In questi ultimi mesi il Medio Oriente è stato oggetto dell’attenzione internazionale, principalmente per due eventi che segneranno il futuro religioso e politico di quest’area del mondo. Da una parte l’Assemblea Speciale dei Vescovi per il Medio Oriente (10-24 ottobre) e, sul piano politico, alla ripresa dei colloqui di pace tra il governo israeliano e l’autorità palestinese.
Nostro intento è offrire ai lettori alcuni elementi informativi, utili a chiarire il complesso processo di pace in atto, al fine di comprendere il contesto socio-politico nel quale operano le istituzioni ecclesiali e anche molte Congregazioni religiose.e il contributo che esse possono offrire al processo di pace in questo difficile momento della storia del Medio Oriente.

Due popoli in un anno


Dopo quasi due anni di stallo, il 2 settembre scorso a Washington sono ripartiti i negoziati di pace tra israeliani e palestinesi. Nonostante i buoni propositi della Conferenza di Annapolis (novembre 2008), essi furono bruscamente interrotti a causa dell’intervento militare nella striscia di Gaza intrapreso dal governo israeliano per “motivi di sicurezza”. L’operazione denominata “piombo fuso” provocò fra la popolazione palestinese la morte di circa 1200 persone e all’incirca 5000 feriti.
Accolti con favore anche dallo stesso papa Benedetto XVI, i colloqui sono stati avviati grazie alla decisa determinazione del presidente USA Obama unitamente alla sua amministrazione. Vi hanno partecipato: il premier israeliano Benyamin Netanyahu, il presidente dell’autorità palestinese (Anp) Abu Mazen, il segretario di stato americano Hillary Clinton e Gerge Mitchell inviato speciale per il Medio oriente. La volontà comune è di raggiungere la pace in un anno, con colloqui ogni 15 giorni.
Nel suo intervento, Netanyahu ha dichiarato: «la storia ci ha dato l’opportunità di porre fine a un conflitto tra i nostri popoli che va avanti da quasi un secolo, un’opportunità senza precedenti per porre fine a un bagno di sangue e dare un futuro di speranza ai nostri figli e ai nostri nipoti». Rivolgendosi direttamente ad Abu Mazen, il premier israeliano ha dichiarato: «Ogni pace comincia dai leader. Presidente Abbas lei è il mio partner per la pace. Spetta a noi di vivere uno accanto all'altro e con l'altro». Anche Abu Mazen ha espresso la speranza di «iniziare una nuova era di pace, giustizia, sicurezza e prosperità per i palestinesi e per il popolo israeliano».
Che si tratti di un bagno di sangue lo dicono i numeri. Secondo i dati forniti da B’Tselem, dal 2000 ad oggi sono stati uccisi 6271 palestinesi di cui 1317 minori. Di contro, i palestinesi hanno ucciso 1083 israeliani di cui 124 minori. Un bagno di sangue versato purtroppo anche alla ripresa dei colloqui con il massacro di quattro coloni da parte del braccio armato di Hamas. Non c’è dubbio che la violenza deve essere fermata il prima possibile.

Una pace ostacolata


Sebbene lodevole sia l’avvio di questo processo di pace, entrambi i leader devono fare i conti con i contrasti e le ritrosie all’interno dei rispettivi dibattiti parlamentari. Da parte palestinese, per esempio, il portavoce di Hamas Sami Abu Zuhri ha affermato che i colloqui di pace «non sono legittimi perché il popolo palestinese non ha dato nessun mandato ad Abu Mazen di condurre trattative in nome del nostro popolo» e che «ogni risultato che verrà raggiunto nel corso di questi colloqui non impegna il nostro popolo, ma solo lo stesso Abu Mazen». E poco prima della scadenza della moratoria sugli insediamenti (26 settembre) ha aggiunto: «Abu Mazen dovrebbe accelerare la conclusione della riconciliazione interpalestinese e mettere fine all’attuale divisione e riunione il popolo palestinese».
Il ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman, in un recente intervento all’Onu (non concordato con il premier Netanyahu) ha dichiarato che il processo di pace fra israeliani e i palestinesi potrebbe richiedere diversi decenni, perché inscindibile dalla questione iraniana. Come a dire che la questione iraniana è più urgente dell’accordo con i palestinesi.
I colloqui proseguono a piccoli passi con il sostegno della comunità internazionale (Unione Europa, Stati Uniti, Mosca), ma anche grazie al coinvolgimento dei paesi vicini come Egitto, Giordania, Siria e il via libero della Lega Araba.

