La speranza di molti, salutando la bella e difficile città di Reggio Calabria, è che con la 46ª Settimana sociale (14-17 ottobre 2010) si sia scritta una pagina dell’impegno educativo assunto dalla Chiesa italiana come asse del prossimo decennio. Si deve uscire dalla mera riproposizione difensiva dei valori cristiani, per rispondere all’invito “rischioso” del papa e del presidente della Cei per una nuova generazione di cattolici impegnati in politica. Urgono persone «interiormente rinnovate che si impegnino nell’attività politica senza complessi d’inferiorità… si tratta di spendersi nella formazione di coscienze cristiane mature, cioè aliene dall’egoismo, dalla cupidigia dei beni e dalla bramosia di carriera e, invece, coerenti con la fede professata, conoscitrici delle dinamiche culturali e sociali di questo tempo e capaci di assumere responsabilità pubbliche con competenza professionale e spirito di servizio» (Messaggio di Benedetto XVI).
Memori della scarsa incidenza, nel dibattito politico e sulla stampa, delle precedenti Settimane Sociali, come pure delle scarse di ricadute delle riflessioni in parrocchie e gruppi ecclesiali, il Comitato organizzatore ha lavorato in modo nuovo, sia nella fase preparatoria che in quella di convegno. Così si sono diffuse in anticipo ricche riflessioni provenienti da realtà ecclesiali, sindacali e politiche: pluralità di prospettive riemerse nei cinque laboratori animati da 1.200 delegati (di 184 diocesi), nei quali – ci è stato riferito… i giornalisti non hanno potuto accedervi per scelta degli organizzatori, preoccupati di evitare pressioni e/o letture distorte di singoli interventi o prese di posizione! – si è dialogato tra le diverse espressioni del cattolicesimo italiano .

La politica nell’era della sfiducia

Si è confermato nei lavori quello “spaesamento” conseguente alla perdita di senso della politica di cui ha parlato il rettore dell’Università Cattolica, prof. Ornaghi (relazione Lo stato dell’Italia: il presente che c’è, il futuro che ancora possiamo costruire). Egli ha fatto notare come si stia allargando la “contro-democrazia” (citando il libro di Rosanvallon, La politica nell’era della sfiducia), con una politica che produce oligarchie mentre cresce la tendenza alla personalizzazione populistica della leadership di vertice. Occorre superare il deficit di rappresentatività politica in un quadro di pericolosa divaricazione tra nord e sud d’Italia. Oggi, conclusa la fase seguita alla disgregazione della Democrazia Cristiana e alla contaminazione dei suoi frammenti nella geografia partitica, si avverte l’esigenza di curare/collegare le ‘aree’ dove c’è il bisogno di risposta pubblica alla necessità di sentirsi rappresentati e uniti ad altri, di preparare la classe dirigente del domani alle competenze indispensabili per la politica. Non è sforzo fecondo, insomma, quello di creare una nuova realtà politico-partitica cattolica: «essa, ha detto Ornaghi, diventerebbe una mera ‘parte’ fra la pluralità delle parti, destinata, più che a “contare”, a essere contata».
Servono piuttosto convergenze sui grandi temi, come i 5 ambiti di lavoro dell’Agenda di speranza per il futuro del Paese, su quali si sono suddivisi i partecipanti, che hanno così potuto dare tempi all’ascolto reciproco. Nella sessione dedicata al lavoro e all’impresa si è udita una forte denuncia sulla troppa evasione fiscale insieme alla richiesta di incentivi per famiglie ed educazione dei figli. Il dibattito si è concentrato su alcuni “antagonismi” dolorosi: giovani e anziani, nord-sud, lavoratori garantiti e precari.
Dall’assemblea sull’educazione è venuto fuori un identikit dell’educatore: persona solida, credibile, autorevole, figura di riferimento sia per i ragazzi, sia per gli altri adulti. Auspicabili percorsi di sostegno alla genitorialità; importante il recupero della funzione pubblica della scuola (statale e paritaria) che deve però essere luogo di inclusione e di crescita partecipata.
