Perì l’inganno estremo / ch’eterno io mi credei” (G. Leopardi). “Irreparabile
… irrimediabile… irreversibile… irrevocabile… senza appello… Il punto di non
ritorno… il definitivo… l’ultimo… la fine di tutto… Esiste uno e un solo evento
cui si possa attribuire a pieno titolo tutte queste qualificazioni nessuna
esclusa, un solo evento che renda metaforico ogni altro loro impiego, l’evento
che conferisce a quei termini il loro significato primario, originario,
incontaminato e non diluito. Quell’evento è la morte» [1]. Ed è un evento che
accade indipendentemente da qualità e difetti, da meriti e colpe, nei tempi e
nei modi sui quali ben poco controllo possiamo avere, un evento che ci coglie
sempre alla sprovvista, impreparati. Esso può apparire a volte come un mistero
che incombe, un enigma che ci interroga, un rebus aggrovigliato di fronte al
quale si rimane attoniti e confusi, impauriti da ciò che di sconosciuto e ignoto
la morte rappresenta.
Nella morte tutte le barriere cadono
Se la vita è vista come un improvviso lampo di luce nel buio tra due notti senza
fine, la morte è ciò che circonda la vita, un luogo da cui si viene e verso cui
inevitabilmente si va. L’estrema testimonianza della fragilità umana. Essa può
apparire come un abisso ripugnante che si spalanca e ci inghiotte e in cui
precipitiamo come verso il nulla; uno scandalo o un doloroso paradosso; una
contraddizione inammissibile. Qualcuno ha definito la morte come il mezzo per
vivere e nello stesso tempo l’impedimento a vivere.
Per Goethe la morte è ciò che rende angosciante l’esistenza in quanto ce ne
mostra il carattere enigmatico; è una ferita attraverso la quale intravediamo il
mistero insondabile della vita. Quanto più ci sentiamo radicati nella vita in
questo mondo, tanto più la morte ci appare come un doloroso sradicamento; ci
dispiace perdere questo mondo e la morte ci può apparire come un limite contro
cui si infrange ogni e qualsiasi desiderio diverso, primo fra tutti l’immensa
vivendi cupiditas di cui parla Plinio il Vecchio. Un confine tra un al di là e
un al di qua sul quale sostiamo come viandanti. Quando si pensa di aver
afferrato un barlume del suo senso, fugge di nuovo; è una bestia che si
divincola; scalcia e morde quando la si vuole prendere al laccio.
Levinas afferma che: «…il carattere imprevedibile della morte dipende dal fatto
che essa non si situa in alcun orizzonte. Non si lascia prendere. Mi prende
senza lasciarmi la possibilità che lascia la lotta. Infatti, nella lotta
reciproca, io riesco ad afferrare chi mi prende. Nella morte sono sottoposto
alla violenza assoluta, all’omicidio nella notte» [2]. Ma può divenire una
soluzione alla fatica del vivere, all’impossibilità di trovare un senso, un modo
per mettere fine a un dolore di cui non si vede la fine, o come punto finale di
un’esistenza che non sembra più avere i connotati della vita degna di essere
vissuta.
Oppure la morte appare come la fine di un cammino, di un percorso che in quel
termine trova il suo senso, il compimento della propria missione; la strettoia
che ci immette in un ulteriore orizzonte che dona senso a quanto accaduto fino a
quel momento. Come suggerisce Jung sarebbe più corrispondente «all’anima
collettiva dell’umanità considerare la morte come un compimento del significato
della vita e come scopo specifico di essa, che come una mera cessazione priva di
significato» [3]. In certi casi essa ha i connotati di un’interruzione brutale,
di uno spezzarsi casuale e ingiusto, di un venir meno della possibilità di
portare a compimento quanto prefisso. In altri essa è simile a un allontanarsi
da un banchetto come un commensale ormai sazio che ha goduto di ogni cibo, di
ogni bevanda e di ogni istante.
