Il 2 agosto scorso si poteva leggere, nelle pagine interne del Corriere della
sera, un’interessante lettera aperta della scrittrice Susanna Tamaro intitolata:
Se la Chiesa non ha più padri. A partire dall’istituzione del Pontificio
consiglio per una nuova evangelizzazione dell’Europa, avvenuta in quei giorni,
la Tamaro compiva alcune considerazioni molto pertinenti circa l’atteggiamento
pastorale della Chiesa propiziando, credo, un utile esame di coscienza.
Il tono generale della lettera è un accorato appello a correggere l’istintiva
tendenza – decisamente clericale – a mettere sempre in discussione gli altri,
interpretando la “progressiva secolarizzazione” della società e l’ “eclissi del
sacro” tipica della postomodernità come un problema che riguarda l’altrui “grave
crisi del senso della fede cristiana e dell’appartenenza alla Chiesa”. E se
questo fenomeno rivelasse, invece, anche un problema legato al nostro modo di
essere preti e consacrati?
Mancano i padri e le madri spirituali
Il condizionale della domanda sopra formulata, in realtà, è un presente
indicativo: c’è un problema legato al nostro modo di essere pastori e
consacrati. Gli esempi offerti dalla Tamaro, tanto frequenti e sotto gli occhi
di tutti, non possono essere ignorati: numerose persone che, come lei, hanno
compiuto un percorso complesso per arrivare, o tornare, alla fede faticano a
trovare interlocutori che le aiutino, con rispetto e pazienza, ad approfondire
la conoscenza del Cristo dei vangeli e coniugare l’unica chiamata alla fede con
i passaggi tipici del loro percorso di vita, segnato da problemi, difficoltà e
dubbi del tutto personali; vi sono uomini e donne che, a motivo delle alterne
vicende della vita, si trovano a mettere dolorosamente in questione scelte
compiute e valori fino ad allora accettati e che spesso non trovano un ministro
che ascolti pazientemente, che cerchi di capire il vissuto personale e guidi poi
alla comprensione del valore, senza limitarsi a giudicare; è frequente trovare
ministri e comunità parrocchiali intensamente dedite alla carità materiale, ma
che faticano a vivere il contatto con le inquietudini delle persone “normali”, a
stare accanto a chi vive problemi, dubbi, crisi, in un’istintiva fuga verso le
opere di carità, più facili da controllare nei risultati, meno complesse e
laboriose da accompagnare…
La conclusione a cui giunge la Tamaro è che «mancano i padri e le madri
spirituali, persone credibili, che abbiano fatto un cammino, che conoscano la
complessità e la contraddittorietà della vita e che, con umiltà e pazienza,
sappiano accompagnare le persone lungo questa strada, senza giudicare e senza
chiedere risultati. (…) Non occorrono nuovi “input”, nuovi dicasteri, nuove
sfide, nuovi raduni oceanici. Occorre soltanto ricordarsi che nell’uomo esiste
una parte di mistero e che questa parte va nutrita».
Non so quale ricaduta abbia in noi l’invito del pontefice a una nuova
evangelizzazione del nostro continente. Di certo anche tra non pochi preti e
consacrati si percepisce una certa allergia a nuovi dicasteri e a esortazioni a
trecentosessanta gradi, anche un po’ scontate. O meglio: è evidente la necessità
di fare qualcosa di fronte al fenomeno crescente di indifferenza e marginalità
del “religioso” (che non significa automaticamente “rifiuto di Dio”!), ma è
anche evidente che non è a forza di proclami che la situazione migliora. Ha
ragione la Tamaro quando suggerisce che, «se una nuova evangelizzazione ci deve
essere, dovrebbe dunque riguardare prima di tutto gli uomini e le donne della
Chiesa, responsabili purtroppo – in molti, troppi casi – dell’allontanamento
dalla fede di tante persone di valore. Forse è il momento di capire che non è la
quantità dei sacerdoti, ma la qualità a fare la differenza. E la qualità non
dipende dalla preparazione teologica, dai convegni, dai master accumulati, ma
dalla purezza dell’anima che si arrende alla Grazia». Perché «un’anima arresa è
un’anima che converte, che disseta. Un’anima che traffica, organizza, o si
assopisce sui suoi privilegi, è un’anima che allontana». C’è bisogno, allora, di
nuovi dicasteri, nuovi segretari, nuovi poteri, nuovi bilanci, «o c’è bisogno
piuttosto di una grande cura di umiltà? Cancellare i moralismi, i pregiudizi, la
pigrizia, la sete di potere e tutta quella zavorra che nulla ha a che vedere con
la fede e appesantisce e rende ostile il cattolicesimo agli uomini
contemporanei. I nostri tempi hanno bisogno estremo di santità, come ha detto il
Papa di recente nell’anno sacerdotale, perché davanti alla cosificazione
dell’uomo, è l’unica condizione che lo riporta alla straordinaria grandezza per
cui è nato».
