C’è un dato statistico che dovrebbe far seriamente riflettere. Nel quarantennio postconciliare (1965-2005) i membri degli istituti religiosi laicali, impegnati soprattutto nel campo educativo-scolastico, sono diminuiti ben oltre il 50%. Due casi fra tutti: mentre i Fratelli delle scuole cristiane sono passati da 17.926 a 5.719, con un calo di 12.207 unità, pari al 68,09%, i Fratelli maristi da 10.228 sono scesi a 4.359, con un calo di 5,859 unità, pari al 57,28%) . É possibile, almeno nei paesi occidentali, che il calo sia in gran parte imputabile a un intervento più massiccio e sistematico dello stato nel mondo scolastico-educativo. Ma perché lo stesso fenomeno non si è così vistosamente manifestato anche negli istituti religiosi clericali? Non potrebbe darsi che il presbitero religioso abbia subìto meno la crisi proprio grazie alla sovrapposizione del ruolo sacerdotale a quello di semplice religioso?
Ma se così fosse, come mai nei tanti dibattiti sulla crisi odierna della VC, si è dato così poco spazio ad un confronto a tutto campo sulla figura del presbitero religioso? La Cism nazionale, per la verità, ancora cinque anni fa, ed esattamente il 31 marzo del 2005, nella sua sede centrale, aveva promosso un primo seminario di studio proprio su “La situazione del presbitero religioso nella Chiesa di oggi”. È ritornata sullo stesso argomento anche quest’anno, il 18 marzo, presso l’Antonianum di Roma, con una relazione centrale del prof. Paolo Martinelli, cappuccino, su “Consigli evangelici e presbiterato: una relazione problematica?”. A fine agosto, in un corso di formazione permanente dei dehoniani (Italia sett.), ad Albino (BG), uno dei relatori del seminario di studio del 2005, il gesuita Rossano Zas Friz De Col, ha ripreso l’argomento a cui, per altro, ha dedicato un volume in uscita proprio in questi giorni .


L’intuizione di von Balthasar

Secondo Martinelli, ancora oggi manca una tematizzazione di quello che è il presbiterato per colui che vive secondo un determinato carisma di VC. Ma forse questa lacuna, è da porre in stretto rapporto all’equivoco e al ripensamento postconciliare della posizione ecclesiologica della VC soprattutto rispetto alla sua essenzialità nella vita della Chiesa. Infatti, il rischio più grosso, a suo dire, è stato quello di «concepire la VC come una variante facoltativa di vivere la vocazione battesimale, in reazione all’esasperazione del concetto precedente di status perfectionis e della eccellenza della verginità sul matrimonio, affermato al concilio di Trento».
Se nei documenti del magistero postconciliare sembra tranquillamente superato questo rischio – in Vita consecrata, ad es., si parla di obiettiva eccellenza della VC (18 e 32) e della sua essenzialità nella vita della Chiesa (29), – tuttavia, sia a livello teologico che di prassi pastorale, non mancano autori a sostegno della tesi sopraesposta. La VC secondo i consigli evangelici, in questa prospettiva, «sarebbe certamente un dono alla Chiesa, che come tale non sarebbe ad essa essenziale, ma semplicemente auspicabile».
Proprio nel tentativo di superare il rischio della VC come variante facoltativa, p. Martinelli non può sottrarsi a una specifica domanda: «quale potrebbe essere una base teologica adeguata per cogliere i consigli evangelici originariamente in rapporto con la soggettività battesimale ma anche con il sacerdozio ministeriale, così da evitare una figura di giustapposizione tra gli stati di vita che avrebbe ricadute particolarmente negative soprattutto nei confronto della relazione tra consigli e presbiterato?».
La risposta più pertinente, grazie alla quale è possibile cogliere un originale rapporto tra VC, sacerdozio ordinato e stato laicale battesimale, è forse quella fornita da von Balthasar con la sua «visione sacerdotale, non sacramentale, dei consigli evangelici». Il noto teologo parte dalla provocatoria considerazione che lo stato dei consigli evangelici «precede non solo cronologicamente ma anche logicamente lo stato sacerdotale e quello del cristiano nel mondo». Non si parla, ovviamente, dei singoli istituti religiosi che, in quanto tali, diversamente dall’ordine sacerdotale gerarchico, non si potranno mai considerare di diritto divino. Più propriamente, qui ci si riferisce a «una chiamata alla sequela personale che cambia la situazione esistenziale del discepolo, con la quale Cristo stesso invita ad assumere il suo stesso stato di vita casto, povero ed obbediente».
La fondazione del sacerdozio con l’istituzione dell’Eucaristia e l’offerta totale che Cristo fa di se stesso al Padre per la salvezza del mondo, «nella sua caratteristica propriamente ministeriale, è preceduta e resa possibile dal fatto stesso che la libertà di Cristo possiede la forma della perfetta disponibilità, rappresentata dai consigli evangelici».
È sulla base di queste premesse che Balthasar arriverà, appunto, a parlare con convinzione del carattere sacerdotale, non sacramentale, dei consigli evangelici, in quanto «esprimono la forma di vita di Gesù, la sua libertà obbediente, povera e casta, che offre totalmente la sua vita per noi». Anzi, in un certo senso, «i consigli evangelici dicono l’essenza del nuovo sacerdozio di Cristo: l’offerta irreversibile e perfetta della propria vita per amore». Proprio nel momento in cui Gesù offre la sua vita, esorta anche i suoi discepoli «alla sequela radicale, a disporre la propria libertà al dono di sé». In questo senso, è facile vedere come «la chiamata di Gesù non è, innanzitutto, ad assumere il sacerdozio ministeriale – ciò avverrà nell’ultima cena - ma alla sequela».
Secondo Balthasar, lo stato dei consigli evangelici, in quanto non funzionale ma rappresentativo della forma della libertà cristologica, diviene anche paradigma, nella Chiesa, della forma di esercizio del sacerdozio soggettivo, quello battesimale, sia da parte dei presbiteri che da parte dei laici. Questo, però, «non comporta affatto che i sacerdoti debbano esser anche consacrati e viceversa. Le due forme si appartengono vicendevolmente ma possono coincidere perfettamente solo nella persona di Cristo».