Per Karl Rahner la morte è sempre entrambe le cose: evento esterno, interruzione
e distruzione, ma al tempo stesso autocompimento personale, azione dell’uomo
compiuta dal suo intimo nella quale l’uomo si completa. «La morte è piuttosto
solo il limite dell’esistenza umana, un limite certamente drammatico e talora
ingiusto nella sua concreta modalità (non è giusto morire a sedici anni), ma in
sé giusto, in quanto è giusto che un limite della vita ci sia» [4]. Nella morte
tutte le barriere cadono. «La persona umana emerge nella sua unicità e prende la
decisione che riassume o rivede tutte le decisioni prese nel corso della vita. E
in questa decisione ultima si apre a Dio, oppure si chiude dinanzi a lui e
rimane prigioniera di se stessa» [5].
Indifesi in una città senza mura
L’uomo all’apogeo della sua potenza sembra potersi garantire la sicurezza nei
confronti di quasi tutto, ma a causa della morte ogni uomo abita «una città
senza mura» (Epicuro), senza difese. Con parole forti il libro dell’Apocalisse
ci dice: “Tu dici: sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla. Ma
non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo. (…)
Affrettati perciò a convertirti!” (Ap. 3,17.19). Il povero invece sa che di
fronte alla morte non può erigere alcuna difesa, le cose e gli eventi hanno il
loro reale spessore e non sono la caricatura che troppo spesso noi ci vogliamo
fare di loro. Posti di fronte alla morte scopriamo che cosa realmente conta per
noi, su cosa fondiamo la nostra esistenza, a cosa diamo realmente valore; siamo
costretti a gettare la maschera e dichiarare la nostra reale identità.
Olivier Clément commentando la prima beatitudine ci dice: «I poveri nello
spirito sono quelli che hanno cessato di vedere nel proprio io il centro del
mondo (…) Si spogliano di tutto, al limite anche di se stessi. E ogni istante
ricevono la propria esistenza da Dio, come una grazia» [6]. L’imminenza della
morte ci rivela l’unicità del tempo vissuto e quindi la preziosità e
insostituibilità di ogni singola storia umana; la sua rarità in quanto non ne
esiste che un unico esemplare nell’universo dei mondi e nella galassia degli
universi; un’unicità dal gusto incomparabile, insostituibile, inimitabile.
Per Baumann «.. ogni morte è la fine di un mondo, ogni volta unico, che non
potrà ma più tornare a rinascere. Ogni morte è la perdita di quel mondo, per
sempre e irreparabilmente. La morte è, potremmo dire, il fondamento empirico ed
epistemologico dell’idea di unicità» [7]. Senza finzioni ci viene rivelato se
siamo diventati ciò che dovevamo essere o se la nostra esistenza è stata un
progressivo processo di deformazione del progetto che Dio aveva su di noi; la
morte disegna il nostro volto reale mostrandone la conformità o meno al progetto
originale. «Il pensiero della fine è sempre angoscioso, ma è l’unico rimedio in
grado di conferire all’uomo la sua giusta misura. Non gli insegna soltanto la
modestia, lo desta anche dall’inganno d’una vita falsa» [8].
La morte illumina gli angoli bui della nostra esistenza, rivelando di che cosa è
popolato il nostro mondo interiore, mostrandoci la vita nella sua beffarda
nudità, ma anche quale sia il filo che tiene unito l’insieme dei nostri giorni,
ciò che dà loro unità e senso. «La morte è, per così dire, il grande sfondo
della vita, la sua cornice, la grande distesa scura intorno ai riflettori» [9].
Oppure la morte rivela la frammentazione nella quale siamo vissuti e la vacuità
su cui si è fondata la nostra esistenza, l’inconsistenza delle basi su cui
avevamo costruito le nostre sicurezze. La morte è assurdo e fallimento quando mi
rappresenta l’evaporare della mia identità, la distruzione definitiva della mia
personalità, il precipitare nel nulla di quanto pensavo di aver costruito con le
mie mani e che ora mi appare futile, banale; un uscire dall’unico mondo
possibile e dissolversi scomparendo negli inferi del non-essere. «La morte è
sentita come nemico dall’uomo fermo allo stadio di anima sensitiva, per il quale
è così connaturato questo sentimento di orrore verso la morte da essere quasi
impossibile strapparlo, e per questo la morte è l’ultimo nemico» [10],
l’ostacolo estremo a una vita spirituale.
