È possibile, oggi, ritornare realmente ai fondamenti della vita religiosa (VR), e quindi riandare al Vangelo, ma «in modo nuovo, con un’ottica diversa, cercando di ridire verità costanti e perenni in maniera inedita?». È questa la sfida, dall’esito tutt’altro che scontato, a cui non si è sottratto Luciano Manicardi parlando, il 28 maggio u.s., a un gruppo di cappuccini della Lombardia nella chiesina rossa di Milano. Manicardi è un monaco della comunità di Bose. Fin dalle prime battute del suo intervento sui quattro elementi caratterizzanti la VR (l’Evangelo, la sequela, la comunità, la missione), è emersa con tutta evidenza la dimensione monastica della sua esperienza e della sua spiritualità. Ma, forse, proprio per questo, ha saputo dire in modo nuovo e in maniera inedita qualcosa di particolarmente significativo sul passato, sul presente e sul futuro della VR soprattutto apostolica.

Una vita integralmente umana

Il primo elemento caratterizzante la VR è il Vangelo. È talmente fondante che il relatore vi ha dedicato più tempo di quello riservato complessivamente agli altri tre punti. All’origine della VR, come di tutta la vita cristiana, c’è il Vangelo, c’è la parola di Dio, «parola tanto potente ed efficace che ha portato un uomo, una donna, a discernere come rivolta a sè, nell’oggi della propria storia, l’appello di Dio e la chiamata a una vita di radicalità cristiana». È quella parola che si è concretizzata «nel vivere, nell’amare, nell’agire di Gesù di Nazaret».
Nella vita concreta dei santi «la VR appare innanzitutto come una vita umana, umanizzata, non ritualizzata, non fatta di silhouette religiose, ma vissuta da uomini, da donne, che cercano di innestare la loro umanità di uomini e donne del proprio tempo nell’umanità di Cristo».
Dal Vangelo scaturisce anche un modello di vita spirituale «che non è (come si pensava fino non molto tempo fa) lineare, progrediente e che ascende dal livello più basso a quello più alto: dalla purificazione, alla conoscenza, fino all’unione con Dio». Oggi si è sempre più lontani da questo modello neoplatonico, razionalistico, incentrato sul ruolo decisivo dell’ascesi, grazie alla quale l’uomo, liberato dal peccato, potrebbe entrare nello spazio mistico. «Oggi noi siamo molto più pronti a riconoscere la VR come una vita umana, completamente umana e integralmente umana». L’azione dello Spirito avviene sempre «attraversando completamente l’uomo in tutti i suoi strati,in tutte le sue dimensioni, esteriori e interiori».
I formatori sanno per esperienza diretta che nelle persone loro affidate, non mancano «problemi umani che resistono a una conversione». È possibile imbattersi in persone umanamente immature anche dopo tanti anni di VR. Nonostante l’accompagnamento spirituale e, spesso, anche psicologico, nonostante le migliori intenzioni sia davanti a Dio che davanti al Vangelo, queste persone, di fatto, finiscono poi con il provocare in comunità «grandi tribolazioni, difficoltà e sofferenze». Quando ci si trova di fronte a queste situazioni, non si dovrebbe mai dimenticare che la VR «non corrisponde a un modello preconfezionato, che cala dall’alto e che deve semplicemente essere applicato, ma è una realtà vivente che, proprio per l’obbedienza all’Evangelo, deve essere ricreata di fronte ad ogni persona come evento spirituale nuovo».
Le vicende del profeta Elia tentato, in un momento di depressione, di porre termine alla propria esistenza, ma poi ritornato alla vita grazie all’azione dello Spirito con la voce di un silenzio sottile, sono analoghe a quelle di tanti religiosi che sperimentano solo «la pochezza, la fatica, la stanchezza, la frustrazione». Ora, sono questi i momenti in cui sotto l’azione dello Spirito, si dovrebbe adottare «un modello di vita spirituale dinamico, creativo, non ingessato, ma che abbraccia tutto quanto l’uomo e le sue dimensioni vitali».
Parlando di vocazione alla VR all’interno del primato del Vangelo, non si dovrebbe mai dimenticare, però, che «la VR sta all’interno della vocazione della vita cristiana e battesimale. Non è qualcosa di più». È solo «una sua manifestazione, un’esplicitazione, una forma, ma non c’è niente di più grande della vocazione insita nel battesimo e nella chiamata alla fede e alla vita ecclesiale». La VR «è una forma altra, certamente connotata da grande radicalità, di sequela Christi, ma non per questo è la forma o la forma migliore». È una forma che, ad esempio, rispetto al credente che vive la sua fede nello stato matrimoniale, «sviluppa potenzialità diverse del Vangelo». «Siamo stanchi di cristianesimi omologati e di forme di vivere il cristianesimo standardizzate». Ci sono troppi appiattimenti su altri modelli «magari dominanti e vincenti», ma lontani dagli elementi realmente caratterizzanti la VR, vale a dire «la radicalità cristiana vissuta nel celibato e nella vita comunitaria».

