Il VI° Convegno sulla vita monastica, organizzato sempre dalla “Piccola
Famiglia della Risurrezione” (Marango di Caorle, Ve) e dalla “Fraternità di
Gesù” (Pian del Levro, Tn) , ha puntato quest’anno sul delicato tema del
rapporto tra giustizia della legge e giustizia dell’amore (4-6 ottobre 2010). I
giorni di fraternità sono stati arricchiti dal dialogo tra le nuove esperienze
di monachesimo in Italia , nello spirito di un radicamento “nella tradizione tra
passato e futuro”.
Questa volta, a fronte di tutto ciò che sta coinvolgendo la Chiesa (scandali,
perdita di consenso e di credibilità ecc.), si è pensato di riflettere sul
binomio giustizia e misericordia. In continuità dunque col convegno del 2009 –
sul tema della “vita fraterna” da calare nelle periferie e nei deserti della
società impaurita e attraversata dal meticciato socio-culturale – si è partiti
dal dolore per una situazione ecclesiale che talvolta appare alla deriva,
attraversata com’è da logiche ispirate alla “tolleranza zero”. Ma l’annuncio
cristiano è solo questo? E qual è la prospettiva profetica ed evangelica? Cosa
vogliono dire parole come ‘giustizia’ e ‘misericordia’?
Il sentiero della giustizia
La nota biblista Rosanna Virgili ha iniziato a cercare le prime risposte nelle
Scritture. La lettura di un testo poco noto del profeta Geremia (cap. 19, dove
si denuncia il peccato che nasce dalla commistione tra il culto nascosto,
ipocrita ed eterodosso dei sacerdoti e il sacrificio di bambini, nella discarica
di Gerusalemme che è la Geenna) e dell’inizio del libro dell’Esodo (ove Dio
ascolta il grido della sua piccola etnia schiava in Egitto), delinea
l’itinerario della giustizia: si esce da sé per conoscere la situazione di chi
non è tutelato, lo si accompagna dando un nome all’ingiustizia, per giungere a
prendersi cura della sua situazione con un’alleanza che libera. Il termine
“giustizia” nella Bibbia è dunque “fedeltà all’alleanza di vita”. In questo
senso la legge, data da Dio per rendere consapevole dei legami tra tutte le
persone, contiene in sé una procedura di verifica di tale fedeltà. I profeti
(sapienti interpreti della giustizia) sono chiamati, mostrando il vuoto e la
falsità dei legami, a dire che Signore rigetta un culto “ingiusto” perché privo
di una vera condivisione di vita. Utilizzeranno (vedi Isaia 1,1-20) non la
procedura della causa giudiziale (con accusatore, accusato e giudice: il mispat),
ma quella del contenzioso bilaterale: a nome della parte lesa (il Signore)
indicano, con linguaggio familiare, le ferite inferte alla relazione di alleanza
(è il cosiddetto rib).
Su questa linea profetica, anche Gesù intende la giustizia come atto di fede da
parte di Dio che si rinnova a favore dei suoi figli. Egli annuncia infatti un
Dio che discute con l’uomo e che, in quanto parte lesa, arriva comunque a
perdonarlo.
La misericordia è in realtà il “terzo tempo” dell’itinerario della giustizia,
quello in cui si offre non un condono bensì un riscatto che mira a un
responsabile progresso di vita. La famosa parabola del padre misericordioso e
dei due figli (Luca 15) illustra bene come la “giustizia secondo la legge” sia
sotto scacco. Si descrive infatti una lite in cui si finisce per superare la
legge che non permette di fare festa per il peccatore: un padre accompagna i
figli e mostra che la giustizia consiste nella restituzione del fratello a
tutti. Così nella Chiesa occorre saper sempre denunciare le situazioni di
ingiustizia, vincendo anche lo spirito di corporazione, mostrando però il volto
del “compagno” dei deboli sin dalle fasi iniziali degli scandali e non del
“notaio” che si affretta a chiuderli. Il perdono autentico è frutto del percorso
che fa risorgere le vittime e trasforma l’oppressore! Per questo non basta
chiedere perdono a nome dell’istituzione, ma bisogna scovare le radici profonde
che generano le disumanità intra-ecclesiali.
Lo strumento della misericordia
A un monaco benedettino, fratel Luca Fallica (Comunità della Ss. Trinità), è
toccato il compito di costruire l’ulteriore riflessione su giustizia e
misericordia nella Regola di Benedetto e nella vita comunitaria. Più volte egli
ha sottolineato che la vita monastica odierna deve saper andare nel deserto
(luogo dei “reietti”) per cercare «non anzitutto una giustizia morale o una
perfezione ascetica, non semplicemente la lotta contro il nemico di sempre e i
suoi pensieri, non soltanto la purificazione del cuore, ma quella misericordia
di Dio che sola può donare il giusto significato, il contenuto necessario e
insostituibile a ogni impegno ascetico e a ogni cammino di purificazione, di
dilatazione e di unificazione del cuore».
