a rischio di povertà (1 italiano su 5). Infatti, le famiglie considerate agiate (al riparo dalle ripercussioni della crisi) sono circa il 45% del totale. Il restante 55% ha risentito dell’attuale congiuntura sfavorevole, o per la difficoltà ad arrivare a fine mese,o per l’impossibilità di onorare impegni e debiti, o perché non si riesce più a risparmiare.

Sulle spalle delle famiglie

Si consideri, ancora, che la povertà, accompagnata dalla precarietà di lavoro, colpisce la famiglia soprattutto in fase di progettazione, imponendo ritardi nella decisione di matrimonio: l’età media per gli uomini è oggi di 32 anni, quella per le donne è di 29 anni.
A questo va aggiunta la prolungata permanenza dei figli in famiglia; le cause che qui pesano maggiormente sono: la precarietà lavorativa (circa 2 mln i giovani sotto i 29 anni che non studiano né lavorano), l’alto costo degli affitti e la difficoltà di accedere a un mutuo bancario. E il ritardo nella celebrazione del matrimonio ha una ripercussione anche sulle scelte procreative, che si spostano verso la fase terminale della fecondità femminile: l’età media del primo parto è oggi attorno ai 32 anni.
Nell’attuale momento di crisi è problematica anche la gestione educativa e assistenziale delle famiglie. I tagli progressivi ai servizi per l’infanzia, per disabili e anziani non autosufficienti, hanno avuto infatti pesanti ripercussioni. Sul fronte degli asili nido in Italia si registra una carenza cronica: solo il 23% dei bambini riesce a trovarvi posto. Molte famiglie sono scoraggiate anche per il costo: la spesa media mensile per gli asili comunali è di 297 euro mensili. I genitori più fortunati ripiegano su nonni e suoceri. Quanto ai disabili, quelli che vivono in famiglia sono 2mln 600mila, mentre 190mila vivono in istituto. Il problema della disabilità coinvolge soprattutto gli anziani: il 44,47% ha più di 80 anni, e il peso è portato dalle famiglie sulle quali ricade la carenza di servizi.
Infine lo stato di incertezza e di precarietà lavorativa, creata dall’attuale congiuntura economica sconvolge i rapporti intergenerazionali e le speranze dei genitori di preparare ai figli un condizione sociale migliore della loro. Il 53% degli italiani resta ancorato tutta la vita al ceto sociale da cui proviene. È come se l’ascensore sociale per la maggioranza degli italiani si fosse bloccato: solo il 31,7% riesce a salire al piano superiore, mentre il 15,3% si adatta a una classe sociale inferiore a quella dei genitori. Molti genitori, che sono riusciti a far laureare un figlio con sacrifici, si ritrovano in casa un disoccupato o un precario a vita, e non sanno se avrà in futuro una pensione sufficiente. Il livello di istruzione è aumentato, ma le disuguaglianze sociali non si sono assottigliate.
Le famiglie hanno avuto “boccate d’ossigeno” con alcuni apporti determinanti: interventi della Cassa integrazione; interventi assistenziali di regioni ed enti locali, sempre più contenuti per le ristrettezze finanziarie; soprattutto interventi solidaristici, anche con formule nuove, dalle diocesi attraverso le Caritas e dai numerosi enti di solidarietà, religiosi e laici. C’è stata una mobilitazione della società civile, che ha permesso a migliaia di famiglie di superare un momento molto grave.

