Ci si rende sempre più conto che per contribuire in modo efficace alla causa del vangelo oggi bisogna procedere insieme. Vale per la chiesa in generale e per i consacrati nei rapporto tra di loro e con la chiesa, soprattutto la chiesa particolare di cui sono parte.
I consacrati della diocesi di Como si sono messi con convinzione su questa strada (cf testimoni, n. 21/2009, p.8)) e la portano avanti partecipando sempre molto numerosi agli appuntamenti che scandiscono il percorso, sotto la guida intelligente e tenace di don Attilio Mazzola, vicario generale per la VC in diocesi, e con il sostegno cordiale e convinto del vescovo, mons. Diego Coletti.
L’ultimo appuntamento ha visto la partecipazione di 130 tra religiosi, religiose e membri di istituti secolari il 4 sett. scorso a Nuova Olonio in Valtellina. La parola del vescovo, presente al convegno per tutto l’arco della giornata insieme al vicario generale, ha vivamente incoraggiato i presenti a proseguire in un impegno che, visto nel suo aspetto di cammino fatto insieme, ritiene di enorme importanza sia per la VC che per la chiesa di Como.
Qui di seguito pubblichiamo la relazione, molto apprezzata dai convenuti, di p. Luigi Guccini scj, sul tema “Consacrati per il vangelo, il nostro servizio alla fede oggi.” La relazione stessa è stata preceduta da un sondaggio presso le comunità, invitate ad esprimere le loro valutazioni e aspettative, che poi dovevano servire al relatore per impostare un discorso che rispondesse il più possibile alle esigenze degli ascoltatori. Ne è venuto un “convenire” veramente vissuto insieme e che ha motivato ancor più tutti i presenti e continuare.


Nella prospettiva della pastorale della santità

Siamo qui per riflettere ancora una volta sul contributo che, come consacrati, siamo chiamati a dare alla vita di fede di quelli che incontriamo e ci frequentano. Una riflessione che ci vuol invitare a verificare se il nostro modo di essere e di operare – le nostre comunità e opere – aiutano davvero in questo, e a quali condizioni potrebbero eventualmente aiutare di più.
Non siamo soli in questa riflessione. Si è tenuto da poco proprio nel nostro centro di Capiago l’ultimo convegno nazionale del COP sul tema Nuove forme di comunità cristiana. Le relazioni pastorali tra clero, religiosi, laici e territorio, e mons. Sigalini, il presidente, ha sintetizzato i lavori così: «Occorre mettere al centro della pastorale la contemplazione dell’amore di Dio e la necessaria conversione della vita, invece della pianificazione delle attività; le risorse umane invece delle sole strutture; il guardarsi negli occhi invece che guardare alle bacheche degli avvisi o in Facebook; il progettare insieme dopo essersi confrontati, invece delle risposte privatistiche di sopravvivenza; la stima reciproca tra diversi carismi e ministeri, invece dell’antagonismo pastorale; la comunione come dono di Dio, invece di tavoli di concertazione» (in Settimana, 26/’10 – p. 1).
È esattamente questa la linea che guiderà anche noi oggi. Procederò in modo semplice e concreto tenendo a punto di riferimento la VC che noi siamo qui e adesso. Comprese le comunità di anziani, le case di riposo e le infermerie; e poi le comunità e opere in attività, in cui però le persone che se ne fanno carico non sarebbero in grado di evolvere verso nuovi tipi di presenza e di operatività, e tuttavia continuano a dare un contributo straordinario per la causa del vangelo.

In una vita religiosa “apostolica”

