Durante i focus group attivati nel corso di una sessione di formazione
permanente, con dei sacerdoti religiosi che avevano appena terminato una intensa
esperienza di missione pastorale, era circolata più volte la domanda: “chi sono
io?”. Immersi nelle tante cose fatte e ancora da fare, l’interrogativo sulla
propria identità, sull’essere se stessi, sul ritrovare le proprie radici di
appartenenza, tornava a riemergere come tema comune, come matrice
intersoggettiva dove un po’ tutti si riconoscevano. In che modo il fare è
espressione dell’essere di ciascuno? Il gruppo insomma aveva bisogno di
riscoprire il cammino di formazione della propria identità, proprio nel momento
in cui tutti si sentivano particolarmente coinvolti in un servizio pastorale che
li aveva visti attivi nella pastorale.
Ma cosa è in fondo l’identità della persona? In che modo sappiamo chi siamo
veramente, quando siamo presi fino al collo, come succede spesso a tutti quelli
che, nei diversi campi di azione della propria congregazione religiosa, sono
coinvolti per evangelizzare e testimoniare il Vangelo?
Secondo Galimberti, l’identità rappresenta il «senso del proprio essere continuo
attraverso il tempo e distinto, come entità, da tutte le altre» . In altri
termini, l’identità è continuità, è perseveranza, è costanza nel dare forma a se
stessi; ma è anche identificazione di una struttura interiore di base, senza la
quale non è possibile modellarsi ulteriormente.
«Due elementi, quindi: continuità e solidarietà (o riferimento valoriale). Il
primo risulta prevalentemente dalla retta gestione dell’io attuale e il secondo
dall’io ideale. Quando sono in armonia con me stesso ho fiducia nella mia
continuità; quando ho dei precisi valori di riferimento, lasciando che siano
essi a definirmi, ho la solidarietà» .
Proprio mentre si parlava di questo duplice aspetto dell’identità di ciascuno in
rapporto agli ideali vocazionali, uno dei partecipanti è intervenuto con alcune
osservazioni che hanno stimolato tutto il gruppo .
Padre Paolo: “Insomma, sembra un po’ paradossale: l’identità è qualcosa che c’è,
perché io sono fatto così, ho il mio carattere, la mia storia, il mio modo di
fare pastorale, la mia fede; e allo stesso tempo è qualcosa che sarà, che
diventerà man mano che scorre il tempo”.
Facilitatore del focus group: “Esatto, sono proprio queste due cose”.
Padre Paolo: “Ma come fanno a stare insieme?”.
Facilitatore: “Riflettere e valutare come ciascuno integra questi due aspetti, è
il lavoro di formazione che state facendo, perché qui ve lo chiedete come
gruppo: siete persone diverse, ma partecipate allo stesso “bene comune”, avete
le radici nello stesso carisma. So che è difficile capirlo razionalmente, forse
è più facile viverlo… Te lo posso spiegare con le parole di un famoso teologo
induista, prete cattolico”.
Così dicendo prende un giornale che aveva lì vicino, lo apre e legge: «Ognuno di
noi, nella propria individualità, è una goccia d’acqua. Cosa capita a questa
goccia d’acqua quando, secondo una tradizione che è transculturale, cade nel
mare e sparisce come goccia? Dipende da che cosa è: la goccia d’acqua o l’acqua
della goccia? La goccia d’acqua sparisce, ma all’acqua della goccia non succede
niente. Si unisce a tutto il mare, a tutto il divino, ma non perde la sua vera
natura» .
Sentire il bisogno di armonizzare il fare con l’essere, la pluralità del fluire
quotidiano con ciò che rappresenta il Centro di sé radicato su una comune
identità di fede, è parte del cammino formativo di ogni consacrato e di ogni
consacrata. Sapendo che in tale armonia risiede il senso della propria vita e
della propria esperienza vocazionale, ma anche il fulcro delle proprie
esperienze psichiche passate e future. Insomma, integrare questi due aspetti è
la scommessa che ciascuno fa con sé e con Dio, non solo per sentirsi adeguato e
star bene con se stesso, ma anche per dare un significato a questo suo benessere
in una prospettiva vocazionale e di senso per la propria vita.
Scoprire il dono della propria identità
A chi non è capitato di avere un momento nella propria vita in cui ha avuto la
sensazione di non sapere più chi fosse. Rispondere alla domanda “chi sono io?” è
un compito che accompagna l’intera crescita e l’intera maturazione della
persona. La risposta a questo interrogativo traduce un’esperienza di
autoconoscenza, che cresce e matura a seconda dei diversi rapporti che ognuno
instaura.
Essere persona ed essere se stessi, è un compito che coinvolge ogni individuo,
ogni soggetto che cresce e si sviluppa con l’obiettivo di raggiungere delle mete
che non riguardano solo la sua finitudine ma che sono aperte al Trascendente.
Anche per un consacrato o una consacrata, conoscersi nella struttura più
profonda e più intima di sé vuol dire conoscere il perché delle proprie scelte,
il perché della propria affezione a Dio e alla sua missione. «Si può comprendere
l'identità della persona consacrata a partire dalla totalità della sua offerta»
(VC 17), e quindi a partire dalla totalità del dono della sua vita.
