Davanti alle crisi che attraversano la storia e la vita di ciascuno, soprattutto nei momenti più cruciali, sale spontaneo dal profondo del nostro essere l’interrogativo che troviamo nel salmo 77, 10: «Può Dio aver dimenticato la misericordia”? La domanda diventa particolarmente lacerante se consideriamo, per esempio, la crisi di vocazioni di cui soffre oggi la vita consacrata, soprattutto nel nostro mondo occidentale: scarsità di nuove vocazioni, la loro fragilità, un elevato numero di abbandoni, il preoccupante invecchiamento, il progressivo ritiro dalle attività…
L’interrogativo è stato posto al centro dell’incontro della Giornata della vita consacrata che si è tenuta in Svizzera, a Berna, il 17 settembre scorso. La riflessione era stata affidata al padre cappuccino Paolo Martinelli, il quale l’ha sviluppata sotto il profilo strettamente scritturistico, in conformità, del resto, con il tema indicato, Vocazione e crisi di vocazioni dal punto di vista biblico. È un tema, ha affermato, che saremmo tentati di formulare in questa maniera: “Dio, può averci dimenticato, sembra aver dirottato altrove la sua benedizione e la sua grazia”, tenendo presente che alla crisi di vocazioni in occidente fa da contrappeso la fioritura di vocazioni in altre parti del mondo, per esempio in Africa e in Asia.
Ma questa ultima costatazione non basta a tranquillizzarci. Tanto più che l’espansione della vita religiosa nelle aree del sud del mondo e la loro ricaduta in occidente non è priva di interrogativi, sia di natura sociologica sia teologica spirituale.
Inoltre la prospettiva che ci sta dinanzi indica che si troviamo davanti a un a crisi globale: «Con tutta probabilità, osserva Martinelli,nei prossimi dieci, quindici anni, come ci avvertono i sociologi della vita religiosa1 saremo protagonisti di uno straordinario cambiamento a livello planetario. Del resto questo cambiamento non riguarda solo gli istituti di vita consacrata, nemmeno unicamente la Chiesa; si tratta di un fenomeno globale.
Si può del resto osservare che nella storia della vita religiosa è di per sé un fenomeno normale l’avvicendarsi di ordini e congregazioni attraverso nuove fondazioni e movimenti di riforma. Ma, osserva Martinelli, «credo di non dire una cosa nuova se affermo che in Europa, pur considerando le significative nuove forme di vita consacrata, la maggior parte degli sforzi messi in atto non sembrano aver dato i risultati sperati. Il tema dominante appare spesso, anche contro voglia, quello del “ridimensionamento”: come gestire le opere dell’istituto con un numero sempre minore di consacrati? Quali case chiudere? Come fondere insieme diverse province? Tutte domande necessarie, ma certo non entusiasmanti!
Ci sono certamente realtà di vita consacrata che stanno vivendo in modo positivo questo profondo momento di trasformazione, seppur doloroso, con cuore e mente aperti, tornando all’essenziale e cooperando con nuove realtà ecclesiali.
Altri invece si sentono un po’ stanchi e delusi. Qualcuno ha persino detto: “le abbiamo provate tutte… ora lasciateci morire in pace”».
Ecco allora di nuovo l’interrogativo posto all’inizio: «Il Signore ha davvero dimenticato di essere benevolo con noi? Ci ha, per così dire, abbandonato per dare la sua grazia ad altri popoli?».