Dobbiamo ricordare anzitutto che ogni forma di VR è apostolica. Esistiamo per questo. È Dio che chiama e chiamando affida un compito: ogni vocazione è per la missione. Anche il monachesimo e la vita claustrale.
VR apostolica anche in termini anticipatori-profetici: sono stati il più delle volte i religiosi che “si sono accorti” delle domande importanti e hanno risposto: i benedettini ai tempi delle invasioni barbariche; gli ordini mendicanti nel medio evo; gli ordini clericali ai tempi delle grandi scoperte e della riforma; dall’800 in avanti i nostri stessi istituti di “vita apostolica”… Possiamo dirlo in termini generali: nei momenti dei grandi cambiamenti sono stati il più delle volte i religiosi che “hanno capito” e hanno dato le indicazioni decisive per il cammino della chiesa (e della storia). E hanno parlato con la vita, cioè hanno fatto vedere vissuto ciò che avevano capito.
Tutto questo ci richiama due cose: primo, l’importanza che ha per noi la consapevolezza che siamo “per gli altri”, per la Chiesa; secondo, il significato che, in questa prospettiva, assume la vita consacrata nella Chiesa. Diverse risposte delle comunità insistono su questo secondo punto chiedendo che venga meglio chiarito. Le religiose lamentano che non trova riscontro il significato della loro presenza nella chiesa; i religiosi aggiungono che troppo unilateralmente e univocamente sono considerati per le funzioni di supplenza che possono offrire nelle parrocchie.
Non ho spazio per indugiare su questo. A me sembra – me l’ha confermato anche il convegno del C.O.P. citato all’inizio, che pure aveva all’ordine del giorno il tema delle nuove comunità – mi sembra che continuiamo a pensare le cose in modo troppo clericale, e questo non va – non credo che piaccia molto al Signore. Vien quasi da pensare che forse Dio lascia diminuire i preti anche perché vuole che apriamo gli occhi su tanti altri doni e risorse che lui ha messo nella sua chiesa e che attendono di essere valorizzati. Anche gli istituti femminili attendono che si aprano loro degli spazi nuovi di presenza e di servizio: non credo sia sbagliato pensare che dipende anche da qui – forse soprattutto da qui – la ripresa delle vocazioni nel campo della VR femminile.

Non prima di tutto ciò che ci distingue.


La VC ha risposto alla sua missione in forme molto diverse a seconda dei tempi e delle situazioni. Ma dobbiamo sottolineare una cosa, soprattutto in riferimento alla nostra situazione di oggi, ed è questa: ciò che specifica la natura apostolica della VC non sono le forme diverse. Ripeto: non sono le “forme diverse”. È precisamente qui uno degli equivoci che ci ha portato e ci porta a definire la nostra vocazione e missione a livello del “fare”. La missione che ci è affidata si esprime anche nel “fare”, ma non si decide né si definisce a questo livello: sta più in profondità.
Già questo ci rimanda a un’altra osservazione che mi pare importante. Noi parliamo di sinodalità e dell’importanza di fare chiesa. Ora, a me sembra che, se ci definiamo a livello delle forme di VC e, nella prospettiva apostolica, a livello del “fare”, rischiamo di separarci ognuno per conto suo: ognuno nella propria specificità. E invece di trovare la via della sinodalità e della comunione nell’unica Chiesa, andiamo dall’altra parte. Dobbiamo scendere più in profondità, a ciò che ci unisce e non a ciò che ci distingue.


Quale idea di missione

Ritorniamo al punto già accennato: l’idea che abbiamo di VR apostolica e di missione: c’è un concetto in cui tutti ci possiamo ritrovare?

Anche il lavoro e l’attività apostolica.

Non c’è dubbio che c’è di mezzo anche il “fare”, il lavoro e l’attività apostolica, con tutto ciò che di più specifico ci è chiesto, ciascuno secondo il carisma proprio. Nella vita di tanti di noi, penso la maggioranza, è attraverso di questo che si realizza quel dono di sé che è parte essenziale della missione. Paolo stesso ci tiene a ricordare che ha lavorato più di tutti, e rivendica questo come parte importante della sua dedizione apostolica, ma si guarda bene dal ridurre tutto qui.
Mi piace citare su questo l’affermazione di una comunità: «la missione non è “fare”, anche quando si tratta di cose molto belle. La missione è testimoniare una presenza. Attraverso il “fare” vissuto in una certa maniera, si annuncia il vangelo e si costruisce insieme agli altri il Regno. Missione è incontrarci con il Signore Gesù e nella gioia portare questo annuncio agli altri».

Al punto di partenza la vocazione.

