Circola ormai da alcune settimane anche in Italia il film Uomini di
Dio,vincitore del Gran Premio della giuria al Festival di Cannes 2010, che narra
la vicenda dei monaci uccisi in Algeria. In Francia, dove è stato prodotto ha
ottenuto un successo enorme, destinato forse a ripetersi anche da noi.
La vicenda narrata è strettamente legata a quella dell’uccisione di altri dodici
religiosi nell’Algeria degli anni 1994-1996 e offre l’occasione di fare memoria
anche della “Chiesa di martiri” quale è quella a noi contemporanea. Basti
pensare all’attentato alla Cattedrale siro-cattolica di Baghdad il 31 ottobre di
quest’anno e all’uccisione in Turchia di mons. Luigi Padovese avvenuta il 3
giugno scorso, il quale a sua volta aveva celebrato le esequie di don Andrea
Santoro, ucciso nel pomeriggio della domenica 5 febbraio 2006, mentre si trovava
in chiesa a pregare.
Rimanere per fedeltà a Dio e agli algerini
Certamente l’andamento cinematografico del film ha il limite inevitabile di
dover raccontare un avvenimento di per sé difficilmente narrabile all’interno di
uno spazio temporale di sole due ore. Per chi conosce la storia di Tibhirine, e
ha avuto la possibilità di approfondirla tramite lo studio degli scritti anche
inediti lasciati dai sette monaci, è evidente che dal film possono emergere
soltanto alcuni tratti che hanno caratterizzato l’esperienza spirituale e umana
del monastero. Tibhirine è una località della catena montuosa dell’Atlas
algerino, nella diocesi di Algeri, dove tra il marzo e il maggio 1996 sette
trappisti furono prima sequestrati (nella notte tra il 26 e il 27 marzo) e poi
uccisi, forse per mano di un gruppo di fondamentalisti islamici, il 21 maggio.
Questi monaci, di nazionalità francese, sono: il priore della comunità, fr.
Christian de Chergé, fr. Luc Dochier, fr. Bruno Lemarchand, fr. Celestin
Ringeard, fr. Paul Favre-Miville, fr. Michel Fleury, fr. Christophe Lebreton, il
più giovane (46 anni), vice-priore, maestro dei novizi, agricoltore, scultore,
scrittore, poeta e chitarrista.
Indubbiamente va rilevato il merito del film di avere proposto, come nucleo
centrale della vicenda, il grande enigma che ha accompagnato i monaci dopo
l’irruzione nel monastero effettuata da un gruppo fondamentalista avvenuta nella
notte della Veglia di Natale del 1993. Da quella notte, infatti, la vita del
monastero è cambiata. Si è creata come una cesura tra un “prima” e un “dopo”,
sia perché si è preso coscienza della situazione di insicurezza nella quale si
stava vivendo, sia per l’avvenuta necessità di considerare l’opportunità di
lasciare quel luogo ormai divenuto “minato”. Il confronto su cosa fare è durato,
però, un tempo breve, perché per i monaci si è fatta subito strada la certezza
che il Signore Gesù li aveva chiamati e continuava a chiamarli lì perché era lì
che voleva incontrarli e vivere con loro la storia d’amore a cui li aveva vocati.