Dio non ci ha dimenticati né abbandonati

Partendo di qui, Martinelli ha tracciato un lungo quadro biblico, sottolineando come sia necessario riconoscere l’iniziativa di Dio che sta all’origine e al centro di tutta la storia della salvezza e che la nostra chiamata ad esistere è posta all’interno di un disegno divino che ci vede chiamati a essere figli e figlie nell’unigenito figlio di Dio. Tutto questo è molto importante perché la domanda implorante circa l’essere dimenticati e abbandonati da Dio, espressa nel salmo 77, ha la sua acutezza proprio in riferimento al riconoscimento dell’essere stati voluti e amati dal Signore.
Percorrendo i salmi, troviamo una quantità di espressioni in cui affiora il sentimento di essere dimenticati da Dio. Per esempio, nel salmo 22 leggiamo l’invocazione piena d’angoscia fatta propria anche da Gesù sulla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Oppure nel Salmo 44: “Tutto questo ci è accaduto e non ti avevamo dimenticato,non avevamo rinnegato la tua alleanza… Svégliati! Perché dormi, Signore? Déstati, non respingerci per sempre!” (44, 18. 24).
Ma ecco l’assicurazione: “Confidino in te quanti conoscono il tuo nome, perché tu non abbandoni chi ti cerca, Signore” (Sal 9,11); .
L’interrogativo diventa più lacerante nel caso del male innocente – si pensi per esempio al racconto di Giobbe – davanti al quale la risposta si trova nella imperscrutabilità del disegno divino (cf. Gb 38-42,6).
Oltre ai salmi, anche i profeti in varie parti annunciano, da una parte, che il peccato non costituisce l’ultima parola della storia, e che Dio non verrà mai meno alla fedeltà al suo amore, nonostante l’infedeltà di colui che è chiamato. La fedeltà di Dio è collegata qui con il tema dell’alleanza. Pensiamo per esempio alla struggente preghiera di Geremia (c. 14) o alla testimonianza vibrante di Osea 11.
In Geremia leggiamo: “Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d'Israele e con la casa di Giuda concluderò un'alleanza nuova. Non sarà come l'alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d'Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore. Questa sarà l'alleanza che concluderò con la casa d'Israele dopo quei giorni - oracolo del Signore –: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo” (Ger 31, 31-33).
E nel profeta Osea: “Come potrei abbandonarti, Èfraim, come consegnarti ad altri, Israele?... Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. 9Non darò sfogo all'ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Èfraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò da te nella mia ira” (Os. 11,8-9)

La certezza dell’amore di Dio

Lo sguardo va ora alla nuova alleanza in cui è espressa la definitività della elezione e della chiamata nell’evento di Cristo. Sottolinea Martinelli: «La risurrezione di Cristo nella sua carne, segnata dai chiodi della croce, è l’icona definitiva della certezza circa l’amore di Dio per noi e la possibilità che il desiderio dell’uomo di essere amato e di amore per sempre sia compiuto». Come ha scritto Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est: «Nella sua morte in croce si compie quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale Egli si dona per rialzare l'uomo e salvarlo — amore, questo, nella sua forma più radicale. Lo sguardo rivolto al fianco squarciato di Cristo, di cui parla Giovanni (cfr 19, 37), comprende ciò che è stato il punto di partenza di questa Lettera enciclica: « Dio è amore » (1 Gv 4, 8). È lì che questa verità può essere contemplata. E partendo da lì deve ora definirsi che cosa sia l'amore. A partire da questo sguardo il cristiano trova la strada del suo vivere e del suo amare.
In tempi recenti sono state date diverse interpretazioni alla crisi vocazionale cercando di leggerla in termini di partecipazione alla croce di Cristo e più radicalmente ancora come partecipazione alla sua kenosi-annullamento. Secondo questo modo di vedere, osserva Martinelli, il futuro della vita religiosa starebbe nell’accettare questo annientamento kenotico. Ma, osserva, «non credo che rispetti il dato biblico e la tradizione teologica della Chiesa l’idea di una kenosi interpretata in termini di dissoluzione, una visione assai debole di tale mistero cristiano, letto e compreso separatamente dal mistero luminoso della risurrezione. Significativamente il documento Vita Consecrata afferma: L’uso della kenosi e della croce per giustificare un’autoeliminazione della vita consacrata o forse dello stesso cristianesimo dalla scena della società occidentale mi sembra più vicino ai desideri del moderno laicismo nichilista che al dato biblico e alla rivelazione cristiana.
I Padri della Chiesa non vedevano nella kenosi un Dio debole; al contrario vedevano in essa l’espressione più acuta del suo amore onnipotente15. È propria di Dio la capacità di esprimersi compiutamente nel suo amore e nella sua verità mediante la fragilità della condizione umana. La forma kenotica della verità di Dio non è segno della sua debolezza ma forma espressiva del suo amore forte che si offre alla libertà dell’uomo di ogni tempo».