Significa allora che prima del lavoro – Paolo lo ripete in mille modi – c’è una vocazione e un mandato che vengono da Dio. Certamente l’abbiamo notato: nella Bibbia, l’esperienza dell’incontro con Dio rimanda sempre alla missione; e nello stesso tempo non ci può essere missione senza l’esperienza dell’incontro. Proprio questa seconda cosa è fondamentale.
Pensiamo alla vocazione di Mosè, di Isaia, di Geremia e di tutti gli altri chiamati. In Lc 5,1-11 la vocazione dei primi quattro discepoli avviene dopo la pesca miracolosa, dove Gesù rivela la sua gloria. Per Paolo avviene sulla via di Damasco, ma è sempre così: è l’esperienza dell’incontro che diventa missione. Senza questa esperienza ci potrebbe essere missione? certamente no!
E notiamo anche questo. In Gv 21, dove Gesù conferma il suo mandato a Pietro, ciò che precede è ancora la pesca miracolosa; segue la triplice domanda di Gesù: Pietro mi ami tu? e la risposta dell’apostolo: certo, Signore, tu lo sai che ti amo. E Gesù: pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle. Alla terza domanda, Pietro rimane addolorato e dice: Signore, tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene. A che cosa si riferisce Pietro con quel “tu sai tutto?”. Certamente a ciò che è accaduto là, nel cortile del sommo sacerdote: Tu lo sai, Signore che cosa è capitato là, come potrei non amarti?
Voglio dire che c’è di mezzo anche il peccato, l’esperienza di essere, proprio noi chiamati, dei peccatori. L’incontro vero e nell’incontro la conoscenza di Dio – e di noi stessi in Dio – avvengono lì, nell’esperienza del nostro essere perdonati. È lì la radice della vita spirituale vera, e da lì viene la possibilità di “pascere”, cioè di aiutare gli altri nella vita di fede. Lo ricorda ancora Gesù a Pietro e non lo si può dimenticare: “Io ho pregato per te, Simon Pietro, perché non venga meno la tua fede e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32): ora non puoi, lo potrai dopo! Grande lezione anche per noi e per tutti quelli che si prendono cura degli altri nella fede. Ma dobbiamo raccogliere alcune altre indicazioni importanti guardando a Gesù e poi a Paolo.

Guardando a Gesù.

Su Gesù mi limito a questa semplice annotazione, che dice già tutto. È lui il Salvatore, ed egli ha trasmesso a noi non una missione qualsiasi, ma la missione che ha ricevuto lui stesso dal Padre. “Come tu mi hai mandato nel mondo, così anch’io li ho mandati nel mondo. Per loro io consacro/offro me stesso, perché anch’essi siano consacrati nella verità (Gv 17,18s.).
Ma notiamo questa cosa: Gesù non ha salvato il mondo organizzando opere apostoliche né a chiesto a noi sua Chiesa di puntare tutto lì. Semmai è proprio su questo che l’ha tentato il diavolo nel deserto: se sei Figlio di Dio usa del tuo potere, di’ che queste pietre diventino pane: tutti ti verranno dietro e avrai risolto il problema! L’uso del potere per costruire il Regno! Gesù non poteva prendere questa strada perché Dio non è potere ma amore, niente altro che amore. Notiamo questa cosa che ci fa venire la pelle d’oca solo a pensarci: per salvarci Gesù non aveva altro che la sua vita da dare, e l’ha data.
Questa è la strada che ha indicato anche a noi. Ed è già un primo punto su cui sostare, un lavoro da fare anche nelle nostre comunità: domandarci che spazio ha – nella concezione che abbiamo di vita apostolica – l’offerta e la consumazione della nostra vita, cioè la croce come dono di sé. Per esempio e in particolare, nel nostro modo di considerare e di vivere l’attuale momento della VC e della Chiesa. Abbiamo alle spalle un passato glorioso – così ci pare di poter dire – e ci sembra di essere sprofondati in un terribile stato di povertà: come lo viviamo?Anche il mondo, anche la nostra società sembrano avviati verso un inarrestabile declino: come viviamo tutto questo? qual è la parola che come cristiani e consacrati ci sembra di dover portare e stiamo portando al mondo?

