È certamente importante che la vita consacrata continui ad essere presente nella Chiesa, appartenendo indiscutibilmente – dice il concilio – alla sua vita e alla sua santità. Il presupposto per esserlo sta però nella capacità di intraprendere il cammino indicato nel titolo di questa riflessione, preso dal prologo di come forestieri (di Armando Matteo) che nel racconto evangelico dei “Magi”, intravede il cammino della Chiesa. I magi – è detto – incontrarono sacerdoti che sapevano leggere le profezie ma dimostravano di non cercare più nulla, e un “re” che sembrava interessarsi della cosa da lontano: “fatemi sapere”. Ma un “sogno” li invita a percorrere altri sentieri per ritornare a casa .

Ritornare a casa

Con il dire “casa” si intende quella realtà da cui si è partiti. Per i cristiani sono le prime esperienze orientatrici di Gerusalemme e di Antiochia, dove ci si riconosceva fratelli; dove il primo era chiamato a mettersi all’ultimo posto e colui che comandava, ad agire come uno che serviva. Dove non ci si curava della propria sopravvivenza perché fiduciosi nella promessa del Signore che garantiva l’indefettibilità. Di casa era l’esperienza dell’effusione dello Spirito Santo; era l’andare contenti al martirio; era la sintonia con gli Atti degli Apostoli, e poi con i movimenti profetici che riassumevano la dimensione evangelica della povertà, del servizio, della rinuncia d ogni sfarzo e dominazione, dell’inserimento tra gli emarginati. Da qui l’identità del discepolo, data non da una teoria ma da uno stile di vita che si lega a quello del Figlio dell’uomo che nel congedarsi dai suoi lava i piedi ai commensali, gesto che diventa per i suoi una scelta irrinunciabile, tanto che Gesù minaccia di escludere Pietro dal suo seguito se non fa propria la lezione che sta dando. Così è stato, con alternativa intensità, nei primi tre secoli.
Il cammino che ha portato fuori casa è iniziato con l’era costantiniana quando la Chiesa si è trasformata in un grande feudo degli imperatori, con diritto di organizzazione istituzionale, centralizzazione burocratica, cariche, titoli e culto della personalità. E da comunità che era, si portò ad essere «società», analoga e competitiva con quella statale. Non stupì più di tanto quando Gregorio XVI (1831-1846) sentenziò: «Nessuno può disconoscere che la Chiesa è una società di disuguali in cui Dio ha destinato alcuni come governanti e gli altri come servitori». Era l’idea corrente ma non quella di Colui che aveva detto «voi però non fate così » (Lc 22,26). La categoria chiave di auto-comprensione della Chiesa era diventata la “potestas” al posto del servizio, e quando il potere diventa l’orizzonte, a partire da questo, tutto, anche il Vangelo, viene compreso, assimilato e annunciato. Ad esempio, Gesù dicendo “chi ascolta voi ascolta me e chi disprezza voi disprezza me” intendeva dire che il missionario, annunciando Cristo e il suo mistero, se viene rifiutato, allora si sappia che non è stato accolto lo stesso Cristo. Queste parole invece sono state interpretate non nel rapporto Chiesa-mondo ma nella relazione comunità-governo, in chiave di legittimazione di quest’ultimo. Con il passare del tempo le interpretazioni riduttive si sono moltiplicate e la cristianità si è così assuefatta a tale configurazione della Chiesa, da pensare raramente che avrebbe potuto essere diversa.

…rientrando per altra via

Per ritrovare la casa da cui si è partiti, il contributo determinante è venuto dal concilio con il recuperare lo stato di salute teologica da secoli compromesso. Già da tempo teologi come Congar andavano dicendo che «bisognava fare una revisione molto coraggiosa della storia delle istituzioni ritornando alle fonti spirituali», e Romano Guardini nel 1922, anticipando le prospettive del concilio, aveva iniziato il suo libro, Il senso della Chiesa, dicendo che già era iniziato un fenomeno religioso di incalcolabile portata. Questo giunse a compimento con la svolta dottrinale avvenuta con il Vaticano II che riportò la Chiesa al senso originario di comunità di credenti definendola fondamentalmente «popolo santo di Dio». Giovanni XXIII nel discorso inaugurale aveva detto: «Nel presente momento storico, la Provvidenza ci sta conducendo a un nuovo ordine di rapporti umani che al di là della loro stessa aspettativa si volgono verso il compimento di disegni superiori e inattesi (Ev 42*). Alla Lumen gentium si accompagna, chiarificandola, la dichiarazione sulla dignità della persona umana che, secondo Karl Rahner sarebbe stata la più carica di conseguenze. Nella prima parte di questa, in estrema sintesi, si dice che la vera dignità dell’uomo richiede che egli non sia semplicemente l’esecutore di ordini dettati da altri, ma che nel suo agire egli ha un suo proprio giudizio e possiede una libertà responsabile e di ciò deve farne uso. Questi i riferimenti per capire cosa ci stia sotto i termini popolo di Dio, e quali le funzioni dei suoi membri chiamati laici non più identificabili con coloro che sono solo beneficiari di quanto il corpo dei sacri ministri produce ed esecutori delle loro decisioni, ma tutti partecipi, in modi diversi, delle funzioni di Cristo e della sua dignità regale, profetica e sacerdotale.
Sono state così poste le premesse – in verità nella pratica ancora troppo vaghe – per una reinterpretazione delle funzioni della comunità credente. Una comunità, nel dire del teologo W. Bühlmann, che per essere a misura del suo Fondatore, non ha bisogno di príncipi, ma di santi, di martiri, di testimoni della giustizia e della dignità dell’uomo; di gente con il grembiule ai fianchi, come il servo Gesù «il quale non esige, sostiene; non pretende, si prende cura; non rivendica diritti, risponde ai bisogni» (E. Ronchi).