«Dopo il Natale 1993, noi tutti abbiamo scelto nuovamente di vivere qui insieme
... E la morte brutale - di uno di noi o di tutti insiemi - sarebbe solo una
conseguenza di questa scelta di vita alla sequela di Cristo». Il motivo del
“rimanere” trova il suo senso, dunque, nell’adesione a un Amore che chiedeva
loro di rimanere, da cristiani, in mezzo ad un popolo quasi completamente
musulmano, perché esso rappresentava l’“amico” al quale erano stati mandati dal
loro Signore, per essere di conforto e di refrigerio in una situazione di grande
violenza omicida in cui tale popolo era venuto a trovarsi. Se il motivo per cui
ognuno di loro, in modo autonomo e nel corso di vari anni, aveva scelto di
vivere come cristiano in Algeria era stato quello che a me piace definire la
“logica dell’incarnazione”, ciò che li ha condotti a restare è stata la scelta
della fedeltà, a Dio e a quegli uomini ai quali da Lui erano stati mandati e tra
i quali si erano sentiti sempre e solo “ospiti”. A loro era stato chiesto di
saper leggere, in “loco”, gli eventuali segni dello Spirito: in rapporto a ciò
che «Dio vuole nelle relazioni tra Chiesa e Islam»; nella loro modalità di
«oranti in mezzo ad altri oranti»; per poter vivere la relazione con Cristo lì
dove Lui li aveva con-vocati ed essere lì «il corpo della Presenza di Cristo»,
come comunità chiamata «a generare attraverso la grazia dello Spirito», con la
consapevolezza che «Dio ha tanto amato gli algerini che ha donato loro il suo
Figlio, la sua Chiesa, ciascuno di noi». «Ospiti del popolo algerino, musulmano
nella sua quasi totalità, questi fratelli vorrebbero contribuire a testimoniare
che la pace tra i popoli è un dono di Dio fatto agli uomini di ogni luogo e di
ogni tempo e che spetta ai credenti, qui e ora, rendere manifesto questo dono
inalienabile […]. Accanto agli oranti dell’islam, essi fanno professione di
celebrare, giorno e notte, questa comunione in divenire e di non stancarsi di
accoglierne i segni, come eterni mendicanti d’amore, per tutta la loro vita, se
così piace a Dio, nel recinto di questo monastero dedicato a Maria, madre di
Gesù, sotto l’appellativo di Notre-Dame-de-l’Atlas» . La logica
dell’incarnazione ha modulato anche la scelta del volere “dare carne” al mistero
della Visitazione (cf Lc 1,39-45), che sembra ben delineare il motivo della
presenza trappista in terra d’islam, vocazione specifica di Notre Dame de l’Atlas.
Fedeltà a Dio e al popolo algerino. Tale è stato il fondamento, in sé
inscindibile, del loro stare e re-stare a Tibhirine, nonostante tutto e tutti,
come il film ha voluto evidenziare. «Fin dove spingersi per salvare la pelle
senza rischiare di perdere la vita? Uno solo conosce il giorno e l’ora della
nostra piena liberazione in lui. Tra qualche mese cosa resterà della chiesa
d’Algeria, della sua visibilità, delle sue strutture, delle persone che la
compongono? Poco, pochissimo, con ogni probabilità. Eppure credo che la buona
novella sia seminata, che il seme germogli […]. Lo Spirito è all’opera, lavora
in profondità nel cuore degli uomini. Dobbiamo essere disponibili affinché possa
agire in noi attraverso la preghiera e la presenza amorosa accanto a tutti i
nostri fratelli». Da uomini cristiani, chiamati a seguire il Signore Gesù nella
modalità della vita religiosa di monaci trappisti, hanno ricevuto un’ulteriore
specificità all’interno di questo carisma: «È un aiuto, ancora più specifico,
l’essere confrontati in ogni cosa all’onnipresenza dell’affermazione musulmana.
[…] Essa narra Dio ovunque: costituisce un “microclima” che libera la fede […].
Ci si lascia allora stimolare, e lo Spirito di Gesù resta libero di svolgere il
suo lavoro tra di noi servendosi della differenza, anche di quella che ci dà
fastidio. Lo riconosciamo all’opera». Così scriveva all’inizio del 1993 frére
Christian de Chergé, il priore del monastero dell’Atlas, la cui statura
“autorevole” viene ben descritta nel film, insieme alla sua decisione
irremovibile di non volere gente armata all’interno dell’ambiente del monastero,
in quanto luogo di pace.
«Seguirti nella tua libertà perdutamente»
Tra i vari personaggi presentati dal film, accanto a quello del priore fr.
Christian e a quello ben disegnata del medico fr. Luc, emerge la figura di
Christophe Lebreton, il vice-priore della comunità e maestro dei novizi.
Personalità decisamente poliedrica , nel film appare quasi sempre timoroso,
dubbioso, insicuro, e ciò non gli fa giustizia. Monaco, invece, molto passionale
e innamorato del Signore Gesù, a Lui ha dedicato - tra l’altro - un “diario”
redatto dall’agosto 1993 al marzo 1996. In questo testo, pubblicato in diverse
lingue, possiamo trovare moltissime indicazioni di come i monaci hanno vissuto
il tempo dalla Veglia di Pasqua del 1993 al marzo 1996, quando sono stati
rapiti. Ciò che egli riporta nel suo diario, due giorni dopo la visita inattesa
di quel 24 dicembre 1993, ci può aiutare a comprendere la prospettiva dalla
quale quell’evento è stato letto: «Che cosa è capitato? Tu, al di là di tutto,
l’Inatteso che ci riveli la nostra sete: oh vieni. Ecco io vengo in fretta.