Solitudine e comunione “usque ad mortem”

La crisi profonda della VR è ormai un dato di fatto, e non solo per la mancanza di vocazioni. Ci sono comunità che devono chiudere o tentano di accorparsi. Per l’invecchiamento crescente, i decessi superano di gran lunga gli ingressi. Manicardi, però, è convinto che «ci saranno sempre uomini e donne che, sedotti dalla forza dell’Evangelo, andranno nel deserto per sentire il Signore che parla al loro cuore e vorranno seguirlo nella radicalità dell’amore indiviso del celibato e nella fraternità di una vita cenobitica», tentando di coniugare solitudine e comunione.
Certamente la comunione è importante. Ma anche la dimensione della solitudine «è costitutiva di una VR che voglia essere degna di questo nome». Non per nulla Gesù chiama i suoi discepoli e tutti coloro che lo vogliono amare radicalmente «a seguirlo anche nella solitudine». Il giusto equilibrio tra comunione e solitudine è fondamentale. «Guai se la VR si dimentica della solitudine». Certo, questa «può incutere timore, può far paura, può ingenerare angoscia, ma il religioso è chiamato ad assumerla con radicalità e determinazione». Potrebbe anche darsi che «tanta povertà della VR e monastica e il fatto stesso che certe forme di VR siano morenti, rappresenti un richiamo a questa a solitudine che è una dimensione vitale e feconda della VR comunitaria».
Secondo Manicardi c’è in giro una visione fin troppo mondana della crisi della VR, non imputabile, però, esclusivamente alle sempre più scarse vocazioni. Non potrebbe, piuttosto, derivare dal fatto che nelle comunità religiose «non si vive il comandamento nuovo, non si vive la carità, non si narra il Cristo… anche nel morire, anche stando accanto ad una persona anziana e senza forze, anche quando non si hanno più le forze per fare alcuna azione pastorale?». Non è forse vero che la crisi c’è, soprattutto nel continente europeo, quando «viene tradita la carità che è il centro dell’Evangelo», quando ci si dimentica di «voler essere con il Signore anche quando il Signore è un dimenticato da tanti, se non da tutti?».
In fondo, cosa dovrebbero volere i religiosi se non seguire radicalmente il Signore? Quando una persona desidera entrare in comunità ci si dovrebbe chiedere se davvero vuole andare fino in fondo, pronta a pagare il prezzo di una simile decisione. Troppe vocazioni, purtroppo, si rivelano incapaci di perseveranza. La fedeltà alla scelta fatta è uno degli elementi in controtendenza che la VR oggi propone e dovrebbe custodire come parte integrante della follia umanizzante tipica del Vangelo. Non basta volere questa vita. Bisogna anche verificare se la si può realmente seguire. Proprio per questo è indispensabile una formazione «che prenda sul serio tutta l’umanità della persona».
Celibato e comunità, solitudine e comunione, amore di Dio e amore del prossimo: «questo è l’essenziale!». Guardando all’oggi e al futuro della VR, per Manicardi«è estremamente importante nella vita personale del religioso l’azione di grazie quotidiana, la capacità di ringraziare, l’eucaristia non tanto nel senso del sacramento celebrato, quanto nel senso dell’atteggiamento spirituale ed esistenziale quotidiano». Si dovrebbe arrivare a rendere grazie a Dio per la vita, per i fratelli e le sorelle nella concretezza della loro persona, per la fede ricevuta, per la vocazione, per la comunità.
Ciò che spesso crea ancora problema nella VR è l’impegno, come scrive san Benedetto nel prologo della sua Regola, usque ad mortem (fino alla morte). Nella tradizione benedettina, infatti, il religioso «non fa una professione perpetua, non emette voti perpetui, ma usque ad mortem». In questa espressione molto forte e realistica «c’è un confronto anticipato con la morte» che può facilmente spaventare un giovane. Infatti, nel consacrare e nel votare il proprio corpo nel celibato e nella vita comunitaria fino alla morte, c’è un confronto drammatico con la morte. La persona lo compie certamente nella fede della risurrezione, contando, quindi, esclusivamente «sul Signore che dà vita ai morti». Questa forte presa di coscienza della realtà della morte dovrebbe favorire nel religioso sia la conoscenza di Dio che quella di sè. Nel momento in cui cerca Dio, il religioso «cercando Dio cerca anche sè stesso alla luce di Dio, e questo è l’unico cammino in cui quotidianamente siamo condotti dal testo biblico, dalla liturgia, dai gesti della carità, dalla vita fraterna, da quel grande sacramento che è la vita comune».