Nella sessione sul tema dell’immigrazione si è sottolineato che paura dello straniero, rifiuto e pregiudizi non possono trovare casa nella comunità ecclesiale. Il riconoscimento della dignità della vita del migrante è infatti esplicita declinazione di un valore non negoziabile. Necessario il cambiamento della legge sulla cittadinanza (oltre 600mila minori stranieri sono nati in Italia). Chiesti percorsi per l’esercizio della cittadinanza (es. il diritto di voto almeno alle elezioni amministrative) e l’organizzazione dell’attuale ‘seconda fase’ del fenomeno (nel segno della legalità e della lotta alla criminalità che utilizza le presenze straniere).
Nell’area della mobilità sociale si detto di rompere la spirale negativa che combina rallentamento della crescita economica e aumento delle disuguaglianze. L’università è luogo decisivo per favorire la mobilità sociale: va ripensata a partire dal sistema-paese, diminuendo la distanza tra studio e lavoro. Si sleghi il mercato e si trovino forme per accedere con più facilità al credito.
Infine, sul tema del completamento della transizione istituzionale, si è auspicata una “democrazia governante” che torni a dare all’elettore un reale potere di scelta, di indirizzo e controllo sull’eletto. Chieste modifiche su temi politico-istituzionali: limitazione del numero dei mandati, ineleggibilità di chi ha problemi con la giustizia, più gratuità nell’impegno politico. L’assemblea non ha taciuto i rischi del federalismo (il più grande processo di razionalizzazione del sistema di finanza pubblica degli ultimi 30 anni): va data forza delle autonomie locali con un percorso ad alto tasso di solidarietà e una forte lotta agli sprechi. Con un tale federalismo è possibile comporre la frattura che incombe sull’intero paese e che condizionerà anche le forme che assumeranno i partiti.

Le radici e i frutti per servire la vita

A questo punto evidenziamo un rischio sull’uso dell’insegnamento sociale della Chiesa, che traiamo da un dialogo con mons. Bregantini (membro del Comitato organizzatore delle Settimane): «Il rischio è che la divisione dei valori in “negoziabili, non negoziabili, consequenziali” non sia ben collegata, perché allora avviene che le radici sono belle ma i frutti non manifestano questa forza interiore. Questa è la grande esperienza negativa che si rischia di vedere. Se invece mantengo intatta la forza della radice e la dolcezza del frutto, anche i valori “consequenziali” come lavoro, pace, solidarietà, mondo sindacale e testimonianza nella politica si manifesteranno. I grandi valori (vita, famiglia, libertà religiosa, libertà educativa) sono inscindibili, ma anche gli altri non sono meno importanti: altrimenti è come dire che l’albero è bello perché belle sono le radici: ma le radici non si vedono! In altre parole: non ci sono i frutti».
«Quindi è molto importante, ha proseguito il vescovo, che anche culturalmente e spiritualmente la battaglia sia unica; i fronti sono distribuiti ma non sono “più fronti”: c’è l’unico fronte della “dimensione della vita” portata sino in fondo, consequenzialmente ridistribuita a seconda delle situazioni logistiche in cui siamo. Il grande rischio che abbiamo in questo momento è proprio quello di avere cattolici dei valori non negoziabili, da una parte, e cattolici dei valori negoziabili, dall’altra. Certo occorre lavorare molto sulla mediazione attuativa, ma questo non vale solo per i valori consequenziali, ma per tutti i valori».
