Per mesi lo scandalo è stato sulle pagine di tutti i giornali. Ciò che è avvenuto, nel fenomeno “pedofilia” all’interno della Chiesa, è fonte di meraviglia, scandalo, sdegno e condanna. Ed è comprensibile. Non ci si potevano aspettare reazioni diverse, vista la gravità dei fatti.
Ma a margine delle considerazioni tecniche, giuridiche e di comportamento riportate, forse vale la pena cogliere in tutta questa vicenda anche un richiamo a non limitarci allo sdegno e alla condanna dei colpevoli di questi crimini: un invito a prendere coscienza di noi stessi, della natura umana, e di un certo modo di presentarci e agire come persone, come società e come Chiesa. Che dire, allora, a questo proposito?
 

«Non giudicate,e non sarete giudicati»

Le parole di Gesù in Mt 7,1-5 – lo sappiamo – non hanno lo scopo moralistico di esortarci a essere bravi ragazzi che non devono pensar male degli altri. In primo luogo, sono un invito accorato a non prescindere mai dal nostro essere creature; un’esortazione a prendere coscienza della nostra verità antropologica, di ciò che siamo e di come “funzioniamo”; un monito, quindi, a non calarci troppo in fretta nei panni di chi giudica e prende le distanze, perché tutte le volte che assumiamo questo atteggiamento non rispettiamo la verità di noi stessi. E tantomeno esorcizziamo il pericolo che il male abbia presa nella nostra vita; semmai, paradossalmente, gli offriamo il fianco perché possa attecchire e prosperare, proprio perché abbassiamo ingenuamente le difese nella presunzione di essere diversi, di essere quelli che stanno dalla parte giusta.
Che vuol dire? Che non è legittimo provare ribrezzo, che non dobbiamo dichiarare un rifiuto deciso nei confronti di comportamenti tanto abietti? Significa forse che in nome di queste parole di Cristo dobbiamo chiudere gli occhi, come se niente fosse? Evidentemente no! Sappiamo bene che Gesù non chiede di essere ciechi. Tutt’al più il contrario: invita a una vita vigile, consapevole, a renderci conto di tutto quanto accade fuori e dentro di noi, con occhio intelligente e critico. Ma anche, e proprio per questo, esorta a non prendere troppo in fretta le distanze, a inscenare il ruolo scandalizzato di chi, con il male del mondo (o con certi mali) non ha niente a che fare.
Che senso ha lo stupore che si trasforma in presa di distanza, o in condanne formali e assolute? Quale risultato può ottenere il gridare forte: «convertitevi!» a persone che, per la patologia che li affligge, neppure sono consapevoli delle implicanze morali e delle conseguenze del loro comportamento sui piccoli? Tutto questo ci aiuta a vivere meglio? A esprimere una vita più autenticamente cristiana?
La sensazione è che questo tipo di reazioni siano soprattutto un tributo alla logica intrinseca dell’“opinione pubblica”, che ha bisogno di avere sempre qualcosa di cui scandalizzarsi, un “oggetto” su cui concentrare le emozioni negative, il proprio rifiuto e la condanna. Quell’opinione pubblica che si struttura prevalentemente su basi emotive, proprio quei criteri emozionali, sensazionalistici (e perciò approssimativi) che, spesso, sono oggetto di rilievi critici da parte della Chiesa. Chi ha una responsabilità pastorale e vuole proporre al mondo la novità evangelica è chiamato a reagire in un altro modo, e proporre dinamiche più positive, controcorrente, magari cominciando proprio con l’ammettere i propri errori e chiederne perdono, prima ancora di accampare qualsiasi elemento attenuante, per quanto legittimo e oggettivo.
Ben vengano, quindi, le dimissioni di questo o quel vescovo che ha riconosciuto (o vi è stato costretto!) i propri errori nel sottovalutare o nel passare sotto silenzio il problema. Ma più importante è che questo non sia, o non resti, ancora soltanto il tributo dovuto all’“opinione pubblica”, che significhi davvero un salto di qualità nel modo di vivere da cristiani e di essere Chiesa. Perché, anche dopo lo scandalo mediatico, il problema “pedofilia” rimane. Si tratti di una trave o di una pagliuzza, siano preti o laici coloro che vi sono coinvolti, se ne parli molto o ritorni il silenzio, il problema drammaticamente esiste ancora e – così come tanti altri problemi, forse anche più gravi di questo – ci interessa e coinvolge tutti. E allora: noi che cosa vogliamo fare?
 