La sequela dell’uomo Gesù

La fedeltà al Vangelo rimanda necessariamente al secondo aspetto decisivo e costante della VR, vale a dire la sequela dell’uomo Gesù di Nazareth. «Questa specificazione, commenta Manicardi, non mi era chiara quando entrai in monastero molti anni fa». Cristo, come afferma Paolo nella sua lettera a Tito, è la grazia di Dio che è apparsa tra gli uomini per insegnarci a vivere in questo mondo (3, 11-12). La salvezza qui viene declinata «come forma di vita, come arte di vivere». Anche la VR non può essere ridotta soltanto ad una serie di gesti rituali o pastorali, a certe funzioni e ruoli. I religiosi non dovrebbero mai dimenticare che «il luogo di narrazione di Dio è l’umano, la nostra umanità, la nostra persona, le nostre relazioni, la qualità della vita fraterna che creiamo nella comunità». Giovanni Paolo II, ancora nel novembre del 1992, aveva espressamente affermato che «tutta la fecondità della VR dipende dalla qualità della vita fraterna in comune».
Il diventare realmente discepoli del Signore, non dipende, però, «da strategie comunicative o da tattiche pastorali studiate a tavolino, ma dal vivere questa dimensione della differenza evangelica, dell’alterità evangelica che si manifesta in una comunità». Nella società di oggi, il grande assente è proprio la comunità. Anche quella che dovrebbe essere la comunità per eccellenza, la chiesa domestica, la famiglia, è sempre più «soggetta a lacerazioni, minata da debolezze e fragilità, spossata». In una società in cui i cristiani sono oggi costretti a vivere «una vita frammentata, isolata, individualizzata, parcellizzata in istanze individualistiche», la VR, proprio per sua stessa natura, dovrebbe diventare un luogo estremamente eloquente.
Parlando di sequela, si dovrebbe andare oltre l’immagine di un Dio unico, onnipotente, eterno che «ha impregnato la sensibilità dei religiosi di una certa età». Soprattutto dopo il Vaticano II si è incominciato a pensare a Dio come a «Colui che è rivelato dall’umanità, anche sofferente, di Gesù di Nazareth». È una visione, questa, che ha positivamente influenzato non solo la VR, ma anche, più in generale, tutta la spiritualità e la catechesi.
Questa nuova prospettiva teologica - pensare all’immagine di un Dio sofferente, fino a poco tempo fa, poteva rasentare l’eresia! - ha ripercussioni significative anche sul presente e sul futuro della VR. «Se al cuore dell’Evangelo c’è l’annuncio del Regno, se al cuore del Regno c’è la persona di Gesù di Nazareth… allora i religiosi sono rinviati al criterio dell’umanità di Cristo come luogo dell’immagine di Dio». È, infatti, a causa del Vangelo e per seguire Gesù, che i religiosi «lasciano tutto, scelgono il celibato, scelgono di non sposarsi e di non avere figli, di rompere con la famiglia di origine, di compiere un taglio netto con la famiglia di provenienza». Nella VR il celibato è un elemento «dirimente, discriminante e assolutamente centrale» che comporta anche «un distacco netto dalla famiglia di provenienza». Come la rinuncia ai beni, così anche la rinuncia ai legami precedenti è una condizione indispensabile «per vivere l’assiduità con il Signore in una vita comune».