Ci sembra un appello che richiede un preciso investimento: dare più voce e autorevolezza ai laici cristiani, a partire dalle 25mila parrocchie sul territorio. Il servizio del Magistero e la libertà responsabile dei credenti impegnati nell’animazione delle realtà temporali devono sostenersi reciprocamente e crescere insieme, non ignorando l’apporto che viene anche dai non credenti che cercano il bene comune. I laici credenti, sale e luce nella storia del paese, devono sentirsi a pieno titolo attori del bene comune, al servizio di quella laicità positiva che, secondo il presidente Cei card. Bagnasco, «non può essere confusa né con la neutralità né con il laicismo».
Un esempio di questa lettura laica e liberante è stata la relazione finale del prof. Savagnone, che ha riflettuto sul recente documento Per un paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno. Un documento scomodo: “spiazza” infatti che la Chiesa si occupi, oltre che dei problemi connessi alla sfera etica (aborto, fecondazione assistita, eutanasia) e della famiglia (es. il problema dei Dico) – in cui sarebbero ravvisabili in modo esclusivo i “valori non negoziabili” – , anche di quelli relativi agli assetti sociali e politici. Alla Chiesa sta a cuore non solo la vita nel momento del suo concepimento o in quello terminale, ma anche ciò che sta in mezzo: anche la solidarietà è un valore non negoziabile, come lo è la sorte di tutti i deboli e gli esclusi.
Così, affrontare la questione meridionale diventa un modo per dire una parola incisiva sull’Italia di oggi. Perciò Savagnone ha parlato dello scandalo di un territorio in cui ci sono i martiri e le denunce che «spesso sono rimaste al “piano nobile”. C’è un “piano terra” – quello della pastorale ordinaria, della vita e dei problemi quotidiani delle parrocchie, dei gruppi, delle confraternite – dove ci sono le chiusure prodotte da inerzie e stanchezze, da una prassi pastorale ripetitiva e dove le cose non cambiano neppure dopo un bel documento o una grande convegno ecclesiale». C’è un modo di annunciare il Vangelo che lo tradisce, isolandolo dalla realtà umana. La cultura della mafia e del degrado può essere sconfitta solo se si segue Cristo sulla via dell’incarnazione e della croce. «Perciò il sud non ha tanto bisogno di “preti anti-mafia” – ha detto il relatore scaldando la platea – quanto di presbiteri come don Pino Puglisi, che non lo fu mai, perché scelse di essere fino in fondo solo un sacerdote».
Questo significa che le chiese del sud sono chiamate a dare l’esempio a quelle del nord con un vero progetto educativo. «Troppe volte ancora la nostra pastorale è affetta da una schizofrenia che da un lato neutralizza la valenza laica dei fedeli quando si trovano all’interno del tempio e assegna loro esclusivamente un ruolo di vice-preti (accoliti, lettori, ministri straordinari della comunione, catechisti), ignorando la loro dimensione professionale, familiare, politica; dall’altro, proprio per questo, li abbandona, fuori delle mura del tempio, a una logica puramente secolaristica, per cui essi alimentano la loro cultura non attingendo al Vangelo e alla dottrina sociale della Chiesa, ma ai grandi quotidiani laicisti e alla televisione, comportandosi nella vita priva e pubblica di conseguenza. È su questa radice perversa che fiorisce la mala pianta di una criminalità mafiosa che spesso osa rifarsi a simboli e temi religiosi, pretendendo di aver un posto di rilievo nell’organizzazione di feste patronali processioni religiose, mentre nella vita secolare perpetra omicidi e prevaricazioni di ogni genere».
Se è vero, come ha detto il sociologo Diotallevi all’inizio dei lavori, che «la posta in gioco è l’Italia», si avvii una formazione permanente per insegnare a cercare Cristo per le strade e le piazze, in ufficio e in officina. Parrocchie e comunità (anche quelle di religiose/i!) escano dalla loro debolezza culturale, portando dentro la vita di fuori per vagliarla alla luce del Vangelo ed elaborando nuove prospettive e nuovi messaggi; con una fede senza riduzionismi o schizofrenie, rispettosa di tutte le differenze (cf. Conclusioni mons. Miglio, presid. Comitato organizzatore).