Paolo apostolo

Lo stesso messaggio di Gesù ci è riproposto da san Paolo.

a) - Partecipe della pasqua di Gesù. Paolo è l’apostolo delle genti. Ha lavorato molto, senza sosta, anche più degli altri – lo dice lui stesso – ma non è in questo che fa consistere la sua opera apostolica. Una tesi di dottorato – di don Jovino – che notammo con molto interesse già quando ero a Bologna, al centro dehoniano, ha dimostrato che l’apostolo Paolo sintetizza la sua vocazione/missione di apostolo nella thlipsis. Thlipsis vuol dire tribolazione, ma per Paolo non significa semplicemente questo: indica piuttosto la realtà di sacrificio e dono di sé che sta dentro alla sua opera di evangelizzazione e si esprime in essa.
Altre parole frequenti in Paolo, sempre in questo contesto, sono: kòpos: fatica, pena, peso da portare (1Ts 1,3); ypomonè: costanza nella prova e nelle difficoltà, perseveranza (Rm 12,12; 1Cor 13,7); agòn: lotta per il vangelo (1Ts 5,12; 2Cor 6,6; Col 2,2). Sono tutte parole che rimandano al mistero della croce e alla Pasqua di Gesù. Paolo sa di poter contribuire all’opera della salvezza perché la sua vita di apostolo lo associa alla sorte di Gesù, agnello immolato per la salvezza del mondo. «Compio in me ciò che, nella mia carne, ancora manca alla passione di Cristo per il suo corpo che è la chiesa» (Col 1,24. cf 2Cor 4,10ss).

b) - Una dedizione creativa. Questa incondizionata dedizione di Paolo alla causa del Vangelo ha un’unica spiegazione: l’amore – l’amore di Cristo per lui e il suo per Gesù. Quando Paolo si trova a dover rispondere a quelli che lo accusano di esagerare e di essere un po’ esaltato, risponde che “è vero”; ma è l’amore di Cristo che lo spinge: charitas Christi urget nos. Perché se lui è morto per noi allora tutti sono morti e non è più possibile vivere per se stessi (cf 2Cor 5,14ss). È questo amore che spiega anche la creatività di Paolo, la sua capacità di individuare le vie del vangelo nel suo tempo, e la capacità di percorrerle.
Comprendiamo allora perché Paolo, quando parla della carità/agape, e possiamo ben dire la carità apostolica, la presenta come un amore che si sacrifica. La prima volta che in Paolo ricorre la parola agape, nel testo più antico del NT (1Ts), egli la associa alla fatica/kòpos: kòpos tes agàpes (1Ts 1,3). E accanto a questo le altre parole già citate. Quello della carità apostolica è un tema per così dire racchiuso tra due parole: kòpos, all'inizio, e ypomonè, alla fine, in prospettiva escatologica. Di più, agapàn è associato spesso da Paolo a paradidònai, dare la vita; e fa tutt'uno con apothnèskein, morire. Per l’apostolo Paolo vivere è morire, nel senso di dare la vita, consegnarsi sempre di nuovo, come ha fatto Cristo (cf Ef 5,2).

c) - La legge fondamentale dell’apostolato secondo Paolo. Di qui anche quella che è stata chiamata la legge fondamentale dell’apostolato secondo san Paolo (p. S. Lyonnet). Il rimando qui è a 2Cor 12,7-10. Questa “spina nella carne” doveva essere una cosa grave e importante se Paolo chiede tanto insistentemente – per “tre volte” – di esserne liberato. Si discute che cosa potesse essere questo skòlpon, ma certamente era qualcosa che si frapponeva all’opera del vangelo, unica ragione di vita per Paolo. Perciò chiede di esserne liberato, ma Dio gli risponde di no: “Ti basta la mia grazia, perché la mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza”. E Paolo allora: “mi vanterò ben volentieri nelle mie debolezze, perché abiti in me la potenza di Cristo…: quando sono debole è allora che sono forte.
Paolo ha capito che nella sua debolezza accettata con fede e vissuta nell’amore si manifesta tutta la potenza della risurrezione. Così anche per noi: il nostro desiderio di contribuire alla causa del vangelo, trova la sua vera realizzazione lì: nel dare la vita.
Perché ci troviamo a insistere tanto su questo? per due ragioni soprattutto: primo, tra voi ci sono certamente delle persone brave e importanti, che hanno organizzato e portano avanti opere grandi e significative… Che cosa vi direbbe Paolo su questo? Certamente che sono cose belle e vi incoraggerebbe, ma vi inviterebbe anche a tenere sempre sotto umile verifica che cosa c’è dentro: se davvero c’è l’amore e un gratuito dono di sé, o anche qualcosa d’altro… Secondo e soprattutto, tra noi non tutti possono vantare successi particolari e degni di ammirazione; penso che la maggioranza di noi sia molto semplice e povera. E allora che cosa dobbiamo dire: che la nostra vita non ha importanza per la causa del vangelo o, per stare a noi, per l’aiuto da dare agli altri nella loro vita di fede?
Se prendiamo sul serio quanto ci dice san Paolo e ci fa vedere Gesù, forse può essere che proprio loro, i più piccoli, siano anche i più importanti: quelli che hanno dato tutta la loro vita e continuano così: gli anziani; e quelli che, malati, vivono con un amore che non viene meno il dolore di non poter fare più niente e di essere solo “di peso”…E tutti noi, oggi come non mai chiamati a fare i conti con problemi molto più grandi di noi…