Dalla comunità alla missione-testimonianza


I religiosi testimoniano il Regno in comunità. «Al di là di tutto ciò che si può rimproverare alla VR, al di là di tutte le sue povertà e miserie, però essa è la realtà ecclesiale che ha spinto sempre più lontano la realizzazione dell’ideale comunitario del Nuovo Testamento e ne ha sempre mantenuto la testimonianza». Non c’è cristianesimo senza comunità. Solo in Cristo, «anziani e giovani, uomini e donne, bambini e adulti, di etnie, lingue e culture differenti, possono trovare un’unità». Declinare l’unità articolandola con la pluralità e la diversità è un proprium della VR. Infatti, «non c’è un modello unico di forma vitae». Ne possono sorgere diversi anche all’interno dello stesso solco, dello stesso ceppo, francescano o domenicano che sia. «Non è possibile che il carisma di una congregazione religiosa arrivi a soffocare la fantasia dello Spirito. È giusto invece che arrivi ad aprire spazi di pluralità».
Non ci può essere comunità, però, senza l’autorità le cui coordinate sono quelle tracciate dal Vangelo, vale a dire l’autorità come servizio, non come fatto burocratico e amministrativo. Rettamente intesa nella sua dimensione spirituale, l’autorità non può non essere sinodale e collegiale. Lo impone la complessità del mondo in cui viviamo. Più si è in alto, più ci si dovrebbe porre «al servizio dell’unità della comunità e della sua comunionalità». Stando alle radici neotestamentarie e agli insegnamenti del Vaticano II, oggi, nella Chiesa, non è più pensabile una forma diversa di autorità. Questo non esclude, anzi incentiva nel superiore la capacità di di immaginazione, l’invenzione di piste che potrebbero essere rettificate cammin facendo, ma che comunque «lasciano intravedere un futuro, danno respiro alla comunità, danno speranza, consentono, appunto, di camminare».
Purtroppo, nella VR, specie in quella femminile, «c’è il rischio di una certa ristrettezza di orizzonti che diventa ristrettezza di vedute e che può
rendere asfittica la vita comune». Se non si sanno allargare gli orizzonti, si finisce inevitabilmente con il rinchiudersi in sè stessi o sui problemi della propria comunità. Anche qui, la prassi di Gesù di Nazareth «sempre in ascolto, sempre capace di comandare e di decidere, ma anche di assumere totalmente l’altro riconoscendolo in toto», avrebbe tante cose da insegnare ai religiosi di oggi, compresa una reale condivisione dei beni.
Infatti il modo di relazionarsi con il denaro e con i beni è un punto centrale sul quale «si gioca la credibilità della VR, sia a livello personale che a livello comunitario». La verità del rapporto con Dio non la si vede solo in relazione alla sessualità (celibato) e alla volontà propria e degli altri (obbedienza), ma anche nel rapporto con le cose.
Se, infine, nella VR è irrinunciabile la comunità, non lo è da meno la missione-testimonianza. Anche la vocazione religiosa, afferma con forza Manicardi, «sgorga da uno spazio ecclesiale, avviene nella Chiesa ed è portata e mediata dalla Chiesa». Soprattutto i monaci, ma anche tutti i religiosi, dovrebbero sottrarsi alla facile tentazione sia della fuga mundi che della fuga Ecclesiae. «La sua stessa missione la VR non la vive per sé, ma nella Chiesa per il mondo».
Per quanto, spesso, imbastita di non poche incrostazioni, la parola “missione” rimane una “parola nobile”. Non la si dovrebbe, però, né enfatizzare né assolutizzare e neanche ridurre ad una dimensione puramente funzionalistica. I religiosi non sono inviati per svolgere un determinato compito, per dar vita a determinate opere. Missione è anzitutto testimonianza: «Voi sarete miei testimoni fino ai confini della terra» (At 1,8).
Il testimone «è colui che ha vissuto un’esperienza e la può narrare… è il portatore di una memoria e la racconta, la vive… è colui che suscita delle domande prima ancora che dare risposte», anche se dev’essere sempre pronto a rendere ragione agli altri della speranza che è in lui (1Pt 3,15). Tutti, cioè, hanno il diritto di chiedere ai religiosi «il perché della loro vita, della loro fede», favorendo anche in questi momenti l’annuncio nel loro «umanissimo incontro con l’altro». La missione è una responsabilità che ci si assume nei confronti di Colui che ha chiamato e inviato i religiosi a raccontare ai fratelli, nel quotidiano della vita, quell’amore di Dio nel quale hanno creduto e al quale intendono essere fedeli usque ad mortem.

