Il documento conclusivo dell’ultimo capitolo generale dei camilliani “Uniti per la giustizia e la solidarietà nel mondo della salute”, è un testo esemplare di come un ordine religioso tenta di attualizzare il proprio carisma. Senza rinunciare al primato dell’annuncio della Parola e della testimonianza personale e comunitaria, «ora si desidera dare maggiore impulso all'aspetto profetico inerente il nostro carisma» nei campi più diversi, in particolare quelli della pastorale della salute, dell’assistenza diretta ai malati, della formazione degli operatori sanitari, dell’educazione sanitaria, della medicina comunitaria, della promozione di una nuova cultura della vita e della salute, dell’impegno per l'umanizzazione delle strutture e dei processi di vita, di guarigione e di morte.

La denuncia di ingiustizie conclamate

Da tempo i camilliani hanno imparato a non muoversi più da soli. Sentono l’urgenza di un più diretto coinvolgimento degli organismi ecclesiali, degli altri istituti religiosi (senza i quali troppi progetti sarebbero oggi assolutamente “impensabili”), e, naturalmente, dei laici, a incominciare dalla sempre più vasta famiglia camilliana. C’è ancora un lungo cammino da percorrere per convincersi che insieme a questi “cristiani adulti” si potrebbe agire con più “efficacia, efficienza e qualità”.
Nel loro sforzo di proiettare uno sguardo profetico sulla realtà che li circonda, i camilliani riaffermano l’importanza di uno strumento come il Compendio della dottrina sociale della Chiesa (2004). Anche grazie ai suoi contenuti, hanno potuto constatare che mentre l'Ordine è impegnato da sempre e con notevoli risorse umane e finanziarie nel campo della solidarietà verso gli ultimi, i poveri e i malati, invece «è piuttosto assente nel campo della giustizia e non interviene con sufficiente peso nella denuncia di conclamate ingiustizie». È una conferma del fatto che la profezia è più facile viverla «nella testimonianza della carità che non intervenendo nell'arena culturale-socio-politica». La denuncia profetica continua a rimanere qualcosa di molto più impegnativo e sporadico rispetto alla visibile ed apprezzata attività caritativo-assistenziale in risposta ai bisogni dei malati meno protetti. Non è più possibile chiudere gli occhi di fronte alle sempre più evidenti “strutture ingiuste” che rimarranno tali fino a quando non subentrerà un profondo e tutt’altro che scontato cambio di mentalità anche da parte dei consacrati.
A questo riguardo, nel vissuto personale e comunitario dei camilliani, emergono non solo “luci stimolanti”, ma anche “ombre preoccupanti”. Come non evidenziare, ad esempio, si chiedono, l'urgenza di migliorare la comunione fraterna, la condivisione, il senso di appartenen¬za, la giustizia e la solidarietà in favore dei propri confratelli? Come non vedere «la mancanza di sostegno vicendevole (a volte cercato fuori dalla comunità) special¬mente in favore di chi versa in difficoltà, la perdita di significato del ruolo del superiore, il calo della preghiera comunitaria, la distribuzione non equa di responsabilità e funzioni?».

La “ragione d’essere” dei camilliani

Una delle maggiori preoccupazioni, anche tra i camilliani, è quella relativa all’esercizio del voto di povertà. Oggi si fa una certa fatica a capire che «l'esercizio coerente (prima che profetico) del ministero e la pratica generosa e creativa della giustizia e della solidarietà sono incompatibili con l'agiatezza di vita, con l'attaccamento ai beni materiali, con la gestione non soli¬dale e individualistica della propria vita». Non è possibile, infatti, non vedere «certe incoerenze vistose che mettono fra parentesi la fedeltà alla povertà». Anche «l'adattamento facile e acritico a tutti i beni di consumo, l'uso indiscriminato di mezzi, le spese ingiustificate, la resistenza ad affrontare e mettere in discussione le "scelte personali", la perdita di entusiasmo ecc., tutto questo, oltre a non essere compa¬tibile con il religioso che desidera essere profeta, rivela quanto la nostra VC abbia bi¬sogno di profeti (esterni?) che ci scuotano e ci sveglino (forse i poveri stessi?)».
La sincera ammissione di queste “ombre” è uno stimolante punto di partenza per una urgente inversione di tendenza. Suscitati dallo Spirito con una finalità molto specifica, i camilliani sanno bene che il servizio alla salute e ai malati è la loro “ragion d'essere”, il “dono” che sono chiamati a vivere e a praticare con tutte le forze. Essere profeti nel mondo della salute, arrivare ad essere “segno e provocazione per le istituzioni”, questo è «il nostro ministero». Non ci si dovrebbe mai dimenticare non solo dei confratelli da sempre «sul fronte quotidiano della donazione ai più poveri», ma anche di tutti quelli che si trovano sugli “avamposti della missione” attraverso «una testimonianza, a volte anche eroica, sebbene silenziosa». Nonostante tutto questo, i camilliani hanno il coraggio di riconoscere di non essersi ancora impegnati a sufficienza «nella tu¬tela della giustizia e nella promozione della solidarietà».
Consapevoli del cammino fatto in merito al coinvolgimento dei laici nelle loro opere, notano ancora «un sottofondo di paura e d’incertezza, addirittura di sospetto, che frena l'auspicabile collaborazione e comunione di progetti». Perché negarlo? «Una certa conversione ai laici richiederà ancora un notevole sforzo». Vanno superate tutte le motivazioni puramente funzionali e interessate. Va superato quel rapporto fin troppo consolidato tra l’Ordine (percepito come azienda e datore di lavoro) e i laici (visti come dipendenti e non come collaboratori, o, meglio ancora, come “compagni di viaggio”).
 