Fede, conversione e mediazione
Il contenuto della lettera della Tamaro mette in evidenza un paio di elementi
scontati nella teoria, ma non sufficientemente tenuti in considerazione nella
pratica, e cioè l’importanza centrale della fede e conversione personale, e
l’importanza della mediazione nel cammino della fede di ciascuno. Entrambi vanno
messi al centro del cammino formativo: fede e conversione personale come un
percorso serio e mai concluso, e coscienza del particolare ruolo di mediazione
che segna la vita del prete e del consacrato.
La vocazione cristiana è per tutti una chiamata alla fede nel Dio di Gesù, un
cammino di conversione per arrivare a essere santi e capaci di amare come Dio.
Il cammino del prete/consacrato ha poi un valore ancor più specifico, poiché
definisce lo stesso stile del suo atteggiamento pastorale, riconducibile – per
essere brevi – allo stile delle parabole del capitolo 15 del vangelo di Luca.
Purtroppo, per quel che riguarda la mediazione, tutti sappiamo che molte persone
sono lontane dalla fede non per una consapevole scelta di rifiuto di Dio o di
esclusione della dimensione del mistero nella propria vita. Alcuni, è vero, si
trovano “lontani” perché ignorano, o rifiutano, i contenuti della fede, ma altri
lo sono per esperienze negative vissute con i rappresentanti della Chiesa nella
propria adolescenza, giovinezza o in momenti critici della loro vita. In questi
casi, il rifiuto della persona che ha causato sofferenza è divenuto rifiuto di
tutto il “pacchetto-religione cattolica”.
Perché accade questo? Una delle ragioni principali è lo scarso livello del
cammino di crescita umana e spirituale curato dalla formazione. Un’altra ragione
sta nella tendenza tipicamente clericale di attribuire al dato
contenutistico-razionale, e dottrinale-normativo, un primato pratico nel
discorso della fede. Senza negarne l’importanza, è bene ricordare che questo
elemento dovrebbe centrarsi sempre sul Vangelo. Inoltre, non va mai disgiunto
dal dato relazionale, cioè la valenza interpersonale che si gioca in ogni
relazione umana, anche quella pastorale, e dal dato emotivo-affettivo che sempre
accompagna la trasmissione dei contenuti.
La rivelazione di Dio, della sua volontà e del suo mistero di amore è realtà che
si veicola sempre per mezzo di mediazioni, in un processo di assunzione
dell’umano che è già in sé manifestazione e proclamazione della bellezza del
creato e dell’umanità presa così com’è, e posta in condizione di essere
espressione del Dio che ci viene incontro, che vuole dialogare con l’uomo e non
può stare sereno – ci si passi l’espressione – senza quel libero interlocutore
che è l’uomo.
Riconoscere in Cristo il mediatore tra Dio e l’uomo non fa problema. Ma se si è
ben compreso questo suo ruolo, tanto centrale da segnare tutta la sua esistenza,
non ci dovrebbero essere problemi a riconoscere come sia una caratteristica
partecipata alla nostra umanità quella di esprimere parole, gesti, affetti che
“dicono” un contenuto che ci trascende e si prestano a diventare incarnazione di
un bene e un amore che ci superano. È la nostra umanità che Dio veste, facendola
diventare, con tutti i limiti che la caratterizzano, “luogo” della sua
rivelazione, d’incarnazione oggi del suo progetto inesauribile di Bene.