Una scelta di vita radicale per tutta la vita

Esaurita la sua esposizione, Manicardi si è lasciato provocare da una serie di domande dei suoi interlocutori. Domande e risposte (che riprendiamo in una nostra sintesi) non potevano non rifarsi all’uno o all’altro dei punti della relazione. Così, ad esempio, gli è stato chiesto in che senso una persona che vorrebbe entrare nella VR non lo può fare. Può capitare, ha risposto, di incontrare persone buone, obbedienti, disponibili, servizievoli che vorrebbero, appunto, entrare nella vita monastica o religiosa, ma non possono farlo. Perché? Si tratta di persone alla ricerca immediata di un’identità a basso prezzo «senza percorrere il faticoso cammino di scavo interiore». Non si può pensare la VR come l’approdo in un porto, come la fine di una corsa o il raggiungimento di un traguardo. Non basta indossare l’abito per essere un monaco. Persone del genere ingannerebbero se stesse, anche se dotate di una spiccata intelligenza e di una propria personalità. Purtroppo, non perché dotate di tanti aspetti positivi possono automaticamente essere considerare adatte ad una vita comunitaria. La scelta della VR non va mai confusa con la ricerca di una collocazione, di una sistemazione.
La comunità può essere certamente «la prima grande narrazione dell’amore di Dio». Può favorire la rivelazione non solo d’indubbie potenzialità, ma anche di tante debolezze, negatività, fragilità. Ha la straordinaria facoltà di rivelare ad una persona se è «capace di obbedienza, di castità e di condivisione». Quando una persona si rivela inadatta alla vita comunitaria, con pazienza la si dovrebbe aiutare «a rendersi conto dei problemi che la abitano». Persistendo, diversamente, nella sua decisione, rischia di «rendere infelice se stessa e di creare problemi infiniti alla comunità».
Ci sono problemi psicologici, relazionali, affettivi, sessuali, che vengono troppo facilmente «rimossi o sublimati dal soggetto», il quale, spesso, non li vuole neanche riconoscere. Basterebbe ricordare l’episodio del giovane ricco che chiede a Gesù qualcosa di spiritualmente molto alto: «Cosa devo fare per aver la vita eterna?». Nella sua risposta Gesù fa capire che solo quando riconoscerà la sua povertà, la sua debolezza, le sue mancanze, allora, forse, si potrebbe aprire per lui la possibilità di una sequela. Fino a quando un religioso non arriva a vedere le lacune profonde che lo abitano, «è meglio che faccia un’altra vita».
Diversamente sarebbe preclusa in partenza una scelta usque ad mortem. Nel momento, infatti, in cui un religioso emette i voti religiosi, nella sua vita viene integrata anche la realtà della morte. Sia chiaro, precisa Manicardi, «tutto questo non ha nulla di macabro, anzi, è qualcosa di vitale». Del resto, tutta la tradizione cristiana occidentale «ha sempre detto che l’uomo si conosce e arriva a vivere bene, a scoprire che cos’è l’essenziale della vita, a partire dalla riflessione sulla morte, a partire dal riconoscere che l’uomo è mortale». In un tempo come quello attuale di rimozione della morte, sembra quasi una follia l’invito della Regola benedettina a tenere sempre davanti ai propri occhi la possibilità della morte. È un richiamo fortissimo a percorrere la via dell’umiltà, «ad aderire al nostro humus, a quel terreno che siamo, a quell’umano che siamo e che è finito, caduco, ma che, nella fede, è destinato alla resurrezione». Quante volte, quando una persona s’interroga sulla morte, si pone l’interrogativo su che cosa vorrebbe che restasse di lei dopo la morte! Un religioso dovrebbe andare dritto alla risposta: «l’amore, la gratuità, l’incontro con l’altro, l’amore per il Signore, l’amore per le altre persone». È esattamente questo il senso di una professione religiosa usque ad mortem, anche se sussiste sempre il problema del «come viviamo il tempo» nella VR. Manicardi affermando di non voler entrare nel merito del problema, si limita a ricordare che «noi costruiamo tante strategie per non essere coscienti del tempo, per narcotizzare la solitudine, che pure è centrale nella VR, che è il luogo spirituale in cui con maggiore forza si sente il trascorrere del tempo». Ma allora basterebbe ricordarsi che «pregare è dare del tempo a Dio».
Il futuro della VR e il distacco dalla famiglia