Un confronto serrato con la modernità


Come stare allora di fronte alla nostra attuale condizione? Non certo con rassegnazione. Al contrario, «vivendo un confronto serrato con la modernità, che eviti sia la fuga attraverso un impossibile ritorno nostalgico al passato, sia l’adeguarsi acriticamente ai nuovi modelli del relativismo, saremo in grado, come dice l’Apostolo Paolo, di vagliare ogni cosa e trattenere ciò che vale » (1Ts 5,21).
Molti studiosi affermano che l’essenza del processo della modernità sta nell’affermazione dell’uomo come libertà, sciolto da ogni forma di tutela, nella piena autonomia di sé e di progettare se stessi. La vocazione è pertanto vista come una rinuncia a essere liberi nel senso che se è una chiamata di Dio si rischia di perdere la propria libertà. È come una specie di necessità.
Evidentemente, in questa concezione c’è la mancanza di percezione di ciò che è la vocazione. La vocazione non è la conseguenza di un semplice impulso di generosità come avviene in un’opera di volontariato in un ospedale o in una mensa per i poveri. Se manca la consapevolezza che essa è una chiamata che viene da Dio, allora, sottolinea Martinelli, «nulla vieta di lasciare la vita religiosa in vista di una prospettiva migliore o più piacevole. Ciò che viene meno è proprio la realtà della vita come vocazione, senza la quale anche le decisioni vocazionali rimangono strutturalmente fragili e ultimamente sempre revocabili».

