Proviamo a riassumere – come inizio – quanto come religiosi ben conosciamo: la comunità è richiesta dalla verità e dalla totalità della nostra consacrazione. Siamo persone che si raccolgono insieme per le stesse finalità, dettate dal carisma che abbiamo appreso e accolto negli anni della formazione e che ci siamo sentito ricordare in tante riunioni e assemblee. Persone che si trovano insieme, unite senza perdere la propria personalità, ma mettendola al servizio gli uni per gli altri e per l’evangelizzazione: unità di essere e unità di azione, questa colta e vissuta nelle necessarie e storiche ramificazioni del carisma.
E sappiamo anche che l’ideale comune si attua soltanto attraverso un’autentica comunicazione e vita di comunione, altrimenti abbiamo una meccanica raccolta di persone e magari neppure simpatiche. Tutto questo lo sappiamo. Ci resta – molte volte – il compito di attuare il concetto di comunità che tutti abbiamo. Perché sembra che la riflessione sulla vita comunitaria – la cui importanza è stata ribadita da solenni documenti della Chiesa e scritta in tutte le costituzioni dei consacrati – abbia perso oggi di attualità e di incisività: il dibattito appare impoverito, tenuto in piedi da retoriche scontate, canoniche dichiarazioni – cioè fatte “per forza” e carità di “patria” – non del tutto e da tutti condivise e “fatte vita”. Senza contare che la stessa formazione alla vita religiosa (maschile) punta quasi esclusivamente a “far diventare preti”, lasciando volentieri sullo sfondo le peculiarità della vita consacrata.


Unità nella diversità

E sappiamo anche questo: la vita fraterna non è mai un dato scontato, ma una ricerca. Qui si innesta un cammino per dare un senso concreto alla teoria che conosciamo. Occorre il coraggio di rigenerare (creare, addirittura?) le relazioni umane e spirituali nelle comunità. Fare vera comunità è un itinerario e un’impresa da adulti, da persone mature che non scambiano – come tanti adolescenti – il “gruppo” come comunità. La maturità cerca l’unità e la diversità, non mortifica la soggettività, ma la compone in armonia con le altre soggettività, salvaguardando la ricchezza dei doni individuali, ma non considerandoli “proprietà esclusiva”.
La maturità si rivela e si esplica nella comunicazione che inonda la comunità di esperienze, progetti, orizzonti (ed anche di problematicità) ma il tutto in un dialogo sincero e aperto all’accoglienza. Non sembra esserci maturità (che è capacità di relazionarsi con tutti) in una comunità dove imperano “paratie” che bloccano esperienze, parole, visioni diverse dalle proprie.
La realtà dell’essere adulti e maturi è rivelata anche dalla condivisione e dalla corresponsabilità: con questi sentimenti e comportamenti si può comprendere il bisogno di essere “protagonisti” nella comunità: allora nascono le vere “discussioni” con l’apporto di tutti, allora le relazioni sono di persone che dialogano, che ascoltano e progettano e non di persone che ascoltano e attendono indicazioni, per viverle se rientrano nel loro orizzonte.
A volte si nota un profetismo soggettivo che esclude ogni reale condivisione e dice che il tale individuo è sicuro di non avere più bisogno di crescere. Neppure in sapienza.
Ed è soltanto una comunità matura che gode di libertà e che non diventa, come lo è a volte, piccola corte di gente corta che fa siepe attorno al superiore Allora le comunità, vive e consapevoli della loro natura, perché composte da “adulti”, saranno ancora in grado di darsi obiettivi, al di là di quelli, spesso)di corto e tradizionalissimo raggio.