«Ma io vi dico…»

La comunità cristiana, e a maggior ragione chi in essa ha ruoli di responsabilità, dovrebbe distinguersi per un approccio alla realtà che riveli la novità evangelica, un atteggiamento di attento discernimento nei confronti del mistero dell’uomo che mostri amore per la verità e, perciò, comprensione misericordiosa per l’umana fragilità. Altrimenti non si capisce dove e come si dovrebbe manifestare la specificità del cristianesimo.
Ciò significa andare controcorrente, esprimere atteggiamenti e comportamenti che non si conformano alla logica mimetica della cultura contemporanea, in cui l’uomo non può e non deve sbagliare, e perciò nega, travisa, accomoda fatti e realtà per non prendere coscienza della propria verità, nuda e cruda. Perciò conta più l’apparire dell’essere. È vero: quando poi qualcuno ha il coraggio di alzare il coperchio e costringe tutti a vedere che cosa realmente bolle in pentola, le reazioni di sdegno sono d’obbligo, la caccia ai colpevoli scatta immediata, la richiesta di punizioni esemplari è perentoria… ma basta solo un po’ di tempo e tutto torna come prima, come se il problema palesato perdesse d’importanza, o d’interesse.
Perché succede questo? Molto probabilmente perché abbiamo paura di prendere coscienza della nostra umanità così com’è, soprattutto delle sue parti meno belle, più cariche di ambiguità e perciò difficili da gestire. Allora abbiamo la tendenza a rimanere nell’atteggiamento tipico degli spettatori di un film: ci si lascia coinvolgere dalla trama, ci si immedesima nelle vicende dei personaggi in un meccanismo di identificazione, positiva o negativa, che dura finché dura il film, ma quella storia, di fatto, non è e non la sentiamo nostra, non la scriviamo e non vogliamo scriverla noi.
Questo atteggiamento rivela come ci collochiamo sullo scenario della storia. Mostra come non ci sentiamo chiamati in causa personalmente nella fatica della ricerca della verità, nell’affermazione di valori irrinunciabili che siano pietre miliari della nostra convivenza sociale e che ciascuno si prende la briga di incarnare nella sua vita; rivela che non ci sentiamo protagonisti della nostra storia, responsabili di essa e gli uni degli altri.
Per quanto triste da ammettere, anche la gerarchia ecclesiastica ha lasciato prevalere questa logica dell’apparire e delle condanne altisonanti (dopo i lunghi silenzi precedenti) nel tentativo di “difendere” l’istituzione che, al contrario, si è trovata ancor più esposta alla critica e per motivi più gravi, poiché ha fatto sì che venisse alla luce quell’ atteggiamento di malcelata omertà che non ha giovato proprio alla istituzione-Chiesa, a cui appartiene sia chi ha sbagliato sia chi ne è stato vittima. Semmai ha insegnato che, se non si accetta di fare i conti con la realtà, identificando i problemi per quel che sono, chiamando le persone a prendersi le proprie responsabilità, è una pia illusione pensare di difendere la Chiesa. Anzi, insegna che il miglior modo di “difendere” la Chiesa è vivere il Vangelo, senza lasciarsi irretire dalla logica delle maschere o da presunte scaltrezze diplomatiche che allontanano dalla semplice logica evangelica della verità: «sì, sì, no, no».