“Compagni di viaggio”non “dipendenti”

I laici sono importanti non perché “si ha bisogno” di loro, ma perché rientrano a pieno titolo in quella rinnovata visione di Chiesa che, per altro, è già stata pienamente recepita a livello teorico nelle costituzioni dell’Ordine.
Il pieno riconoscimento della condizione laicale, come si legge con esemplare lucidità nel testo post-capitolare, nasce dall’importanza dell’incontro di “identità diverse”, anche quando «non si è partecipi della stessa fede». Infatti, un ministero come quello svolto nel complesso e sconfinato mondo della salute, comporta necessariamente ogni giorno l’incontro con molti laici credenti e non credenti, appartenenti a molteplici categorie professionali e sociali, a diverse confessioni religiose. É proprio questo il campo in cui i camilliani si sentono chiamati ad essere “stru¬mento di unione e di collaborazione”, favorendo la pastorale della salute nella comunità cristiana, contribuendo alla formazione etica dei professionisti e cercando, insieme a loro, «una maggior giustizia e solidarietà, una più equa distri¬buzione delle risorse e, non meno importante, l'umanizzazione delle strutture e dell'assistenza».
Purtroppo le difficoltà con i laici aumentano, si legge onestamente nel documento, quando «non li conosciamo, perché li ignoriamo (una forma di ingiustizia) e non riusciamo a comprendere le loro difficoltà, quando non sappiamo affrontare le situazioni conflittuali, oppure esigiamo da loro più che dai nostri (il cui orario di lavoro non resiste alla più indulgente comparazione con il loro orario), quando non siamo sensibili o addirittura ingiusti nel campo dello stipendio e dei loro diritti, quando, per diver¬si motivi, non li teniamo per nulla presenti nel nostro progetto pastorale».
Se il carisma di un istituto è stato suscitato per essere trasmesso e quindi condiviso, per la costru¬zione del Regno, per l'edificazione della Chiesa, allora «la fedeltà va misurata non solo con l'attuazione del ministero ma anche con la compartecipazione dello stesso, non solo con la vita di comunità ma anche con la capacità di aggregare altri allo stesso progetto di vita, sempre nel rispetto delle diverse identità». Ancora nel capitolo generale di Vienna del 1971 si auspicava che le opere dell’Ordine diventassero realmente «un luogo d'incontro umano e cristia¬no». É la condizione necessaria a far sì che nelle opere «la giustizia e la solidarietà appaiano come lo "spazio vitale", in cui si vive, si respira e si lavora».
 

Piena conformazione a Cristo

Una delle maggiori preoccupazioni dei camilliani è quella di configurare la loro identità e la loro missione sul modello cristologico della carità, un modello storicamente “arricchito e abbellito”, ma, a volte, anche “sbiadito”. In questa piena conformazione a Cristo sono sintetizzati i tratti salienti dell’identità carismatica e profetica del camilliano chiamato ad essere: l’uomo dell’assoluto, esperto in umanità, alla ricerca della verità, dell’autenticità e dell’unità di vita, sensibile al male del mondo, capace di unire azione e contemplazione, in tensione salutare tra specificità carismatica e comunione ecclesiale, umile e insieme entusiasta, consapevole di essere stato scelto personalmente per essere inviato sempre a nome della sua comunità.
Una simile chiarezza d’intenti non esclude, però, la persistenza di seri e preoccupanti interrogativi: come rendere visibile e credibile la prospettiva evangelica delle proprie opere? Come coniugare la aconfessionalità tipica degli ambienti secolarizzati con le esigenze etiche e professionali di un’opera dei religiosi? Come “relativizzare” le proprie istituzioni per non soffo¬care la libertà nell'accogliere, sotto la guida dallo Spirito, la “sfida della provvisorietà”? Come allargare gli orizzonti suscitando nuove forme di presenza proprio là «dove appaiono con maggiore evidenza i bisogni più urgenti della società, il grido dei poveri e la sete di giustizia?».
La prima proposta-risposta che i camilliani pensano di poter dare a queste domande nasce dalla consapevolezza non solo di essere degli inviati di Cristo («il camilliano non inventa la mis¬sione, la riceve»), ma anche della diversità e della specificità della loro missione. É questo un elemento essenziale, senza il quale con facilità si potrebbe introdurre nella VC «un clima di smoderata modera¬zione, di facile adattamento al facile, di inerzie canonizzate, di perdita di un sano gusto dell'eccesso». Sarebbe «la morte dei profeti».
 

Iniziative di frontiera

L’Ordine «non è una ONG, né un'azienda benefattrice o una multinazionale». Vuol essere, invece, «una sorta di memoria (anche critica, cioè profetica) del luogo centrale da riconoscere ai malati e al servizio alla salute nella comunità ecclesiale». Il suo impegno, allora, si traduce necessariamente «nella promozione di iniziative coraggiose, anche di frontiera, nella sensibilizza¬zione della comunità ecclesiale nel campo della pastorale della salute, nella difesa e promozione dei diritti dei malati, dell'integrità della vita e della vita stessa particolarmente quando rischia di es¬sere soppressa prima di nascere o nel suo tramonto».
Purtroppo, molte volte il "peso" delle opere «impedisce ai con¬sacrati di vivere il senso dell'urgenza, di rispondere a delle priorità ministeriali, di avviare la tra¬sformazione dell’esistente o di intraprendere nuove iniziative». Si tratta, in fondo, di promuovere «una nuova cultura della salute, a misura d'uomo, capace di sanare gli elementi patogeni, personali e strutturali della società, specialmente nel primo mondo». Nulla come il Vangelo vissuto può diventare «la migliore sorgente della salute voluta da Cristo e consegnata alla Chiesa come dono e come missione». Solo in questo modo i camilliani sapranno realmente incarnare «la profezia della nuova salute per un mondo assettato e affamato di pienezza».