Il rapporto tra vocazione e libertà

Il nodo da scogliere sta nel rapporto tra vocazione e libertà, nella risposta a questi interrogativi: come posso essere veramente libero se la mia vita sta sotto la chiamata di Dio? Non rischio di perdere la mia libertà nel momento in cui aderisco alla vocazione? La vocazione è una possibilità o una necessità per la mia vita di fronte a Dio? Se è una necessità, sono io veramente libero di fronte ad essa?
Occorre pertanto, sottolinea Martinelli, accettare la sfida nel campo della libertà. «Credo. osserva, che tutti possiamo constatare che non c’è ripresa reale nei nostri istituti se ci chiudiamo nel passato, per esempio tornando a sentire la parola “libertà” come una parola pericolosa per la nostra vita di consacrazione, unicamente irrigidendo la disciplina conventuale. Tuttavia ci accorgiamo che nemmeno l’adeguarsi acritico alla mentalità del momento ci permette di rilanciare la nostra forma di vita».
In realtà solo la risposta a una chiamata di Dio apre all’uomo gli orizzonti della vera libertà, come ha detto Gesù: “Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi". (Gv 8,32) e come ribadisce anche Paolo: “Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà” (Gal 5,13).
La libertà che ci è promessa in Cristo è essenzialmente una libertà filiale, la libertà dei figli di Dio: “Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio.” (Gal 4,7), afferma l’apostolo Paolo. E questo è possibile perché la verità, cui la libertà aderisce, non è un concetto astratto – come viene intesa solitamente - che cade come macigno pesante sulla nostra autonomia e sui nostri desideri, ma è una persona, è l’incontro con la Persona di Cristo che ha dato se stesso per la nostra libertà.
Sta proprio qui la sfida all’obiezione che viene dalla modernità. Il cuore della libertà umana non è unicamente l’autonomia, ma il compimento, la realizzazione di sé secondo tutta la statura del proprio desiderio. La libertà e la felicità diventano qui inseparabili. Pertanto, conclude Martinelli, «la vita consacrata è veramente se stessa quando testimonia questa libertà di cercare Dio in ogni cosa e sopra ogni cosa e quando testimonia il desiderio ultimo dell’uomo che è ultimamente desiderio di essere amati ed amare per sempre, oltre la morte. Già il grande san Bernardo di Chiaravalle diceva che la liberazione dell’uomo sta nel passare dalla dispersione dei desideri al desiderio infinito di Dio».
«In un tale servizio di testimonianza, la vita religiosa appare anche particolarmente abilitata a incontrare ogni uomo realmente desideroso di felicità e dunque realmente religioso. Non credo che la vita consacrata in occidente riuscirà ad affrontare la crisi vocazionale se sentirà la libertà solo come un pericolo da evitare o se si omologherà al pensiero comune della nostra società dei consumi secolarizzata. La vera risposta avviene là dove abbiamo il coraggio di riscoprire che la nostra è una chiamata alla libertà perché la libertà è nella sua essenza desiderio di senso ultimo che solo in Dio può trovare vero appagamento, come magistralmente afferma sant’Agostino: ci hai fatti per te e il nostro cuore è in questo fin quando non riposa in te. La vita religiosa diviene così una passione perché ogni uomo sia veramente se stesso».
Possiamo allora domandarci quali cose sia meglio sottolineare per poter vivere in letizia il momento attuale. «È essenziale, osserva Martinelli, che la persona riscopra il fascino e la bellezza della sua vita come vocazione. Occorre educarci a vivere la vita come vocazione imparando a vivere ogni circostanza della vita, i piccoli e i grandi avvenimenti di ogni giorno, come circostanza vocazionale, ossia come trama di rapporti e di eventi in cui il mistero di Dio ci raggiunge, ci chiama ad uscire da noi stessi, ci attrae verso il vero, il bene e il bello, provocando così la libertà a prendere posizione nella vita. La vita come vocazione si impara vivendo giorno dopo giorno la realtà non come “idolo” ma come “segno” di Dio.
Non sperimentiamo la chiamata di Dio se rimaniamo chiusi e isolati nei nostri pensieri a volte malinconici, ma se ci lasciamo toccare quotidianamente dalla realtà che ci circonda. Sono i fatti, gli avvenimenti, gli incontri a decidere il volto vocazionale della nostra vita e non spiritualità astratte. La vocazione è un evento che cambia la vita; non una intenzione privata… ricordiamoci delle parole del Signore: “Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli" (Lc 10,20). Non siamo chiamati ad essere contenti per quello che possiamo fare o non fare, ma innanzitutto per la nostra vocazione. Siamo stati chiamati per nome e i nostri nomi sono scritti nel cielo. Essere chiamati a seguire Cristo casto, povero e obbediente vuol dire essere chiamati alla testimonianza nel mondo che l’incontro con Cristo compie la sete di libertà di ogni uomo. Siamo chiamati a essere testimoni del fatto che Gesù Cristo è colui per il quale vale la pena vivere e morire…. Auguriamoci di essere ciò che ha affermato un teologo svizzero, von Balthasar, a proposito del senso e dell’importanza della vocazione alla vita consacrata nella Chiesa e nel mondo: “la presenza di uomini totalmente presi e consacrati a Cristo non è solo auspicabile, ma anche necessaria per la Chiesa, necessaria nell’essere stesso dei consacrati più che nella loro attività ministeriale o di altro genere… La vita dei consigli resterà fino alla fine del mondo la custode della totalità del Vangelo”». «Non c’è libertà più grande che seguire Cristo, conclude Martinelli. O, come ha detto Benedetto XVI nel discorso del 24 aprile 2005. «Non c’è niente di più bello che conoscere lui e donare l’amicizia con lui agli altri».