Chi è il re? L'uomo dell'oro, dello scettro, del trono? L’uomo dell'avere, del potere, dell'apparire? Colui che ha forzieri colmi, che può anche imporre e disporre, che appare sempre il primo: il più ricco, il più potente, il più importante? L'ambiguo cartiglio posto sulla croce ribalta ogni idea, ogni opinione, ogni giudizio sul regno e sul re. In ebraico, in greco e in latino recita: "II re dei giudei (è) costui".
È il motivo della condanna di Gesù il Galileo e vorrebbe significare, nella mente dei capi, la fine della sua assurda pretesa. Invece è l'affermazione inconsapevole che proprio lì, sulla croce, nel luogo del dolore più grande e della più umiliante sconfitta, nel momento degli insulti e degli abbandoni, s'illumina tutta la storia di questo Re e risplende la sua gloria, la gloria del più grande amore.
Nel suo non avere più niente, attrae tutto e tutti a sé; nel suo essere del tutto impotente, può fare di tutti noi quello che nessun re può fare dei suoi sudditi: un popolo di re; nel suo apparire fallito e sconfitto, trionfa sull'ultimo nemico, la morte, di fronte alla quale anche il re più potente deve arrendersi, rassegnato o ribelle, ma comunque disarmato e impotente. Sulla croce la regalità di Cristo riceve l'ultima smentita e insieme l'affermazione più solenne. Nel deserto Gesù aveva dovuto subire per tre volte l'assalto di Satana, il quale, dopo averlo tentato invano di seguire la strada di un messianismo di auto-salvezza, "si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato" (Lc 4,13). Ora, sul Calvario, scade il tempo fissato.
Per ben tre volte viene rivolta al re-crocifisso la sfida condita di scherni e di insulti: "Salva te stesso!". Gli viene rivolta dai capi del popolo, detentori del potere religioso. Stessa accusa gli viene rivolta dai soldati, rappresentanti del potere politico, ma Gesù è politicamente un impotente. Infine gli viene rivolta da uno dei malfattori crocifissi, rappresentanti dell'opinione pubblica: Luca scrive testualmente che "lo bestemmiava" (Lc 23,39). A questo punto la scena si rovescia: i capi, i soldati, un malfattore hanno chiesto a Gesù una dimostrazione di forza: se Gesù accetta e scende dalla croce, si dimostrerà un "forte", un vero "re" davanti agli uomini. Invece un pover'uomo gli chiede una dimostrazione di bontà: "Ricordati di me!".
"Gesù, ricordati di me": è la prima volta nel terzo vangelo che Gesù viene chiamato per nome, senza ulteriore specificazione: il brigante ha scoperto l'amico! "Ricordati di me", prega la paura. "Oggi sarai con me", risponde la bontà. Commenta s. Agostino: "Fede grande! A tal fede non saprei cosa si possa aggiungere. Vacillarono coloro che avevano veduto Cristo risuscitare i morti, credette colui che lo vedeva pendere sulla croce". Un crocifisso è il nostro re. Questo Crocifisso che non ha voluto schiodarsi dalla croce, è il nostro vero e unico Signore.
Riconoscere che Cristo è re e Signore, significa sottomettersi alla sua regalità e signoria; significa riconoscerlo come "mio" Signore; significa essere servi di Cristo re e Signore, e di nessun altro!
Appesi alla croce delle nostre impotenze e disfatte, crocifissi con i chiodi della malattia, della fame, dell'egoismo, dell'odio; nell'agonia della speranza e dell'amore, nella paura che vede solo buio e vuoto, tanti nostri fratelli hanno bisogno di "cristiani difficili" (Mounier) per credere che un crocifisso sia il loro unico salvatore. Oggi c'è bisogno di cristiani difficili, che non si lasciano vincere dal male, ma non rinunciano a vincere il male con il bene; che non hanno paura di apparire perdenti; che non puntano ad annettersi porzioni di mondo; che sanno amare il mondo anche quando devono essere alternativi al mondo. Non sono forse i santi questi "cristiani difficili"?


Francesco Lambiasi
da Il pane della domenica
Editrice AVE, Roma, 2008