Una delle richieste di approfondimento che il relatore non poteva non sentirsi rivolgere era quella concernente il futuro della VR. «Io ho parlato poco del futuro. Non sono un indovino e non so come sarà la VR nel futuro. Non ne ho la più pallida idea e non mi vergogno di dire che non lo so». La conoscenza del passato, comunque, è determinante per vivere in modo «sensato, sano e magari anche santo» il presente. È sicuramente la forma migliore «per preparare il nostro futuro e quello della VR».
Di fronte alla mancanza di vocazioni e all’aumento di decessi e di abbandoni non è difficile ipotizzare la chiusura di singoli monasteri, conventi, comunità religiose. Anche solo a livello economico, la situazione è talmente grave dall’essere costretti, a volte, a pensare quasi esclusivamente al come gestire la propria fine. Questi momenti, comunque, «possono essere vissuti sensatamente, in modo umano e cristiano». È questa la ragione di fondo per cui «a fronte di prospettive future, io preferisco sottolineare gli elementi che oggi possiamo mettere in atto per vivere».
Un aspetto importante, in tal senso, ad esempio, è quello dell’abbandono della famiglia di origine. È vero che la VR viene da un passato contrassegnato da «atteggiamenti che sembrano e forse erano davvero inumani e che non sono assolutamente riproponibili oggi». Anche qui, il criterio determinante dovrebbe essere sempre quello dell’umanità di Cristo. Infatti, «Gesù ha vissuto una vita itinerante e precaria rompendo con il villaggio di origine e con il clan famigliare». Proprio guardando a questo esempio si pone la domanda: «come vivere con equilibrio il rapporto con i famigliari e la sequela Christi?». Nella VR il celibato «non è semplicemente il non sposarsi, il non fare figli, il non avere una vita coniugale, ma è anche, secondo i Vangeli, l’abbandonare padre e madre, casa e campi». La radicalità della sequela è un tratto evangelico talmente forte che «non può essere edulcorato o eluso». Basti pensare a Gesù quando dice che sua madre e i suoi fratelli «sono quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» Lc 8,21).
Ora, però, si chiede Manicardi, «come tradurre nell’oggi questa istanza di radicalità?». La sua risposta è immediata: «Mettendo, con molta intelligenza e duttilità, dei paletti chiari fin dall’inizio». A Bose, ad esempio, il primo anno, il novizio non va a casa, né i suoi vengono a trovarlo. Può telefonare ogni tanto. A partire dal secondo anno, va a casa una volta all’anno, normalmente per tre giorni. Anche i suoi genitori possono venire a Bose una volta all’anno. Questo è quanto avviene normalmente. Non mancano situazioni particolari di cui, con discernimento e intelligenza, tener doverosamente conto.
Ci sono, comunque, delle Regole liberamente accettate dai figli ed è bene che anche i genitori ne comprendano l’importanza. Il periodo del discernimento è fondamentale per aiutare il novizio a capire se quella intrapresa potrà essere veramente la sua nuova vita. L’esperienza insegna che i religiosi incapaci di un simile distacco, spesso, sono i primi «a cedere facilmente alla tentazione di rientrare nel nido famigliare quando interverranno i momenti di crisi». E questo, purtroppo, si può verificare anche più tardi, quando, passati un po’ di anni e tramontato l’entusiasmo degli inizi, «si comincia a sentire fatica e disillusione, crisi e demotivazione». Rientra nella radicalità cristiana anche la disponibilità a «tagliare dei ponti, a fare una scelta di non ritorno».
Ma un simile atteggiamento, ci si potrebbe chiedere, non è oggi fuori luogo, o forse anche rischioso? «Certamente, risponde Manicardi, ma anche la fede è un rischio!». Anche qui, però, l’esperienza insegna che «chi ha saputo, con maggior chiarezza e nettezza, porre una distanza con l’ambiente di origine, spesso si è radicato davvero nella comunità ed è fiorito in una novità di vita», arrivando poi ad assumere e a vivere con maggior libertà tutti i suoi rapporti precedenti, compresi quelli con i famigliari.