Il Regno di Dio una questione di mezzi poveri

Se è vero ciò che stiamo dicendo – e mi pare non solo vero ma fondamentale – allora si capisce quell’assioma, tornato in evidenza nel nostro tempo, che il regno di Dio è una questione di mezzi poveri. “Mezzi poveri” vuol dire ciò che abbiamo detto e che vediamo in Gesù: per contribuire alla causa del vangelo non abbiamo altro che l’amore e il dono fino in fondo della nostra vita.
In realtà abbiamo anche altre cose – tante “opere di bene” – ma si tratta di vedere come le viviamo, su che cosa facciamo affidamento. Noi abbiamo lasciato tutto, quando abbiamo detto di sì alla nostra vocazione. Ma se davvero abbiamo lasciato tutto, allora vuol dire che non abbiamo altro che Gesù e il vangelo per dare un senso alla nostra vita, in se stessa e nei riguardi degli altri. Notate che stiamo parlando di “pastorale della santità” e dell’aiuto da dare alla fede di chi ci incontra: qui il problema è proprio quello della fede, e intendo la nostra fede: che ne è della nostra fede e della gioia – della speranza viva – che abita il cuore dei veri credenti? Viviamo in un mondo invecchiato, non solo anagraficamente, e noi? Domandiamocelo nelle nostre comunità. Verifichiamo il clima che vi si respira e aiutiamoci a capire che ne è della nostra speranza.

La prospettiva del carisma

Dobbiamo ritornare all’idea che abbiamo di missione per verificare le vie che stiamo percorrendo. Ci aiuterà la prospettiva del carisma, parola molto abusata ma molto utile, se presa nel giusto senso, per chiarire aspetti importanti del nostro discorso.