Rivela per che cosa si è vissuto
L’orrore che a volte ci prende di fronte alla nostra morte altro non è che il
terribile sconforto di scoprire il vuoto che abita il nostro cuore, le spesse
coltri di polvere che coprono affetti e sentimenti lasciati nell’oblio, la
solitudine che si è sedimentata nella nostra anima nel corso degli anni. Se si è
vissuto per il successo, per essere visti, riconosciuti, guardati, applauditi la
morte rappresenta un assoluto non valore, un triste risveglio da sogni vani, un
evento da negare in qualsiasi modo o meglio da continuare a negare così come
abbiamo fatto per tutto il corso della vita nella quale mai abbiamo voluto
riconoscerne la presenza e di cui abbiamo accuratamente evitato la
consapevolezza. Se per tutta la vita abbiamo lottato e faticato a costruire
sicurezze che come baluardi ci difendessero dal mistero, ora di fronte al
mistero assoluto che è la morte ci si sente privi di difese, il panico prende
possesso del nostro cuore, scopriamo l’inanità degli sforzi di tutta una vita.
Per tutta la vita ci si è illusi di evitare il mistero che la vita rappresenta e
ora la morte ci dice che l’esito della nostra vita è un mistero a cui non è
possibile sottrarsi. Il chiassoso chiacchiericcio delle nostre illusioni si
ammutolisce di fronte al misterioso silenzio della morte.
Alla morte il ricco rivolge il proprio disprezzo non sapendo che «è proprio
dell’uomo ragionevole non essere, di fronte alla morte, né superficiale né
ostile né arrogante, ma di attenderla come qualsiasi altro fatto naturale…»
[11]. Egli nel corso della vita evita quelle domande che ora la morte gli pone
come inderogabili: «a che pro, a che serve questa piccola passeggiata del sig.
Tal de Tali nel firmamento del destino, questo tirocinio di qualche decennio
nella vallata della finitudine? Questo soggiorno senza capo né coda nei pascoli
dell’al di qua? E perché, per cominciare, il signor Tal dei Tali è nato un certo
giorno anziché restare eternamente inesistente? E perché una volta nato, deve un
altro giorno cessare di essere, senza che gli sia fornita nessuna spiegazione
sulle ragioni di questo assurdo viaggio circolare? Qual è dunque la finalità di
tutto questo?» [12]. Non ci si difende dall’angoscia che provoca la morte
facendo tacere tali domande perché l’uomo è veramente uomo solo quando è in
grado di assumere completamente su di sé l’angoscia di fronte al mistero
dell’esistenza, quando mantiene vivo quell’anelito a «una pienezza, al senso
delle cose, per capire il vero senso dell’esperienza umana, per capire a che
cosa essa rimanda oltre se stessa» [13]. A volte si ha l’impressione che di
fronte ai vari sensi e significati che assume la morte noi siamo come solitari
spettatori delle onde che lambiscono la riva della nostra esistenza in attesa
dell’alta marea in cui tutto verrà sommerso.
Per vivere di più, si vive meno
È proprio del ricco di fronte alla morte desiderare di sopravvivere anche se ciò
significa pagare con la vita stessa. È tipico del ricco voler sopravvivere a
tutti i costi, sacrificando la vita. Egli non vuole vivere più a lungo, gli
basta attendere la morte per più tempo. Non riconoscendo la morte come
conseguenza diretta e necessaria del darsi della vita, mostra di non saper
neppure cosa sia la vita. Pur di salvare qualche brandello di sopravvivenza si
abbandona a una lenta emorragia di vita, si aggrappa spasmodicamente alle sue
sempre più flebili forze mentre osserva impaurito il progressivo indebolimento
di ciò che chiamiamo vita. Per lui la vita si definisce come l’insieme delle
forze che resistono alla morte (Xavier Bichat 1803). «Se vivere è il bene
assoluto, la vita si fa vile e servile, frenata dall’angoscia della sua perdita.
Per vivere di più si vive meno. La vita non può essere un bene supremo, al di
sopra di tutto; non è vita il vivere ad ogni costo» [14].