Il vero problema è sempre la vita comune

Il vero problema della VR, afferma Manicardi, non sta tanto nella povertà, nel celibato o nell’obbedienza. In una forma o nell’altra le soluzioni si trovano. Il vero problema sta «nella vita comune». È nel rapporto concreto con l’altro che «si misura la qualità del cuore». Gli stessi abbandoni della VR sono per lo più dovuti proprio «a problemi di rapporti intracomunitari». Senza voler enfatizzare più di tanto la vita comune, non ci si dovrebbe dimenticare che «nella prassi quotidiana la comunità è davvero il luogo decisivo in cui si manifestano le qualità del religioso e in cui emergono anche tutte le difficoltà».
In senso positivo, però, c’è chi non veda tutta la ricchezza della vita comunitaria. «Ci sono mille cose che il religioso mai avrebbe potuto fare se non nello spazio comunitario». La forza della comunità non è data solo «dalla somma delle capacità di ciascuno». In maniera più profonda questa forza attinge e s’innesta «sulla fede di tutti e di ciascuno». Solo in questo senso si può parlare di sacramentalità della vita comune», che è e rimane «la vera cartina di tornasole della VR di ciascuno».
In un certo senso è una via privilegiata alla santità. Ma in che senso si può oggi parlare di perfezione nella VR? Che la VR e le sue strutture siano imperfette «è un dato di fatto, anzi una ovvietà». Anche le Regole più belle e ispirate, infatti, «confessano esse stesse la loro imperfezione, la loro inadeguatezza e il loro essere semplicemente segno e rinvio all’unica Regola cristiana che è il Vangelo».
Nella vita monastica la Regola «è importante, ma insufficiente», dal momento che necessita dell’autorità di un abate o di una badessa, capaci di interpretarla e di renderla vivente sotto l’azione dello Spirito. A chi obiettasse sull’imperfezione della Regola, Manicardi risponde che «la stessa Chiesa ha nella sua struttura elementi d’imperfezione». Anzi, si dovrebbe poter parlare di non perfezione della Chiesa, dal momento che non la si può confondere con il Regno di Dio.
Tutti i religiosi, del resto, non fanno altro che confrontarsi quotidianamente con le proprie carenze, povertà, mancanze. Invece, però, di rimuoverle o di superarle a tutti i costi ricorrendo a «modelli di perfezione e di volontarismo», converrebbe «assumerle come luogo in cui è possibile aprirsi alla grazia, al dono di Dio». Infatti, «grazie alle nostre mancanze, lacune e ignoranze, noi diventiamo capaci di accogliere lo Spirito Santo che si posa sempre la dove c’è carenza, mancanza, difetto di vita». Paradossalmente, proprio la debolezza, la fragilità, e anche il peccato, possono diventare, sotto l’azione dello Spirito, «cammini di santità».
Certo, articolare l’azione dello Spirito nell’umano, negli spazi della volontà, dell’emozione, è tutt’altro che facile. È risaputo che lo Spirito agisce sempre su una biografia umana ben precisa, fatta di desideri, di istinti passionali, di emozioni, di pulsioni erotiche, di volontà, di impulsi dello Spirito. È a questo livello che, nell’accompagnamento spirituale, si tratta di «distinguere tra i desideri e il desiderio di Dio, tra i desideri umani e il desiderio dello Spirito». Discernere significa «ascoltare le parole, ma anche il non detto, la sofferenza, il corpo e il suo linguaggio». Solo in questo modo è possibile «aiutare l’altro a prendere contatto con la sua interiorità fino a far emergere, attraverso i desideri e le pulsioni, ciò che è più profondo, il desiderio dello Spirito».
La porta del cammino della VR si apre solo quando una persona «arriva a riconoscere, a dare il nome alle proprie precise debolezze e fragilità affettive, psicologiche, morali, intellettuali, e si dispone, con il suo accompagnatore spirituale, ad elaborarle e a metterle nella preghiera davanti al Signore». A nessun religioso viene chiesto «di non avere un’emotività magari fragile o di essere anaffettivi». Solo gli si chiede di accettarsi e di riconoscersi per quello che è, disposto a trasformare la propria fragilità in un cammino di santità.