San Benedetto, nel capitolo quarto della Regola, elenca settantaquattro
strumenti delle buone opere, l’ultimo dei quali è: «E non disperare mai della
misericordia di Dio» (RB 4,74). Così la misericordia compassionevole dell’amore
si sposa con la speranza che genera cammini di novità. «Mi pare, ha detto il
relatore, che proprio in questo incontro tra passività e attività dell’amore,
tra la sua accoglienza ospitale, fino al punto di saper patire l’altro, e la sua
potenza fecondatrice, sino al punto di poter donare vita nuova all’altro,
possiamo trovare il giusto equilibrio tra misericordia e giustizia. La
misericordia che accoglie l’altro nel suo limite e nel suo peccato è anche
capace di generare in lui la giustizia di Dio».
Si comprende così che, secondo la proposta spirituale benedettina, il termine
‘misericordia’ va sempre associato al verbo ‘accogliere’. Abbiamo accolto, o
Dio, la tua misericordia: essa si riceve dall’alto e occorre poi lasciarla
fruttificare per trasformarci in persone ospitali, che tornano ad accogliere la
misericordia di Dio nella misura in cui si accolgono reciprocamente. Anche in
questo contesto ci illumina la parabola lucana del padre e dei due figli: la
misericordia del padre si manifesta non tanto nel perdonare il peccato del
minore o l’ostinazione del maggiore, ma nel consentire a entrambi i figli di
essere tali e non più servi, e quindi fratelli riconciliati tra loro.
«Analogamente, la Regola di Benedetto è tesa a formare non dei giusti, tanto
meno dei servi giusti e fedeli, come il figlio maggiore della parabola, ma dei
figli e dei fratelli».
La differenza evangelica
A partire dalla prospettiva biblica e da quella benedettina, gli scambi di
esperienze in atto nelle comunità monastiche hanno fatto riflettere su punti
“caldi” del rapporto giustizia-misericordia.
– Circa il modo di presiedere la comunità in relazione a una paternità
spirituale, si è detto che le guide di comunità devono essere credibili nella
Chiesa e nella società. È emersa la complessità di unificare nella guida il
ruolo dell’autorità e quello dell’accompagnamento spirituale, mentre c’è
difficoltà nel trovare fuori delle comunità (spesso piccole) persone che
sappiano aiutare a discernere l’autenticità di una vocazione alla vita
monastica.
– Sul tema dell’attenzione al bisogno di ciascuno e ai diversi ritmi del cammino
spirituale, c’è bisogno di discernimento sui frequenti casi di persone che,
chiedendo di iniziare il cammino, sono più segnate da ferite che non da reale
desiderio. Accade anche che chiedano di entrare persone che non hanno ancora
maturato una solidità umana e cristiana: necessaria dunque un’attenta lettura
della loro situazione e una capacità di sostenerne la maturazione. Rimane
fondamentale comunicare fiducia, coniugando misericordia e sapienza formativa
che consenta alle persone di crescere. Da parte di chi chiede di essere accolto
c’è bisogno però di disponibilità a lasciarsi trasformare: decisivo criterio per
l’accoglienza può essere proprio l’esistenza di tale docilità.
– Per una prassi di misericordia si deve partire da un’accoglienza gratuita che
permette di trovare un luogo dove vivere un rapporto pacificato con Dio. Per
quanto riguarda le relazioni interne, l’esperienza dice che nelle piccole
comunità non è possibile nascondersi, e ciò implica necessariamente di avere
relazioni imperniate sul cammino personale di conversione. Il problema
dell’accoglienza di persone con problemi psichici e che creano difficoltà nella
vita comune richiede criteri di discernimento che tengano conto sia del bene
della persona che della comunità.
– Sul punto della comunità come luogo di apprendimento del combattimento
spirituale, infine, è emersa l’esigenza di distinguere tra psicologia e
spiritualità. Non bisogna perdere di vista l’unità della persona e della sua
conversione: la capacità di entrare in rapporti interpersonali positivi e
accoglienti può essere segno di conferma della chiamata alla vita monastica.
Oggi si avverte in modo particolare la difficoltà di rimanere con fedeltà nelle
relazioni. Occorre comunque mettere al centro la Scrittura per vivere il
combattimento spirituale a livello personale e comunitario. Non ci si deve
dimenticare che il vero perdono nasce dall’incontro del percorso penitenziale
che libera colui che ha fatto del male e di quello della persona ferita che si
dispone all’offerta del perdono.
Con questo bagaglio di sapienza spirituale si è affrontato, con l’aiuto di don
Angelo Casati (prete milanese e scrittore), il tema della differenza evangelica
rispetto alla logica della “tolleranza zero”.
Si è convenuto che sulla questione della pedofilia non c’è stata l’attenzione
necessaria sulle vittime, ma in fondo anche su chi ha commesso il delitto
(anch’egli una vittima), in un clima in cui sembra prevalere la preoccupazione
di salvare l’immagine della Chiesa. C’è ora necessità di una chiesa che si chini
sulle ferite, che non chiede solo preghiere ma anche passi concreti per aiutare
i preti colpevoli a vivere percorsi di guarigione. Mentre con coraggio
incalziamo anche i pastori con una mite “contestazione di domande”, dobbiamo
interrogarci sul perché il nostro annuncio non riesce a scalfire la mentalità
mondana delle nostre comunità.