Si tratta di un modo di pensare che nasce da una cultura che con Cencini
potremmo definire post-mortale: «dominata dalla paura della morte e tutta
protesa a esorcizzarla in vari modi e con le conseguenze che sappiamo e
constatiamo. Vedi, ad esempio, il tentativo di abolire la morte, d’ignorarla ed
escluderla, rimuovendo o negandone ogni segno, nel sogno di vivere per sempre o
comunque di estendere il più possibile il limite vitale» [15]. Evita il pensiero
della morte trasformandolo in una costante e frammentata preoccupazione a
preservarsi dalle innumerevoli minacce alla vita, nell’elaborazione di processi
di neutralizzazione e difesa dalle cause di morte che si trovano ovunque.Che
altro sono l’ossessione per l’alimentazione, per la salute, per l’igiene o la
spropositata preoccupazione per la sicurezza se non l’estremo tentativo di
indebolire il pensiero della morte frammentandola in tante piccole
preoccupazioni?).
Per il card. Scola: «… gli strabilianti tentativi della tecnoscienza di
allungare la vita occultando la morte non riescono a liberare l’uomo dal “rumore
di fondo” (…) che questa imprime a tutto l’arco dell’esistenza, “rumore” che
dice di una condizione strutturale su cui grava un destino di totale
spossessamento…» [16]. Nell’universo del ricco non esistono valori superiori a
quello della sua propria sopravvivenza, ignorando così che ciò che non muore
neppure vive. «Una roccia non muore. Un fiore di stoffa non appassisce mai. Ma
in questo modo l’eterna vita di un fiore di stoffa o di una roccia è in fondo
un’eterna morte…» [17].
Egli non sa vivere in funzione di qualcosa di più grande della propria
sopravvivenza trasformando la morte, che in ogni caso accade, in un evento senza
significato. Non ha mai avuto un motivo per cui valesse la pena dare tutto fino
a morire e non gli è rimasto che sopravvivere nel testardo e illusorio tentativo
di privare del veleno il pungiglione della morte. Egli non è abituato a lasciare
la presa, egli rimane aggrappato ansiosamente alle cose che ha prodotto e che
ormai rappresentano ciò che egli è; non sa lasciar andare tutto questo,
abbandonarlo e abbandonarsi; insegue una vita divenuta il fantasma di se stessa.
Se la sopravvivenza costituisce la stella polare che guida i nostri pensieri e
le nostre azioni, la nostra esistenza sarà un’irrequieta ricerca di fuggire
dall’evidenza della morte, un compulsivo aggrovigliarsi di idee che ci rende
prigionieri dell’assurdo e inconsapevoli del fatto che solo «una morte vitale è
ciò che rende appassionante una vita mortale» o che, come dice Seneca: «Il bene
della vita non consiste nella sua durata, ma nell’uso che se ne fa, e può
capitare che proprio chi è vissuto a lungo sia vissuto poco» [19]. In questo
modo «la morte stessa perde sempre più ogni senso, non fa più parte della vita
né è più considerata ciò che in effetti rende pensosi, è solo qualcosa di
sinistro e assurdo, crudele e ingiusto, mentre l’atto del morire è quasi
totalmente affidato alla tecnica, che lo può ritardare, accelerare, persino
eliminare l’angoscia e la paura o almeno controllarle chimicamente,
neutralizzandone odori e tracce, rendendo l’atto estremo un fatto discreto,
incosciente e igienico, e cancellando ogni agonia, ogni sua traccia,
nell’illusione (ancora una!) che sia una eutanasia, una bella morte» [20].
La sapienza del povero
Per il povero la morte rappresenta l’istanza che rende necessarie le domande sul
senso di ciò che si fa e di ciò che si dice. È grazie alla morte che possiamo,
anzi dobbiamo chiederci perché facciamo ciò che facciamo e perché diciamo quello
che diciamo. Ma il povero, che per tutta la vita ha saputo e fatto esperienza
della propria non autosufficienza, sa che incontro alla morte non ci va da solo.