Nuove forme di VR. Perché no?

Parlare del futuro della VR, significa interrogarsi seriamente sulla sua capacità di rinnovamento. A questo proposito, giustamente ci si chiede, spesso, se sia più facile rinnovare la struttura dall’interno o dall’esterno. Di fronte al rischio di facili «bizzarrie, follie, protagonismi di singoli avventurieri», il criterio suggerito da Manicardi è sempre quello della evangelicità di ciò che si fa. Quando non vi è nulla «contro il Vangelo» non ci dovrebbe essere nessun timore a dar vita a forme di VR che si possono anche discostare sensibilmente dai modelli, spesso anchilosati, ereditati dal passato. Senza un coraggioso discernimento, non è possibile «preparare il futuro».
Manicardi dice di aver presenti situazioni precise nelle quali alcune persone, motivate evangelicamente, in questa loro ricerca di “forme innovative”, incontrano ostacoli e opposizione. «E se lo Spirito stesse preparando qualcosa di nuovo proprio attraverso queste persone?». Quando si vede che il nuovo è conforme all’Evangelo, perché impedirlo?
Si dovrebbe sempre prestare molta attenzione a non trasformare un principio di vita in un principio di morte! È sempre più frequente il caso di congregazioni sorte, nel passato, per uno scopo ben preciso, ad esempio, in campo assistenziale, educativo, sociale ecc. Ma non appena lo Stato si assume in proprio queste stesse attività, le congregazioni religiose, se non sanno rinnovarsi a fondo, rischiano di trasformarsi in strutture anacronistiche, fuori dal tempo. Perché stupirsi, in questi casi, di fronte alla domanda di chi si chiede: «Perché farsi suora o frate?».
Quante volte si cerca di aggiornare, magari in maniera maldestra, il carisma di fondazione. Anche se Manicardi non ha ricette pronte all’uso, è però convinto che la via da percorrere sia quella di «essenzializzare e tornare all’Evangelo, ovvero fare ciò che sempre si è cercato di fare nei momenti di crisi nella Chiesa». Si dovrebbe sempre «ritornare alle fonti, all’essenziale della VR, caratterizzata dal celibato, dalla comunità, dal radicalismo evangelico, dal servizio, provando a ridire oggi la nostra fedeltà di religiosi». Se il carisma dovesse diventare qualcosa che schiaccia, che offusca quello Spirito che è origine prima di tutti i carismi, allora significa che si sta trasformando il carisma in un idolo. Ma così facendo, ci si dimentica che proprio il momento della difficoltà può essere l’occasione «per tentare una grande semplificazione». Solo lasciando pieno spazio allo Spirito sarà realmente possibile «rinnovare il carisma».