Presi dall’Evento, non ci resta che seguire la corrente di grazia. Liberati, in
pace i nostri occhi hanno visto. Ecco posato in mezzo a noi fragile, come
bambino adagiato nella mangiatoia e noi vulnerabili da parte a parte, come
Agnello, e pronti come Servo, ecco posato il Segno di contestazione e noi saremo
trapassati dalla stessa spada che attraversa il tuo cuore e il cuore di Maria».
Quella notte del Natale 1993 per Christophe e i suoi confratelli ha
rappresentato una successiva chiamata a un discepolato ancora più radicale ,
ancora più immerso nella Bellezza del Crocifisso/Sposo da cui si sono sentiti
sempre più attratti, fino a ripercorrerne il martirio. Nel diario troviamo, in
un crescendo, un’invocazione intima che diventa sempre più forte e che si fa
sempre più strada: vieni presto! È un’invocazione rivolta allo “Sposo”, al quale
egli chiede di portare a compimento quanto, ormai, è “maturo”: «Venga l’ora del
Frutto. Vieni! Taglia, pota …». Man mano che l’ora si avvicina, è un continuo
intercalarsi di «eccomi, «andiamo», «arrivo». Un’espressione, in particolare, mi
ha sempre colpito: «Poiché ti basta un niente, solo un sì per fare l’impossibile
qui, per favore prendimi presto». «Prendimi presto», come si “prende”, per
esempio, la propria sposa. In tale prospettiva la vicenda di fr. Christophe deve
essere letta alla luce di un’esperienza sempre più «sponsale» con il suo
Signore. Dal canto suo, in una lettera inedita fr. Luc ha affermato: «La morte è
Dio». E questo carattere sponsale del discepolato vissuto da Lebreton emerge con
chiari “termini” dal suo testamento: «Il mio corpo è per la terra, ma, per
favore, nessun preservativo tra lei e me […]. Per il mio volto: rimanga nudo per
non impedire il bacio».
Il loro testamento spirituale
La loro vicenda, il motivo per cui oggi – anche grazie all’uscita del film
Uomini di Dio – li ricordiamo, testimonia che «il vincolo della fratellanza,
della solidarietà, della minorità, del rispetto, dell’accoglienza sono tutte
autentiche incarnazioni di Dio, di quel Dio il quale ha mandato il suo unico
Figlio a porre la tenda tra gli uomini, per insegnare loro che “non c’è un amore
più grande del dare la propria vita per gli amici”».
Alla luce di tutto ciò, non si può parlare di loro come vittime della violenza
dell’islam. «Essi avrebbero aborrito una tale conclusione, molto lontana da
quella che è stata la loro esperienza. Il popolo algerino – nella sua quasi
totalità musulmano – li ha amati, si è sentito custodito, protetto dalla loro
presenza neutrale, che non è scesa a compromessi né con i “fratelli della
montagna”, né con i “fratelli della pianura”, perché la loro scelta è stata il
popolo d’Algeria, un popolo martoriato e crocifisso dalla guerra civile,
schiacciato tra le varie fazioni che si davano battaglia, trovandosi spesso in
mezzo al tiro incrociato delle rispettive postazioni». Mons. Teissier, a questo
proposito, nel 1996 scriveva: «Incarnavano la nostra vocazione, spingendola fino
al suo vertice. Una vocazione a vivere la fedeltà cristiana come l’esigenza di
una fraternità che cerca dei fratelli il più lontano possibile, anche là dove
nulla di comune poteva essere colto a priori. Una vocazione a vivere la nostra
identità cristiana fino al cuore del mistero». E di lì a poco commentava Dom B.
Olivera, il loro Abate Generale: «Si sono lanciati verso il mistero, fino ad
essere totalmente trasformati da lui. Una misteriosa influenza ha permesso loro
di sperimentare il mistero, fino ad essere trasformati in luce e in fuoco. I
nostri sette mistici ci tendono la mano, per introdurre anche noi nella gloria
trasformante di Dio. Ci invitano a fissare lo sguardo nell’oscurità delle
tenebre fino a contemplare il volto di Qualcuno».
Credo, in conclusione, che il successo ottenuto - e il pregio che ne consegue -
dal film Uomini di Dio vada rintracciato, alla fin fine, in quel desiderio di
Dio che ogni uomo, consapevole o no, porta inscritto dentro di sé. D’altronde,
già Agostino era giunto alla conclusione che: «ci hai fatti per te e il nostro
cuore non trova pace finché non riposa in te».