Essere fratelli responsabili

Lo scandalo “pedofilia” non è il peggio che si è visto nella storia. Anche il clero può fare cose peggiori, riconosciamolo! Forse non in ambito sessuale, ma nel campo del potere, dell’ambizione e del denaro da sempre la storia è segnata da tanti peccati.
Il fatto è che avremo sempre a che fare con il male, dentro e fuori di noi. Ci piaccia o no, questa è la realtà. Una realtà con la quale è più utile diventare prossimi che prendere le distanze, perché è l’unica che abbiamo a disposizione.
La scelta di Dio di entrare nella nostra storia, accettando tutto di noi, ha qualcosa di concreto da dire al nostro modo di vivere? Se abbiamo sperimentato l’azione misericordiosa della grazia nella nostra storia personale, segnata dal limite e dal peccato, piccolo o grande che sia, allora tutto ciò che tocca la persona e la vita del fratello mi riguarda, fa parte di me e della mia storia di salvezza. Il dramma di chi sbaglia, di chi è vittima dei suoi stessi errori o peccati è cosa che mi riguarda, perché è un membro del mio corpo, la Chiesa, che soffre e fa soffrire. La sua debolezza fa ricadere su altri il peso del male col quale non riesce a confrontarsi, in un “effetto domino” che dura dai tempi di Caino. E io non posso non soffrirne, limitandomi a un’istintiva condanna.
Certo avere comprensione non significa avallare o approvare il male compiuto. Sentirci vicini a chi ha sbagliato – e non solo con le vittime – non significa non vedere le loro colpe, ma ammettere che in loro si manifesta un problema che ha radici più profonde, che in qualche misura tocca tutti noi e ci coinvolge tutti nella responsabilità di uno stile di vita diverso. Riusciremo a entrare, almeno un po’, nell’ottica di Dio che condanna il peccato, sempre, ma mai considera l’uomo che l’ha commesso un “perduto”, uno da escludere, da misconoscere?
Una cosa è certa: inorridire per il male non è ancora fare il bene. Denunciare i peccati degli altri, gridare allo scandalo non è ancora impegnarsi con responsabilità per il bene del mondo e della Chiesa. Per quanto paradossale, allora, anche questo scandalo può propiziare un salto evolutivo e avvicinarci maggiormente all’ideale di uomo e di chiesa proposti dal Vangelo.
Cristo ha voluto la Chiesa come una comunione di fratelli, pastori e laici, dove chi più ha potere più è chiamato a servire. L’immagine paolina del corpo e delle membra rende bene il senso di questa comunione: la responsabilità reciproca, e non la competizione che esclude o l’ambizione che umilia, è il criterio che rende possibile la salute e il buon funzionamento della comunità.
Il concilio Vaticano II ha ribadito questo fondamento teologico della Chiesa, popolo di Dio, che è comunione di fratelli. Bisogna rivisitare questa verità e richiamarci tutti, clero e laici, alla responsabilità della propria vocazione specifica. Il ruolo del clero – si sa, ma adesso è ancora più evidente – non gli infonde infallibilità e non lo pone al di sopra del bene e del male. La sua vocazione al servizio si esprime operando responsabilmente perché ci sia una gestione comunitaria della fede e della carità, nella fraternità. La Chiesa ha bisogno di crescere in questa dimensione comunitaria, in cui tutti indistintamente giocano la loro personale responsabilità nel servizio fraterno: i preti aiutano i laici, ma anche i laici aiutano i preti. Non si tratta di una gentile concessione al laicato, ma del riconoscimento della responsabilità in cui ci pone, tutti, la fede ricevuta in dono e la vocazione di figli di Dio. Bisogna riconoscere che costa fatica questo stile comunitario, sia per i preti come per i laici, ma è il cammino da compiere.
Sarebbe bene riconoscere che a fare problema, a livello ecclesiale, sono le categorie antropologiche, prima che le teologiche, e anche questa brutta faccenda lo ha dimostrato. È qui che bisogna crescere. Anche l’espressione patologica dei casi di pedofilia è un richiamo a rimettere a fuoco nella formazione del prete la dimensione umana, soprattutto nella sfera dell’affettività e della sessualità. Tenendo presente che, proprio nella sfera sessuale, trovano espressione simbolica le immaturità e i problemi presenti in ogni altra dimensione della persona. E che non si manifestino sempre in comportamenti sessuali devianti è buona cosa, ma non li trasforma in virtù: rimangono problematici per la vita della Chiesa. Lavora sulla tua pagliuzza, allora… solo la responsabilità personale è una risposta concreta.