Un testimone innamorato di Cristo: è
l’apostolo Paolo che ha ispirato questo vibrante libretto (neanche cento pagine)
al biblista dehoniano Roberto Mela.
Si capisce che chi scrive, a contatto col genio di Tarso, ha capito cosa
significa abbeverarsi a Cristo fonte di una vita libera. Con la passione di
attento studioso del grande apostolo, vuole continuare a offrire
quest’opportunità anche ad altri. Lo dice nella Prefazione: ciò che l’ha fatto
innamorare di Paolo è il fatto di aver scoperto in lui un testimone più che un
maestro di teologia.
Le riflessioni di Mela, raccolte dalla rivista trentina Presbyteri, intendono
costituire «quasi una piccola biografia spirituale» di Paolo. Con un linguaggio
semplice e insieme affascinante si parte con la descrizione dell’evento di
Damasco, l’esperienza dell’illuminazione del ‘nemico della Chiesa’ che
sperimenta una vera e propria morte e risurrezione (pp. 13 e ss.): Dio Padre gli
rivela che solo nel suo Figlio c’è il dono definitivo del grande donatore.
Non una legge, ma una persona che lo chiama a orizzonti universali. Da quel
momento urge nel cuore di Saulo-Paolo la missione ad gentes, il carisma e il
percorso secondo il quale sarà immedesimato al Signore crocifisso e risorto.
Un dono che unifica la vita
Il nostro A. presenta innanzitutto con grande chiarezza il senso profondo della
“svolta” di Paolo a Damasco. Egli usa concetti evangelizzanti quali:
ribaltamento dei criteri di valutazione, riassestamento di posizioni, reset del
patrimonio di pensiero e di azione. Per il fariseo Saulo non si tratta insomma
di una conversione morale (da cattivo a buono) e neppure di una pacificazione
interiore (lotta contro l’incapacità di osservare la Torah), ma dell’accoglienza
di un dono che gli offre l’unità della sua vita.
Il dono è «una persona che lo decentra da sé, dalle sue preoccupazioni (per
alcuni “ossessive”) per l’osservanza di una norma, per incentrarlo su Gesù che
lo ha “afferrato”, “impugnato”. Gesù offre a Paolo un’unità di vita fondata
fuori di sé, nel dono di sé a uno che l’ha amato e ha consegnato se stesso per
lui».
Unità di vita che promuove un’esistenza filiale e felice. Paolo così ha puntato
tutto per guadagnare Cristo: si è lasciato “impugnare”, «afferrare totalmente
dall’alto verso il basso, come una spada, uno strumento nelle mani di uno più
forte di lui». Vive «una grazia fatta persona, che conquista col paradosso di un
amore che offre se stesso in cambio della violenza, del peccato, di un cuore
incirconciso e sordo allo Spirito».
Tutto per la Buona notizia
Un secondo grande filone che ci sembra emergere dalle riflessioni dell’A. è dato
dalla coscienza di Paolo sul fatto che il vangelo non proviene dagli uomini, non
è strutturato sui loro desideri. Esso non si appiattisce infatti sul nostro
orizzonte mentale e affettivo, non dice quello che vorremmo sentirci dire. Da
servitore di Cristo l’apostolo «annuncia non un’ideologia o le lusinghe di una
facile “autorealizzazione” supportata da alcune pratiche religiose, ma una
persona, Gesù Cristo, che fa corpo unico col messaggio proclamato».
Messo in salvo il principio che la giustificazione è ottenuta dall’uomo solo con
la fede in Cristo morto e risorto per lui, Paolo evangelizza in tutti gli
ambienti «con un atteggiamento da “schiavo”, completamente spossessato di sé e
della salvaguardia del proprio io, per servire ogni uomo, a qualsiasi condizione
sociale, religiosa, etnica o culturale egli appartenga». Nelle città egli cerca
il rapporto personale: annuncia il suo vangelo perché le persone non vendano
l’anima a qualcosa che le spersonalizza o le fa sentire soddisfatte per alcune
opere religiose che restano esterne al cuore, ancora schiave di potenze da
tenere buone con un rapporto commerciale di do ut des.
Senza logiche da battitore libero e neppure da “funzionario di Dio”, Paolo vive
un’evangelizzazione per contagio con l’intento del primo annuncio, non tanto
dell’edificazione completa delle comunità tramite la catechesi prolungata e la
celebrazione cadenzata dei santi misteri. L’annuncio del vangelo è per lui un
generare con la Parola che suscita la fede in Cristo Gesù. L’apostolo non si
vergogna della Buona Notizia che comprende anche la Croce. Non si vergogna
dunque «del modo in cui Dio ha pensato a “giustificare” l’uomo, a riportarlo
cioè a un buon rapporto di alleanza con sé, a una profondità che però tocchi e
trasformi il cuore stesso, rendendo gli umani non solo alleati, ma figli nel
Figlio». L’incarnazione e la pasqua del Figlio non sono infatti funzionali a una
nostra perfetta osservanza della Legge, ma per renderci figli. Questo avviene
col dono dello Spirito, che grida la nostra libertà. Infatti «abbiamo bisogno di
essere guariti nel profondo, perché lo spirito di ossequio servile è sempre in
agguato nella nostra vita spirituale, per intristirci col mostrare spietatamente
l’imponenza delle nostre incoerenze, fragilità e meschinità che tolgono il fiato
e fanno abbassare il collo allo schiavo».
Troviamo qui un ultimo filo rosso che vogliamo indicare nella trama della
spiritualità paolina descritta da Mela: il Risorto ci vuole liberare dalle
passioni e dai vizi schiavizzanti che la “carne” (il principio dinamico
dell’egoismo e del narcisismo che domina colui che non è guidato dal principio
dinamico dello Spirito) fa germogliare nella persona da essa dominato. Se ci si
lascia guidare dallo Spirito invece si produce in noi il suo frutto, che ci
unifica e libera in quanto a personalità. E Paolo per primo testimonia questa
sua libertà, soprattutto quando è in catene per il vangelo! È nella gioia pur in
prigione, perché il suo cuore è libero dai propri successi e visioni teologiche
o organizzative.
Strumento utile per percorsi sulle orme dell’apostolo, per itinerari di
riscoperta della fede, per esercizi spirituali. Paolo non è una lettura, è
un’avventura, una corsa verso l’abbraccio dell’Amato.