Un concetto più “spirituale” di missione

La parola “carisma”, quando si parla di VC, è usata anche per indicare la spiritualità e la missione dell’istituto e dunque la sua stessa ragion d’essere. In questo senso è abituale parlare di “carisma dell’istituto” e “carisma del fondatore”. Ma che cosa significa in realtà?
Da una parte, poiché i carismi sono dati dallo Spirito per l’edificazione della Chiesa, e la vocazione – che viene anch’essa da Dio – è sempre per la missione, si può anche dire che c’è identità tra carisma e missione, cioè dire vocazione per la missione è lo stesso che dire carisma dato per l’edificazione della Chiesa.
D’altra parte però, bisogna andare adagio in certe identificazioni, perché possono portare fuori strada. Bisognerebbe prima chiarire che cosa significa precisamente “carisma” e che cosa si deve intendere per missione in senso carismatico. Notiamo intanto questo: se i carismi sono “dono dello Spirito” allora vanno visti all’interno dell’azione dello Spirito nelle coscienze, e questo vuol dire che essi non sono una cosa esterna, che ci potrebbe essere anche a prescindere da come viviamo. Potremmo definirli così: i carismi sono l’azione dello Spirito nelle coscienze e nei cuori, con i frutti che ne derivano, se tale azione ci trova docili.
Ne vengono due prospettive: visto dall’alto, il carisma è l’azione dello Spirito nelle coscienze e nei cuori; visto dal basso, nella persona, indica i frutti di quest’opera quando c’è la docilità che il Signore si aspetta. Tutte e due le cose ugualmente fondamentali, anche la docilità. Senza di essa il carisma non c’è. Il carisma c’è se accade dentro, nel vissuto della persona.
Parlare della missione dell’istituto in termini di carisma dunque si può, ma è anche ambiguo: dipende da come la missione è intesa e vissuta. Merita il nome di carisma se e nella misura in cui è vissuta in modo carismatico, cioè “nello Spirito Santo”, come espressione di una vita autenticamente di fede. Per questo – tra parentesi – la missione rimanda alla santità e la presuppone.
La missione dell’istituto è anche ciò che sta scritto nelle costituzioni, ciò che si può ricavare dalle “fonti” e descrivere a parole; ma il carisma propriamente parlando non è questo: lo è se diventa vita vissuta nello Spirito Santo. Mi verrebbe da insistere su questo perché per carisma dell’istituto si intende abitualmente e semplicemente ciò che è scritto e codificato, ciò che si può ricavare dalle “fonti”, ma il carisma non è questo!
La parola “carisma” tuttavia può essere significativa perché sottolinea che vocazione e missione sono realtà di grazia, e si possono realizzare solo se sono vissute “nello Spirito Santo”. Sono costretto a essere molto sintetico, ma questo è un punto molto importante. Ripeto: in una prospettiva apostolica la parola “carisma” è significativa perché sottolinea che vocazione e missione sono realtà di grazia, e si possono realizzare solo se sono vissute “nello Spirito Santo”. Perciò c’è di mezzo la santità.
Questo mi sembra fondamentale anche per capire come possiamo adempiere al nostro compito verso gli altri, nella “pastorale della santità”. Possiamo solo se viviamo la missione così come ho cercato di dire. Fuori di questo intervengono altre logiche e, sul piano apostolico, per esempio, l’efficientismo, o la semplice gestione delle opere, che sarebbe l’esatto contrario del carisma e del vero significato della missione.

La dimensione comunitaria

Emerge così anche la componente “comunità”, che dobbiamo brevemente richiamare.
Tutto quello che abbiamo detto in effetti non riguarda solo le persone singole, anzi, parlando di “VC e pastorale della santità”, è la VC in quanto tale – e dunque la comunità – che è chiamata in causa. Non posso indugiare su questo, anche perché se n’è già parlato altre volte. Mi limito a richiamare tre cose, in riferimento al fatto che siamo comunità per la missione.

Essere una cosa sola perché il mondo creda.
C’è prima di tutto il comandamento di Gesù: essere una cosa sola perché il mondo creda.
È l’esperienza/testimonianza della comunità primitiva, che attira tanti al vangelo perché erano un cuor solo e un’anima sola (At 2,46s; 4,32s). Oggi viviamo in una società nella quale il nuovo nome della povertà è solitudine. Una società sempre più frantumata, nella quale quasi non si riesce più a credere che sia possibile vivere insieme nella gioia, in semplicità e purezza di cuore. Come cristiani e consacrati siamo chiamati a far vedere che invece è possibile ed è bello. Questo interroga fortemente le coscienze e ha una forza straordinaria di rimando al vangelo

In una comunità “per la missione”
Queste considerazioni ci sono abituali. E sappiamo anche quanto siamo in questo inadempienti. Ma a me sembra che questo dipende anche dal fatto che non valorizziamo abbastanza l’altro aspetto del nostro stare insieme: il fatto che siamo comunità per la missione.
Si parla troppo di comunità – quando se ne parla – in una linea autoreferenziale/introversa. Dobbiamo ricordare di più che ci siamo consegnati “per la missione”: la causa di Gesù e del vangelo. Come dice anche una delle risposte che ci sono pervenute: «la comunità non è fine a se stessa: il fine della comunità non è la vita fraterna ma la missione». È evidente che senza fraternità non c’è missione, ma è vero anche il contrario: senza vera dedizione alla causa del vangelo le nostre comunità si svuotano e parliamo a vuoto di “fraternità”. Per questo dobbiamo anche verificare, con umiltà e concretezza, se abbiamo chiaro e condiviso il motivo apostolico per cui siamo lì dove siamo. Ripetiamo sempre che è Gesù che fa di noi una cosa sola, ma cosa vuol dire? Siamo riuniti “nel suo nome”, se la sua causa è la nostra causa. Se dimentichiamo questo, neppure Gesù lo comprendiamo più.