Le relazioni finte e formali di cui si è nutrita la vita del ricco ora lo
lasciano in una solitudine vuota di affetti e di relazioni. Per tutta la vita ha
cercato di mantenersi disimpegnato da ogni legame di empatia con le persone
evitando solidarietà, amicizia e amore, limitando le sue relazioni allo scambio
di pensieri logici o di oggetti di mercato. La ricerca della ricchezza lo ha
privato di una realtà fondamentale che ora lo rende irrimediabilmente solo
nell’affrontare la morte: il senso di essere necessari per qualcuno. Non potendo
portare con sé le “cose” per cui è vissuto egli affronta la morte nella più
sconfortante solitudine, la solitudine di chi ha sempre evitato di rimanere da
solo, la solitudine di chi ha cercato il dominio sugli altri, il possesso e la
manipolazione, una solitudine che non si è aperta al dono di sé, all’offerta,
alla comunione. Più che la morte, è la solitudine che l’accompagna a rendere
l’anima del ricco tragicamente spaventata.
Nella morte il povero invece esprime un commiato dalle cose e dalle persone di
cui è consapevole non essere padrone né che esse siano dovute a lui. Egli sa che
tutto è dove deve essere e va dove deve andare: al luogo assegnato da una
sapienza che non è la nostra. Tutto gli è stato donato per un tempo limitato e
ora lascia tutto, lo riconsegna. Ha ricevuto dei talenti che ha fatto fruttare
tanto o poco o nulla, e ora ridà tutto indietro senza pretendere nulla. Si
compie un’opera di svuotamento che è tanto più semplice quanto più la persona si
è abituata nel corso della vita a farlo con regolarità: «Chi giunge a dire
“Padre, nelle tue mani affido il mio spirito” ha imparato a morire. (e) Imparare
a morire non è una cosa riservata all’ultimo giorno, è esercizio quotidiano»
[21].
Quello del povero è un commiato che rivolgendosi alle persone e ai fatti della
vita diventa riconciliazione con il suo passato, con gli amici e con i nemici,
con le sue aspirazioni e i suoi desideri, con i suoi successi e i suoi
fallimenti, con ciò che gli è stato dato da vivere e con le attese mancate. Egli
sa che con la morte varie pagine d’agenda rimangono sospese, certe ferite
familiari non riusciranno ad essere guarite, certe parole pronunciate nella
fretta e in preda all’eccitazione non potranno essere rimediate, certe amicizie
non potranno essere ravvivate, certi sogni non troveranno realizzazione. Ma
tutto ciò non genera in lui il senso di una vita perduta, sciupata. Tutto questo
non è avvenuto invano [22]. Il povero intuisce che con la morte, la sua e quella
degli altri, il sipario non cala solo su questo povero piccolo essere
misterioso, ma coinvolge tutta intera l’umanità. Per questo al povero nessuna
morte è indifferente.
Nella morte avviene la totale donazione
Un altro degli atteggiamenti propri del povero di fronte alla morte è quello che
troviamo ben espresso dal cardinal Martini nel suo libro Conversazioni notturne
a Gerusalemme. Alla domanda: «Cosa chiederebbe a Gesù, se ne avesse la
possibilità?», ha risposto: «Gli chiederei se in punto di morte mi verrà a
prendere, mi accoglierà. In quei momenti difficili, lo pregherei di inviarmi
angeli, santi o amici che mi tengano la mano e mi aiutino a superare la mia
paura». Il povero non viene inghiottito dall’orrore al pensiero della morte
perché crede, si fida che vi sarà una mano soave a chiudergli gli occhi e
braccia pronte ad accoglierlo affettuosamente, teneramente, maternamente
(pensiamo alle immagini della “Pietà”).
Il povero che durante la sua vita ha riconosciuto che «per essere occorre
rinunciare a se stessi» e che «è l’apertura della nostra esistenza ad un’altra
persona che crea il nostro essere» (Gabriel Marcel) nell’esperienza della morte
scopre che la vera dedizione e la vera dimenticanza di sé avvengono nella morte
perché nella morte avviene la totale donazione; la consegna definitiva a qualcun
altro che non è un cadere nel nulla, ma il lasciarsi andare a un abbraccio. È
nella morte che si compie il suo destino di pellegrino alla ricerca dell’amore
che lo realizza.