Ogni persona è artefice delle proprie scelte di vita perché è capace di
assumersi le proprie responsabilità. Con questa ottica, ognuno ha in sé un
potenziale che costituisce la sua unicità che, nello sviluppo, ha la possibilità
di esprimere pienamente.
Il concetto di Sé, però, con il quale intendiamo sottolineare l’unicità
dell’individuo, acquista senso solo nel rapporto con un’alterità che lo delimiti
e lo separi da un non-Sé. È difficile definirsi nella propria identità, se tale
definizione non è integrata con “io sono in relazione agli altri”.
“Insomma, dice Padre Jaimes, se ho ben capito l’identità di ognuno si costruisce
e si rafforza solo all’interno di un rapporto, con la gente e tra di noi, nella
nostra congregazione”. Certo, la relazione assume un ruolo centrale nella
formazione e nel funzionamento della struttura psichica dell’individuo e nella
chiarezza dell’ideale comune. Non possiamo dissociare l’individuo e la sua
storia dalle relazioni comunitarie, perché se è staccato dal rapporto, la sua
diventa un’identità malata, disturbata, diffusa, frammentata. “Ciascuno per
conto proprio, dice ancora Padre Jaimes, ridendo”. “Esatto, incalza, Padre
Paolo, e questo ci corrode, ci stressa, e alla fine siamo anche insoddisfatti!”.
Mentre l’identità, oltre ad essere “identità interiore”, è anche una identità in
interazione, con la connotazione di una persistente coscienza di essere se
stessi e un persistente spartire con altri un certo carattere essenziale. Perché
in fondo gli altri sono il nostro limite, che ci arricchisce e ci rafforza.
Questo passaggio, dal bisogno di identificare se stessi all’arricchimento
reciproco, in un contesto dove le persone rafforzano la loro identità attraverso
la reciproca formazione, può essere colto dalla sequenza di questi tre
interventi effettuati nel momento di verifica di una sessione di formazione
permanente tra presbiteri.
Padre Andrea: “Non riesco a capire quello che stiamo dicendo, perché sarebbe
come se, per essere qualcosa bisogna limitarsi. La cosa più importante per me è
la centralità data alla persona che è messa in gioco in tutte le sue
dimensioni”.
Padre Mario: “Sono d’accordo, ma quello che io ho fatto adesso lo racconto a te,
perché ci stiamo confrontando. La caratteristica di questo percorso, mi pare sia
la formazione reciproca. La formazione intesa in modo nuovo e diverso; non come
racconto di informazioni, in cui facciamo da spettatori passivi a ciò che altri
ci dicono, ma come racconto di ciascuno di noi, nell’unità di corpo e spirito,
di uomo, credente e prete, vissuto nel lavoro pastorale che abbiamo fatto. Un
altro tratto importante è la presenza dell’équipe. È da tempo che dicevo a me
stesso: ho bisogno di persone che mi aiutino. In questa sessione vi dico che ho
trovato un’ équipe che non è solo competente, ma che è stata anche presente
nelle nostre storie di vita, di loro mi sono fidato. È stato un dono grande
poter beneficiare di persone che si sono messe a disposizione! È un investimento
apparentemente opposto alla produttività eppure proprio dal loro stare insieme a
noi e dalla loro complementarietà è nato il clima adatto: qui ogni persona si
sente pienamente libera e nello stesso tempo è coinvolta ed è portata a
partecipare”.
Padre Luigi: “La caratteristica che mi ha particolarmente colpito e aiutato nel
percorso, è stata la sospensione del giudizio da parte degli altri. Percepire di
non essere giudicati, ci ha favorito nell’esporci e nell’esprimerci liberamente.
Quando non ci sono giudizi tra noi, si crea un clima di verità e autenticità
molto favorevole alla condivisione e alla fraternità. Ruolo rilevante l’hanno
svolto pure le persone che ci hanno seguito, perché con tenacia e creatività
hanno saputo portarci a fare unificare le diverse esperienze che sono venute
fuori, aiutandoci ad integrarle nella nostra scelta di vita”.
Quando le persone riescono ad armonizzare le diversità del divenire
sperimentato, assieme ad una parte unificante di sé, possono pensare
all’identità non come a una realtà statica, ma come a una realtà dinamica, in
continua evoluzione.
Il percorso inizia già nell’utero in base alle prime sensazioni tattili e
uditive; e poi lo sviluppo e la percezione della propria identità prosegue nella
relazione con le figure di attaccamento. Possiamo considerare, così, la
formazione dell’identità e la sua evoluzione come frutto della percezione di sé
che l’individuo acquisisce in una fase iniziale nella relazione con la madre e,
successivamente nelle relazioni e nelle crisi che contraddistinguono tutte le
tappe evolutive della propria esistenza. Il sentimento di identità che ne deriva
consiste nella nozione di essere separato e distinto dagli altri, nel processo
di integrazione dei diversi aspetti di sé che vengono rispecchiati attraverso il
rapporto con gli altri.