Al cuore delle questioni

Quali sono i nodi da sciogliere per ottenere una pace giusta e duratura? In sintesi possiamo riassumerli in cinque punti: Gerusalemme, i confini, gli insediamenti, i profughi, la sicurezza .
Nel 1980 il parlamento israeliano dichiarò unilateralmente Gerusalemme capitale «unita ed indivisa» dello Stato, riconoscimento ritenuto illegittimo dall’ONU. Ma anche per i palestinesi Gerusalemme è una città santa e, quindi, non sono disposti a lasciarla.
La questione dei confini: l’autorità palestinese pretende il ritorno alla situazione antecedente alla guerra dei sei giorni nel 1967 o a un baratto di territori. Israele intende invece includere Gerusalemme e gli insediamenti già esistenti nei territori palestinesi.
L’autorità palestinese chiede che gli insediamenti israeliani costruiti in territorio palestinese siano tolti e non ne vengano costruiti altri. Israele, al contrario, non è disposta e la moratoria per il congelamento degli insediamenti è terminata il 26 settembre. Se non si risolve questa questione, Abu Mazen ha dichiarato che lascerà immediatamente il tavolo delle trattative.
I profughi palestinesi sono circa 4 milioni. L’autorità palestinese rivendica il diritto di tutti i profughi a tornare in Israele e Palestina. Il governo israeliano però è contrario principalmente per motivazioni demografiche e nella prospettiva di favorire la riunificazione dello stato palestinese. Ai primi di ottobre, il Consiglio dei ministri israeliano ha approvato un controverso emendamento alla legge sulla cittadinanza che impone ai nuovi cittadini non ebrei di giurare fedeltà a Israele «come stato democratico ed ebraico». Emendamento che alcuni intellettuali israeliani non hanno tardato a definire razzista.
Per quanto concerne la sicurezza e il diritto all’autodeterminazione, Israele teme che i palestinesi non siano in grado di autodeterminarsi, rimanendo così schiavi dell’estremismo di Hamas. Per questo ha costruito una barriera di sicurezza e chiede la smilitarizzazione dello stato palestinese. I palestinesi sono convinti che la sicurezza nascerà con la creazione di due stati e Abu Mazen intende continuare il dialogo con Hamas, partito democraticamente eletto dal popolo.

«Non vi crediamo»


Cosa pensa la gente comune? In un documento «bello e tragico» pubblicato alla fine dei 2009 dal titolo Kairós Palestina, i cristiani palestinesi a nome della popolazione esprimono una realtà ben diversa, dove guardare avanti con speranza appare sempre più un miraggio. La sofferenza ha tanti nomi: il muro di separazione, la privazione di risorse naturali, il non accesso all’acqua (perché controllata dagli israeliani), l’umiliazione quotidiana al checkpoint, l’emigrazione, ecc.
Ma anche gli israeliani respirano un certo senso di disillusione e di déjà vu. Fra le tanti voci, riportiamo quella lapidaria di Hagai Ben-Artzi, docente di storia ebraica all’università Bar Ilan: «Noi non crediamo una sola parola di quello che dite. Non ci fidiamo delle vostre promesse nè degli impegni che prendete nei nostri confronti» . Il peso della storia con gli orrori della shoah e i continui sussulti antisemiti, fino alla dichiarazione di non riconoscimento dell’olocausto o addirittura l’appello alla distruzione dello Stato d’Israele hanno iniettato nella popolazione israeliana la sfiducia negli organismi internazionali e la certezza che comunque gli arabi non rispettano gli accordi.

Accelerare la riconciliazione
Lo scrittore israeliano Amos Oz in una sua pubblicazione dal titolo emblematico Contro il fanatismo afferma giustamente che «nel conflitto fra ebrei israeliani e arabi palestinesi non ci sono “buoni” e “cattivi”. C’è una tragedia: il contrasto fra un diritto e l’altro» . Si tratta di una tragedia che coinvolge due fratelli con l’animo risentito e che rischiano di lasciarsi dominare dalla sfiducia, disillusione, ingiustizia.
Il processo di pace è un percorso di riconciliazione. A piccoli passi. Mons Sabbah, patriarca emerito di Gerusalemme non ha dubbi. Il primo passo deve consistere nel mutuo riconoscimento: da parte israeliana mettendo fine all’occupazione dei territori palestinesi e da parte palestinese interrompendo ogni azione terroristica a danno degli israeliani. La riconciliazione, osserva mons. Sabbah, è un processo di formazione. Per questo è necessario contestualmente agire di più sul sistema educativo. Le giovani generazioni hanno il diritto di possedere una più corretta visione delle rispettive identità, cosa che oggi lascia molto a desiderare. Bisogna credere fermamente alla riconciliazione anche se sembra difficile. Essa è una sfida coraggiosa rivolta non solo alle istituzioni politiche, ma anche ai credenti di quella terra. Ebrei, musulmani e cristiani si riconoscono nell’unico Dio . Nel volto dell’altro – spesso nemico – è impressa l’immagine di Dio e, a maggior ragione, amare il proprio nemico è l’unica soluzione per guarire le ferite inferte e ricevute. L’altro non è semplicemente un vicino di casa, ma un fratello che Dio chiede di essere custodito. Una riconciliazione possibile. Solo allora i trattati di pace diverranno effettivi.
Le Chiese e i cristiani hanno in questo processo di riconciliazione un compito educativo e pedagocio molto importante, come ha ripetutamente sottolineato il Sinodo, a condizione tuttavia, che essi stessi raggiungano quell’unità tra di loro che fattori storici complessi hanno finora impedito. Sarà questo uno dei frutti più importanti dell’assemblea sidodale, nel senso che difficilmente la pace verrà dalle istituzioni e dalle trattative, che, come dimostra la storia degli ultimi tragici decenni, sono sempre precarie, ma solo da un popolo riconciliato.