La coscienza di essere mediazione dell’azione di Dio conduce a interrogativi
seri. Noi, preti e consacrati, siamo custodi di regole e norme giuridiche o
pastori del gregge di Dio, con lo stile di Cristo? Riusciamo a gioire, come
gioisce Dio, quando un uomo o una donna alla ricerca della verità si rivolgono a
noi, o siamo più preoccupati del nostro disagio, dal non saper cosa dire o cosa
fare di fronte ai problemi e interrogativi posti da chi ci interpella? Siamo o
non siamo più contenti di un solo peccatore che si converte e vuole tornare a
casa che non di cento giusti mai usciti dall’ovile? Siamo disposti a “spazzare
tutta la casa” per ritrovare la dracma perduta, o siamo contenti solo di coloro
che non si sono mai smarriti?
Se questi atteggiamenti evangelici non costituiscono i nostri criteri
valutativi, e non ci provocano sufficientemente, significa che abbiamo paura
della realtà che è sempre complessa, densa di momenti critici; che non abbiamo
il gusto di ammirare e prenderci cura del modo imprevedibile con cui la Vita
vuole farsi spazio nel cuore di ogni persona. E se abbiamo paura della
complessità, significa che la vita e la formazione di noi “ministri” non ha
fatto i conti con quelle “sfide” evolutive che costituiscono un percorso di
crescita – umana e spirituale – realistico, autentico. E significa che il
Vangelo non abita ancora dentro di noi nella sua valenza più sorprendente,
quella dell’amore gratuito di Dio che accoglie tutti, senza far conto del loro
passato o delle motivazioni che li muovono.
Chi non ha vissuto intensamente, accettando e confrontandosi con le lotte
implicite nella vita, non può aiutare altri a vivere; chi non ha imparato a
stare in cammino, affrontando quotidianamente le proprie fragilità e
contraddizioni, non saprà aiutare chi vuole camminare verso la meta. Per questo,
alla fine, risulta molto più rassicurante, semplice e sbrigativo accontentarci
dell’immediatezza esteriore: confrontare le persone sui comportamenti morali,
controllare l’ortodossia della fede, il rispetto delle norme, ed esigere
risultati… alla luce del diritto canonico più che del Vangelo.
La legge dello Spirito
Qualcuno farà notare, opportunamente, che l’ortodossia, la morale, le regole
nella Chiesa non solo hanno il diritto di esistere, ma sono necessarie. Vero! Il
punto sta, come dicono i saggi, nel fare una cosa senza dimenticare l’altra. O,
come dice Gesù, avere il coraggio di portare fede, morale e legge alla loro
pienezza nella logica dell’amore di Dio. Non si tratta di negarle o svalutarle,
ma di viverle alla luce della misericordia infinita di Dio.
L’amore non si improvvisa. Lo si conosce solo per esperienza, perché si
sperimenta una benevolenza, un affetto che ci coglie così come siamo e ci fa
degni di stima, con tutti i nostri limiti e difetti. Qualcuno ha aperto il suo
cuore e mi ha fatto spazio, ha intuito il mio bisogno di senso, di amore e me lo
ha donato: ora anch’io sono chiamato, e posso, fare lo stesso.
Forse è proprio per questo che non ci si improvvisa “padri” o “madri”
spirituali. Perché se non si è sperimentata nella propria vita la misericordia
di Dio, unilaterale e senza condizioni, sempre immeritata da parte nostra, non
si è in grado di viverla, di offrirla ed esserne servitori nei confronti dei
fratelli. C’è molto che dovrebbe cambiare perché il cammino formativo che
prepara presbiteri e consacrati possa metterli in condizione di essere
potenziali “guide” spirituali. Non si tratta dell’eterno dilemma: «o la legge o
lo Spirito», perché entrambi sono fondamentali. Ma c’è una priorità dello
Spirito che non può essere ignorata.
Crescere nello Spirito è il tema essenziale del cammino cristiano; dovrebbe
esserlo ancor di più nel cammino formativo dei preti e consacrati. L’obiettivo
della santità non è un optional, ma il filo rosso che caratterizza tutto il
cammino formativo, utilizzando tutti i mezzi possibili per fondare la persona
sulla roccia che è Cristo. Se e quando si cresce in un autentico spirito
evangelico si diventa capaci di avere in noi i sentimenti di Cristo e capire i
fratelli nella logica del «che nessuno vada perduto di quanti mi hai dato». E si
diventa più capaci e credibili nel proporre, dopo, anche un cammino che porti
alla conoscenza e rispetto delle norme che regolano la vita della Chiesa.