La morte per il povero è certamente un’occasione di tristezza e di paura: sono
relazioni e incontri che si interrompono, affetti che non potranno più
svilupparsi, amori che vengono sospesi. «Per quanto ingegnosi siano gli
stratagemmi miranti a esorcizzare dalla mete tale spettro, la paura della morte
in sé (…) non può essere bandita dalla vita. Tale paura primitiva è forse il
prototipo o l’archetipo di tutte le paure, la paura ultima da cui ogni altra
deriva il proprio significato» [23]. Abbiamo bisogno dell’altro/Altro per
superare la paura della morte, nella mano che si stringe sulla nostra negli
ultimi istanti troviamo la sapienza del morire e questo avviene se durante la
vita abbiamo imparato a farci tenere per mano, se abbiamo imparato a morire a
noi stessi e ai nostri egoismi.
In contrasto con la cultura contemporanea nella quale è «in atto oggi un
tentativo di “desocializzare la morte”, la cui conseguenza più rilevante e
visibile è la fine della morte come fatto sociale e relazionale, e dunque una
solitudine ancora più radicale e devastante in un momento, invece, in cui la
presenza dell’altro che mi stringe la mano è come viatico naturale, segno d’una
relazione che la morte non distrugge e che al contrario rende definitiva,
purificata, fa più intensa» [24].
Durante la vita il povero ha accettato di correre il rischio di restare solo o
di toccare il fondo di quel vuoto dove Dio abita, quella solitudine che in
definitiva non esiste perché in fondo ad essa si scopre Dio, una solitudine che
diventa feconda. Egli ha avuto il coraggio di sperimentare quella solitudine che
gli ha permesso di cogliere la presenza dell’Amante eterno, ha saputo prestare
ascolto e non ha trovato chiusa la porta del suo intimo. La solitudine che egli
ha accolto non solo lo ha educato, ma gli ha formato il cuore e lo ha reso
capace di essere dimora di Dio sempre.
Benedetto XVI in un udienza del 2005 ha espresso con parole di particolare
incisività questo aspetto: «Anche nelle notti più oscure della nostra vita, non
ci abbandona. Anche nei momenti più difficili, rimane presente. E anche
nell’ultima notte, nell’ultima solitudine nella quale nessuno può accompagnarci,
nella notte della morte, il Signore non ci abbandona. Ci accompagna anche in
questa ultima solitudine della notte della morte. E perciò noi cristiani
possiamo essere fiduciosi: non siamo mai lasciati soli. La bontà di Dio è sempre
con noi» [25].
Lo stesso pontefice davanti alla sindone ha espresso un sentimento abbastanza
simile dicendo: «Tutti abbiamo sentito qualche volta una sensazione spaventosa
di abbandono, e ciò che della morte ci fa più paura è proprio questo, come da
bambini abbiamo paura di stare da soli nel buio e solo la presenza di una
persona che ci ama ci può rassicurare. Ecco, proprio questo è accaduto nel
Sabato Santo: nel regno della morte è risuonata la voce di Dio. È successo
l’impensabile: che cioè l’Amore è penetrato "negli inferi": anche nel buio
estremo della solitudine umana più assoluta noi possiamo ascoltare una voce che
ci chiama e trovare una mano che ci prende e ci conduce fuori. L’essere umano
vive per il fatto che è amato e può amare; e se anche nello spazio della morte è
penetrato l’amore, allora anche là è arrivata la vita. Nell’ora dell’estrema
solitudine non saremo mai soli: Passio Christi. Passio hominis».
E per concludere facendo eco a queste parole di speranza permettetemi di citare
il brano finale dell’Ivan Il’ič di Tolstoj: «E il dolore? – si domandò. – Dov'è
andato? dove sei dunque, dolore?-. Prestò ascolto. Sì, eccolo. Venga pure il
dolore!-. –Ma la morte dov'è essa?-. Egli cercava il suo vecchio abituale
terrore della morte, e non lo trovava. Dov'è? Quale morte? non aveva più alcuna
paura, perché nemmeno la morte c'era più. Invece della morte c'era la luce.
[...] – È finita! –disse qualcuno su lui. Egli sentì queste parole e le ripeté
nella sua anima: – Finita la morte! – si disse – Non c'è più –. Aspirò l'aria,
si fermò a metà del respiro, si stese e morì» [26].