Leggere dentro la povertà

Ma a questo punto, più che in passato, dalla riflessione sui dati scaturisce l’esigenza di un piano organico di contrasto alla povertà e di prevenzione, che coinvolga le politiche del lavoro, della formazione, della casa, del fisco, della sanità e dell’assistenza. Un obiettivo da perseguire per promuovere la coscienza che tutti ci guadagnano nello sradicamento della povertà. Al momento l’assistenza sociale è soprattutto erogazione di soldi per risposte di emergenza che non garantiscono l’uscita delle situazioni difficili. Si danno troppi soldi e pochi servizi, con costi a carico delle famiglie. La crisi può farci prendere coscienza di questa contraddizione, per attuare soluzioni coraggiose. Basti pensare che la spesa per assistenza sociale nel 2008 è stata di 49mld di euro, l’86% dei quali impiegati per garantire interventi economici e solo un 14% per attivare servizi più duraturi. La sola spesa per gli assegni familiari ammonta a 6mln 427mila euro.
La lezione che viene da Caritas diocesane e delegazioni regionali, indica alcune importanti tendenze della crisi economica nell’ultimo biennio. Carriere di povertà sempre più veloci, complesse, multidimensionali, con frequenti uscite e “ritorni” in una situazione di disagio sociale. Storie di povertà sempre meno legate a individui soli e che coinvolgono sempre più l’intero nucleo familiare. Particolarmente deboli le persone della fascia di età di mezzo, i separati e divorziati, le donne sole con prole, gli occupati con instabilità lavorativa persistente, i licenziati e cassa-integrati, le famiglie monoreddito, le donne con difficoltà a rientrare nel mercato del lavoro dopo la maternità, ecc.
Nel corso del biennio 2009-2010 si è registrato un aumento medio del 25% del numero di persone che si rivolgono alla Caritas per chiedere aiuto. Cresce del 40% la presenza di italiani, anche se una gran parte di povertà italiana continua a rimanere sommersa; crescono del 30% i nuovi utenti. Crescono gli utenti seguiti solo dalla Caritas o da altre espressioni della chiesa locale: infatti molti nuovi poveri non sono “assistibili” economicamente dai servizi sociali, perché nonostante un tenore di vita molto basso, percepiscono un reddito “di partenza” (tra cui la pensione) o dispongono della casa di proprietà.
Nel Rapporto infine sono analizzati vari documenti episcopali degli ultimi 2-3 anni (lettere pastorali, omelie, ecc.). L’attenzione dei vescovi tiene conto della complessità delle nuove situazioni di povertà, in cui accanto alle tradizionali forme urbane di esclusione sociale, sono presenti varie e inedite situazioni di impoverimento, riguardanti famiglie italiane e stranere colpite nella capacità di risparmio e consumo. Le chiese locali, specie nel sud, si concentrano sul tema della precarietà del lavoro, ribadendo l’esigenza di potenziare i servizi di base, anche con una rete scolastica in grado di formare le nuove generazioni.
La crisi economica e la crescita delle situazioni di povertà, fragilità e disagio sono state raccolte dai vescovi delle diverse regioni italiane come sfida non solo di solidarietà, ma anche culturale: per ripensare la città, la comunità, gli stili di vita. Per quanto concerne le iniziative, un primo gruppo di esse si riferisce al microcredito socio-assistenziale (piccoli prestiti legati alle esigenze quotidiane); un secondo gruppo rientra nel microcredito per piccole imprese (prestiti a favore di micro-imprese a elevato rischio finanziario e con difficoltà di accesso al credito). Vi sono poi altri gruppi di iniziative, come aiuti a fondo perduto e attività nella sfera dei bisogni primari: (botteghe solidali, carte magnetiche di spesa, sportelli di inserimento lavorativo, sostegno al disagio abitativo, ecc).
Secondo il direttore di Caritas Italiana, Vittorio Nozza, «la nuova povertà ‘da benessere e nel benessere’ richiama le chiese locali a una sfida che non si gioca necessariamente nei tradizionali luoghi di ascolto e assistenza, ma esige il coinvolgimento di tutte le realtà ecclesiali e civili, nella trasmissione di una cultura e di prassi più attente ai valori della sobrietà e dell’essenzialità, capaci di promuovere responsabilità istituzionali e solidarietà diffusa». In questo campo la vita consacrata può giocare un ruolo importante e d’avanguardia.