I segni della maturazione

Come religiosi – operai che lavorano dalla giovinezza nella vigna di Dio – forse, a volte almeno, non ci sforziamo più di approfondire, precisare, ampliare la conoscenza di Dio e le sue richieste. Siamo sicuri di essere maturi nei confronti con lui, di conoscerlo, servirlo e di “predicarlo” bene, con tutte le nuove conquiste esegetiche e teologiche, quindi con la dovuta ortodossia. Magari, poi, dopo questa comprensibile impennata di maestria e abilità oratoria, ci sentiamo soddisfatti e realizzati. La testimonianza esistenziale – che è l’indice di una reale maturità – spesso è assente o fioca e rimangono fuori dalla nostra vista e dalla nostra vita le ramificazioni concrete della nostra conoscenza di Dio: carità nella comunità, impegno nascosto e lieto, e non solo quello “reclamizzato” e “pagato”, a favore delle persone.
Spesso – in una dissociazione che rivela immaturità – non abbiamo la consapevolezza che la fede non è un sistema filosofico o una serie di formule che volentieri snoccioliamo ai fedeli, ma una “storia di vita in Dio” prima vissuta e poi testimoniata, è la nostra vita che diventa concretizzazione creativa e fedele della fede professata a parole.
Inoltre stiamo attenti a non credere che sia lecita e totale una spiritualità che guarda soltanto in alto: “Dio è il mio pensiero e il mio tutto”, dimenticando che questa spiritualità è il seme e la forza per “ridiscendere” tra le persone. Vale sempre – anche per i religiosi – che non si può realmente amare Dio se poi non lo si vede e non lo si serve nei fratelli, a cominciare dai confratelli. I punti qualificanti del Vangelo sono questi: stiamo attenti a non sostituirli con altri, marginali, anche se più a portata dei nostri gusti e della nostra vita pratica. Maturare è anche sforzarsi di discernere le priorità dell’esistenza e, per i religiosi in particolare, dell’esistenza secondo il vangelo.
Maturare è avere la consapevolezza che abbiamo – noi per primi – bisogno di una purificazione interiore, di un coinvolgimento nelle debolezze dell’uomo. Si sente risuonare nelle “prediche” quasi sempre il “voi” e quasi mai il “noi” e anche quando il pronome non è detto si comprende dal tono della voce che ci si tira fuori da tante umane debolezze e – quindi – “voi” avete bisogno di purificazione. E così un’esperienza religiosa profonda e inquietante ci manca e crediamo di essere in Dio pur restando totalmente in noi stessi.
Maturità è guardare prima dentro di noi stessi per poi – eventualmente – aprirci agli altri: allora non è più un “dire”, ma un “testimoniare”, un comunicare veramente qualcosa, anzi Qualcuno che è diventato parte essenziale della propria vita. Conseguentemente, maturità è non imporre agli altri come ideale – senza il quale si è “perduti” peccatori – quello che noi stessi non abbiamo cercato e non abbiamo raggiunto. La distanza che talvolta marchiamo dalla gente rivela un’arroganza spirituale che è il segno più chiaro, alla luce delle esigenze e delle vette di Dio, dell’immaturità: soltanto “l’ingenuo spirituale”, cioè l’immaturo, è sicuro di essere sulle “vette” di Dio.
Maturità è non riconoscersi “arrivato” sulle vette, per studi, preghiere canoniche, riconoscimento di fans, ma sentirsi chiamati all’ “oltre”, perché sempre bisognosi di conversione, intesa in senso globale, sempre bisognosi di comprendersi per comprendere le prospettive di Dio – non dell’ io – e degli uomini.
Maturità è la consapevolezza di avere più bisogno di imparare, anche e soprattutto, dai “semplici” che vivono quotidianamente il vangelo e spesso con una fede tenace che noi consacrati ci sogniamo, perché lontani – tutto sommato – dai molteplici logoranti problemi di vita e meno di sentire l’esigenza di predicare e di indicare modelli, che – inconsciamente o meno – spesso siamo noi.

Immaturità persistenti

Tante volte noi consacrati , come “religiosi” siamo alla ricerca di “comunità” e “famiglie” compensative e come predicatori e direttori spirituali siamo alla ricerca di gruppi di persone, “discepoli”assidui e devoti.
Ma non sempre – lo si deve riconoscere onestamente – formiamo cristiani adulti, consci del loro essere, responsabili delle loro scelte e azioni, uomini e donne – soprattutto a queste ci si dedica – che si reggano in piedi e camminino con le loro gambe, come fanno gli adulti.
Si ha l’impressione – ma è un fatto diffuso – che a volte il “direttore”, più che formare con necessarie boccate d’aria spirituale menti e cuori robusti nella fede, cerchi nelle “devote” persone un sostegno (non un “ricevere” che è sempre ben accetto e necessario) “affettivo”, compensativo, per la propria “solitudine”, che dovrebbe essere riempita di altro e da un Altro.
Così abbiamo consacrati che, non trovando in comunità e nella Parola il significato pieno della loro consacrazione vita, vanno a piluccare qua e là. Non formano adulti, ma si fermano nel cerchio delle persone “devote”. Si rimane allora costantemente in un infantilismo, come consacrati, e si fanno restare nell’infantilismo cristiano gli altri, spingendoli a ritornare perennemente da noi, dicendo – con i fatti – che senza di noi non possono camminare. I genitori – lo sappiamo e magari anche lo diciamo – debbono educare i figli a diventare adulti, e non cercare di tenerli legati a stessi, anche se la formazione richiede parole, contatti, indicazioni, ma non certo l’esclusività delle convinzioni e dei progetti.
Vi è il non raro rischio di confondere lo spirito dell’infanzia, che Cristo chiede ai suoi discepoli per entrare nel Regno dei cieli, con l’infantilismo e il baloccarsi con i sentimenti propri e altrui. E questo non è il massimo della maturità richiesta ai consacrati.