Nell’interazione con il proprio ambiente si possono assumere convinzioni rigide
su di sé confermandosi in un’identità negativa che, inconsciamente, la persona
cercherà di convalidare attraverso le relazioni distorte che instaura.
Ma è anche vero che ogni individuo può trovare nel suo cammino “altri
significativi” che lo rafforzano in una identità che trascende l’immediato e lo
proietta verso orizzonti di valore, andando al di là delle apparenze; con cui
scambiare accoglienza e rispetto reciproco. E allora cosa accade? Che non si è
più quelli di prima: un rapporto vero e autentico trasforma le persone in
interazione; è come la luce che illumina e dà senso al mistero insito in ogni
uomo. In questo modo, ognuno permette all’altro di esprimere parti di sé
sconosciute; rivelandosi all’altro e svelandosi a se stessi, si farà emergere la
ricchezza e la bellezza presente in ciascuno.
Costruttori di identità comune
Il rapporto con l’altro ci rivela nella nostra identità, ci fa da specchio, ci
salva o ci condanna, ci fa perdere o ci redime. È il rapporto, quindi, che svela
appieno ciò che è scritto nei nostri geni e nella nostra spinta verso Dio; esso
risulta la chiave che rivela il nostro essere e i nostri limiti. Nelle relazioni
l’autonomia della persona prende forma poco alla volta, si definisce e aiuta
anche gli altri a definirsi nella loro unicità.
È ciò che accade in ogni rapporto autentico; è ciò che accade nei rapporti
comunitari, nei rapporti con la gente, nel modo di vivere la missione pastorale:
un percorso verso l’autonomia, che però è da condividere in modo genuino, perché
è dal rapporto con l’altro che l’Io sperimenta tutto il suo essere ma anche
tutto il suo essere di più. È da questa relazione che emerge una realtà diversa,
che si configura come una novità rispetto ai singoli individui, e che arricchirà
entrambi.
Infatti, in quella dimensione ciascuno rivelerà se stesso e sarà rivelato
dall’altro. È uno stile intersoggettivo che diventa una crescita continua e un
permanente arricchimento reciproco.
Inoltre, dando forma al “chi sono io”, ci si potrà donare agli altri. Questo
dono ha insito in sé anche la responsabilità non solo di realizzare se stessi ma
di trascendere l’individualità per divenire ricchezza comune realizzata nella
dimensione relazionale, sociale e culturale nel gruppo di appartenenza.
Ecco allora che il senso di sé s’intreccia con il senso più profondo della
relazione, che è l’amore agli altri vissuto secondo il modello dell’amore di
Cristo.
I doni che ciascuno riscopre e custodisce nella propria esperienza di vita non
possono quindi essere tenuti nascosti nel proprio ego-sistema ma devono essere
motivo di dono per gli altri. «Dedicarsi agli altri vuol dire tradurre la cura
pastorale in comportamenti concreti affettivamente integrati ed evangelicamente
significativi. Ogni azione altruistica fatta secondo lo spirito del Vangelo
comporta “la potenzialità “oblativa”, cioè la capacita di donazione, di amore
altruistico. Quando questa capacità si realizza in misura adeguata, la persona
diviene idonea a stabilire contatti spontanei, a dominarsi emozionalmente e ad
impegnarsi seriamente” (OE, 22)» .
L’apice di ogni incontro autentico sarà l’espressione piena della propria
individualità che non si ferma all’affermazione di sé, del proprio valore ma si
estrinseca pienamente nella capacità di accogliere, di donarsi, di amare,
partecipando così al lavoro di evangelizzazione comune che caratterizza la vita
consacrata.
L’esperienza di totale dedizione a Dio e ai fratelli, che caratterizza la vita
religiosa come pure la vocazione sacerdotale, è tutta intrisa di tale
circolarità, tra identità di sé e identità comune. Dedicarsi alla missione
pastorale, fuori come dentro le singole comunità, è possibile nella misura in
cui i propri doni, le proprie aspettative, le proprie convinzioni, sono
integrate con un bene che trascende l’individuo e si sintonizza con il progetto
che Dio intesse nella vita intera della Chiesa.
«La comunione nella Chiesa non è infatti uniformità, ma dono dello Spirito che
passa anche attraverso la varietà dei carismi e degli stati di vita. Questi
saranno tanto più utili alla Chiesa e alla sua missione, quanto maggiore sarà il
rispetto della loro identità. In effetti, ogni dono dello Spirito è concesso
perché fruttifichi per il Signore nella crescita della fraternità e della
missione» (VC 4).
In questo modo, una volta superato il proprio limite, l’Io entra nella
dimensione dell’incontro, riscoprendo il valore di una condivisione che spalanca
i confini del tempo e dello spazio, ed apre alla meta trascendente dell’incontro
con Dio: è lì che ciascuno riscopre il significato profondo della propria
stabilità, ma anche della propria continuità, realizzando ogni giorno una
identità che si modella nel rapporto con Colui che dà senso alla propria
esistenza.