Quale identità del presbitero religioso?

Molto più articolato, ovviamente, è il saggio storico-teologico interpretativo del presbitero religioso nella Chiesa di Zas Friz De Col. Per tappe successive, dopo una riflessione teologica sul presbitero religioso nel post concilio, l’autore approfondisce sia i presupposti storici che quelli teologici del problema, per concludere su una messa a punto del presbitero religioso nel documento Cei sulla formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana.
Nonostante il fatto che un terzo del clero mondiale sia religioso, commenta l’autore, «la Chiesa ha trattato poco o quasi per niente il presbitero religioso». Dopo la promulgazione del decreto conciliare Presbyterorum ordinis (1965), la Chiesa non ha emesso nessun documento sul rapporto tra ministero ordinato e VC. Anzi, con il documento Pastores dabo vobis (1992) si arriva a sigillare definitivamente l’identità del presbitero come “pastore di anime in una Chiesa particolare”.
Al termine di un’ampia analisi riservata a tutti gli autori che hanno affrontato l’argomento del presbitero religioso sia nei suoi presupposti storici che teologici, Zas Friz De Col conferma la sua convinzione che “uno, se non il più grande ostacolo per concepire un’identità del presbitero religioso, è l’assenza di una specifica riflessione sull’argomento».
Una conferma, purtroppo, arriva anche dal documento Cei su “La formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana” (2007) a cui l’autore dedica l’ultima parte del suo lavoro. «Perché, si chiede, i vescovi italiani, invece di promulgare un documento per la formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana, non hanno promulgato un documento per la formazione dei presbiteri secolari nella Chiesa italiana»? Se nella concezione spontanea che i vescovi hanno del ministero ordinato è quella del presbitero diocesano, «perché non fare la distinzione precisando i destinatari?». È vero che qua e là, nel testo, si fa riferimento alla presenza dei ministri ordinati degli istituti di VC. Ma sembra quasi che l’unica preoccupazione sia quella dettata dal timore che «i presbiteri non secolari non prendano nella giusta considerazione le loro riflessioni sulla formazione dei futuri ministri e che, una volta formati, non esercitino il loro ministero in armonia con la Chiesa particolare italiana in cui si trovano».
Da tutto il documento emerge una concezione del sacramento dell’ordine fondata esclusivamente «sul carattere sacramentale come momento originario della visione pastorale del ministero ordinato incentrato sul servizio alla Chiesa particolare, in stretta collaborazione con il suo Ordinario». Ma se il presbitero religioso non può essere assimilato sic et simpliciter a questa interpretazione, «perché non rendere esplicite le differenze?». Purtroppo, la difficoltà maggiore «deriva dal fatto che non si riesce a precisare da dove scaturiscano le differenze tra i ministri». Se si trascura la dimensione ecclesiale-carismatica del sacramento, allora «le differenti forme del ministero ordinato si livellano e ne consegue che, dalla teoria e dalla pratica dei vescovi, l’unica forma del sacramento è quella diocesana vincolata alla Chiesa particolare, e la differenza con i religiosi è soltanto accidentale».

Valorizzare  le differenze

In tutto il documento c’è solo un punto, anzi una sola nota, in cui il ministero ordinato viene visto sotto l’ottica del carisma. Proprio partendo da questa unica connotazione, perché non considerare il ministero ordinato del presbitero diocesano come un carisma simile a quello del presbitero religioso? In questo modo il carattere sacramentale, e cioè la dimensione cristologica del sacramento, «supera le differenze perché fa del presbitero il rappresentante di Cristo, mentre la Chiesa distingue i ministri e diversifica i ministeri». Non è vero, infatti, che la Chiesa accoglie nel suo seno diverse forme carismatiche a partire dalle quali si riceve il medesimo Spirito che imprime il carattere sacramentale?
L’orientamento del documento sostanzialmente incentrato sulla figura del presbitero diocesano «sembra contraddire una concezione della Chiesa particolare in cui tutti sono chiamati a collaborare alla comunione ecclesiale, nel riconoscimento delle diverse identità che la costituiscono». È certamente comprensibile che «nella pratica parrocchiale le differenze possano praticamente svanire tra secolari e religiosi e che non sia questo a creare i problemi d’identità più rilevanti». Ma questi vengono a determinarsi nel momento in cui un documento dei vescovi italiani «sembra non prendere in considerazione le differenze». Ma allora, si chiede nuovamente l’autore, «perché non intitolarlo “La formazione dei presbiteri secolari nella Chiesa italiana?».
Trattandosi di un problema d’identità ecclesiale, conclude Zas Friz De Col, lo scopo del suo lavoro è solo quello di «abbozzare una concezione pluriforme del ministero ordinato che sembri pertinente teologicamente, pastoralmente e canonicamente». L’auspicio è quello di contribuire ad una “ulteriore evoluzione sapiente” del presbitero nella Chiesa italiana, nella quale, «conservando l’unità sacramentale, si rispettino le differenze che nascono dai carismi ecclesiali riconosciuti dalla Chiesa».