La vita religiosa e il viaggio verso casa.

Per fare questo – oltre a una prassi ispirata ai principi sopra espressi – non deve temere di prendere le distanze da se stessa, da un certo stile, da un determinato linguaggio, da un collaudato universo concettuale. Libera dal superego che la vuole fedele a una immagine di sé che non tiene più. Per questo fine deve privilegiare le domande piuttosto che le risposte colte da quel saputo che non richiede riposizionamenti cognitivi ed emotivi. È per questo che i religiosi/e si sono trovati fuori casa, cioè a non essere riconosciuti come trasparenza di esistenza cristiana ricca di umanità nuova, ma come coloro che vivono perché hanno ormai preso determinate abitudini di pensiero e di vita. Per essere trovata credibile e appetibile nel suo ruolo profetico, la VR deve riuscire a creare nuovi schemi, in funzione degli appelli della storia, in termini di giustizia, dignità della persona, impegno con gli umiliati della storia, attraverso comunità che diano attualità, presenza, incidenza storica del Vangelo.
In questa impresa potrebbero avere maggiore possibilità di riuscita quelle famiglie religiose le quali:
più che a norme statutarie, si richiameranno a una serie di ideali e di valori espressi in termini che tutti possono cogliere, con forme dinamiche e duttili;
sapranno assumere, a differenza dei secoli precedenti, un’andatura di vita, che le affianchi alla più schietta laicità;
guarderanno con simpatia ad alcune caratteristiche della postmodernità, ad esempio quella di preferire alla cultura scritta (documenti) quella parlata espressa in una forma spontanea, senza paura di esprimere l’ emotività, l’intuizione, il sentimento, il canto, la festa;
daranno corpo a quella speranza che non è rimando a chi sa quando, ma inquietudine nel presente, che si fa – com’era nel dire dei teologi medioevali – «expansio animi ad magna», apertura del cuore a cose grandi;
sapranno far convergere due differenti paradigmi, quello antropologico e quello religioso;
non si accontenteranno che la logica della croce sia presente nella fedeltà dei voti personali, ma si adopereranno affinché sia riscontrabile nell’ istituzione stessa;
non eviteranno le strade che sembrano pericolose, perché la novità oggi emerge sempre fuori dai luoghi sicuri, protetti e convenzionali» (T.J. Rasera sds).

La vita religiosa per ricuperare in credibilità e fascinazione, non ha che ritornare a quella «casa» da cui è partita, vale a dire all’essere annuncio di un nuovo tipo di società fraterna resa possibile con la scelta della povertà – personale e istituzionale – intesa come comunione di beni (condivisione, solidarietà, sobrietà) ma nello stesso tempo come rilettura delle fonti della fede non fatta con gli occhi di chi comanda ma di chi «serve». Questo è il dono che i religiosi/e possono e devono fare alla Chiesa perché in questo sta l’essenza della loro vocazione, essere sovrabbondanza di trasparenza evangelica.

È tempo di potature

Per rendere possibile quanto fin qui detto la vita religiosa ha bisogno di liberare il nucleo centrale dalle sovrastrutture delle quali nel corso dei secoli è andata appesantendosi caricandosi di concetti percepiti più che analizzati, vissuti più che pensati. Nucleo centrale è unicamente ciò che la fonda e non tutto ciò che la distingue. L’accumulo ideologico e di tradizioni è stato possibile perché l’uomo dei secoli passati costruiva il proprio futuro con l’assimilazione di quanto riceveva dai suoi predecessori, rendendo il tutto immutabile pensandolo fondato, per una lettura ingenua e acritica del dato biblico, sul deposito della rivelazione. Oggi molte di queste idee e prassi sopravvivono a se stesse senza che ci si renda conto di quanto siano ingannevoli. «È tempo di agire attraverso la via del togliere piuttosto che non quella dell’aggiungere. Siamo così inebriati di una cultura dell’aggiungere che togliere ci sembra perdita, depressione, rendere carente: ma nessuno direbbe così del lavoro dello scultore. Togliere per cercare la forma, togliere per lasciare bellezza, togliere per rendere parlante ciò che è informe. Togliendo il superfluo, levigando, lavorando… insomma decrescendo si può giungere alla bellezza leggera dell’essenzialità, a una forma più trasparente di presenza, alla verità disarmante delle identità» . S. Basilio a chi gli domanda quale impegno dovessero esigere gli uni dagli altri coloro che vogliono vivere insieme secondo Dio, egli risponde: «quello che ha chiesto il Signore stesso a chiunque va a lui: Se qualcuno vuol venire a me rinunci a se stesso prenda la sua croce e mi segua». S. Agostino stabilisce per i suoi le seguenti direttive: «tutte quelle cose che non trovano fondamento nella S. Scrittura…. quelle di cui non si riesce a vedere quali scopi perseguano, si devono semplicemente abolire. Sebbene non contraddicano la fede, appesantiscono la religione, che dev’essere, secondo il disegno di Dio, libera da sovraccarichi che la rendono schiava e di forme culturali semplici e chiare». Il Maestro aveva detto che non si devono creare fardelli religiosi che nessuno può portare con una infinità di leggi e riti (Mt 23,4.23); san Paolo scrive: «tutto sperimentate e ritenete ciò che è buono» (1 Ts 5,21); e san Giovanni: «rimanete in ciò che fu da principio» (1 Gv 2,7.24; 2 Gv 5), che significa: diventate più “tradizionali” e meno tradizionalisti, per non far divenire più sacra la storia che il Vangelo.