Comunità aperte
La terza cosa, già inclusa in tutto ciò che abbiamo detto e altre volte sottolineata, è che dobbiamo imparare a essere comunità aperte. Comunità cioè con uno stile di vita non separato e autoreferenziale, ma immerso, calato dentro la vita della gente. Comunità aperte in questo senso. Che fanno sentire la gente accolta e voluta bene. E quando c’è di mezzo l’opera e i servizi diventano un punto di riferimento che coinvolge anche altri, in una rete di operatori che si allarga sempre più.
Pensiamo ancora una volta al nostro ieri, a quello che i nostri istituti hanno fatto dall’800 in avanti. Non l’avrebbero mai potuto se non avessero avuto alle spalle il sostegno non solo economico delle comunità cristiane. E d’altra parte anche la gente non avrebbe dato tanto se non ci fossero stati i nostri istituti con le loro opere a coinvolgerla. Le nostre famiglie religiose hanno contribuito alla santità della chiesa anche in questo modo, forse soprattutto per questo: perché hanno saputo alimentare i miracoli della carità tra la nostra gente. Che cos’è del resto la santità se non la carità effettivamente vissuta?

Per la fede di quelli che ci incontrano
Ho richiamato questo perché ha una grande importanza anche oggi, e proprio in riferimento a ciò che il Signore ci chiede per la vita di fede del prossimo. Oggi tutto questo si muove in modo diverso e anche più significativo. Anche le risposte che ci sono pervenute ripetono che «la carità parla ancora» e spesso in modo imprevedibile.
Ci sono su questo molte realtà nuove da tenere in conto. Per esempio, il volontariato , e la rete sempre più vasta di operatori che ci affiancano nelle nostre opere. Senza parlare di quelli che, anche oggi, continuano a sostenere con tanta generosità le nostre opere e i servizi. È in questa rete nuova e vastissima di contatti che noi dobbiamo saper esprimere il nostro aiuto alla fede di quelli che ci incontrano.
Facciamone verifica anche nelle nostre comunità. Il volontariato è per la massima parte di ispirazione cristiana. Possiamo imparare molto dai volontari anche per la nostra vita cristiana e di fede. E loro possono imparare da noi: lo sanno e lo chiedono. Ed è quando questi due versanti si incontrano che le cose crescono e diventano belle. Non so se mi spiego: non dobbiamo parlare di formazione del volontariato come se fossimo noi i maestri e loro dei contenitori vuoti: dobbiamo imparare a crescere insieme – è molto diverso e molto più fecondo.

Il punto nodale, tornare a essere presenti
Possiamo riassumere questi ultimi punti in ciò che abbiamo sottolineato proprio qui a Nuova Olonio nel primo dei nostri incontri sul tema La VC nella chiesa locale, una presenza da rinnovare. Il punto, lo dicevamo, è “tornare a essere presenti”.
È anche ciò che è stato richiamato a Roma ai primi di marzo scorso, nell’incontro organizzato dalla commissione mista “Vescovi e consacrati”, sul tema della VC nella chiesa locale in Italia. Riprendo dall’informazione che ne ha dato L. Prezzi su Il Regno A di marzo (p. 154). Sono intervenuti molti mutamenti in questi anni – si è detto – ma «la mutazione più grave è l’uscita della VC dal suo radicamento popolare, sia evangelizzante sia di servizi. Il popolo conosceva religiosi e religiose, li sentiva dalla sua parte, li ospitava volentieri, ne apprezzava la parola e il consiglio». Oggi non è più così. «È in sofferenza sia il modello territoriale della chiesa locale, sia quello popolare della vita religiosa, col rischio che quest’ultima non sappia più interpretare la domanda spirituale carismatica e personale ancora diffusa”.
Sono parole forti, una vera e propria sfida che coglie veramente nel segno e da cui non si può prescindere se si vuole che la VC continui ad avere un senso pieno nella vita della Chiesa.