Dialogando con i sacerdoti durante una veglia di preghiera in piazza s. Pietro , a uno di loro che gli chiedeva come orientarsi e “dove andare” di fronte a un lavoro pastorale che presenta richieste sempre più impegnative, Benedetto XVI ha invitato tra l’altro a «riconoscere i nostri limiti, aprirci anche a questa umiltà. Ricordiamo una scena di Marco, capitolo 6, dove i discepoli sono “stressati”, vogliono fare tutto, e il Signore dice: “Andiamo via, riposate un po” (cf. Mc 6,31). Anche questo è lavoro – direi – pastorale: trovare e avere l’umiltà, il coraggio di riposare». Non ha detto dunque – come tutti dicono – che bisogna trovare il tempo per riposare, quasi che potersi riposare sia anzitutto o solo un problema di distribuire adeguatamente il proprio tempo; non ha semplicemente consigliato – come molti consigliano agli altri – che a un certo punto ci si deve imporre di fermarsi, quasi che si tratti semplicemente di un problema di volontà… Ha parlato invece dell’umiltà e del coraggio di riposare come presupposti per una vita equilibrata e serena.
Sono parole che non sono abitualmente presenti nei discorsi di chi si lamenta che non ha tempo per riposare o di chi dà generosamente consigli su come fare, né si ritrovano nelle analisi e ricerche che si vanno pubblicando (un po’ anche per moda) sullo stress e il burnout di chi (sacerdoti e religiosi compresi) ha scelto di dedicare la propria vita agli altri. Merita, dunque, che si rifletta su ciò che il papa ha sapientemente indicato come presupposti della capacità di sapersi riposare.

L’umiltà di riposare


L’umiltà che ci porta a interrompere il ritmo normale del nostro lavoro quotidiano e a trovare il tempo per un adeguato riposo nasce da una riflessione sulla verità delle cose e da un progressivo esercizio di consapevolezza, che può riguardare diversi aspetti. Ad esempio:
- la presa di coscienza dei propri limiti, mentali e operativi: tutto è “contato” nella nostra vita, dai capelli del nostro capo (come insegna il vangelo), alle risorse mentali ed emotive, alla forza fisica, alla capacità organizzativa;
- la convinzione che tutti siamo utili, ma nessuno necessario: il Signore tutto dispone per la gloria sua e la diffusione del suo Regno; la nostra persona – ripeteva spesso il beato papa Giovanni – non conta nulla. In definitiva, è Dio il vero autore della crescita delle persone: ciascuno di noi, a seconda delle responsabilità che gli competono, è chiamato ad offrire il suo contributo perché si creino le condizioni affinché tutto ciò avvenga, ma è sempre Dio che tocca i cuori delle persone e guida i destini della storia umana;
- la convinzione che è sbagliato identificarsi con il proprio ruolo o il proprio compito, fino al punto di ritenere più o meno inconsciamente che nessuno è in grado di prendere il nostro posto e svolgere adeguatamente il compito che noi abbiamo svolto magari per tanti anni;
- la consapevolezza che, a motivo dei nostri limiti, sono necessari momenti di pausa e di riposo per coltivare la dimensione interiore nella nostra vita e alimentarci alle sorgenti perenni della tradizione cristiana: se non si trova il tempo per leggere, meditare e pregare, si corre seriamente il rischio di “correre invano”, di essere superficiali, di non saper più distinguere ciò che è essenziale da ciò che non lo è;
- la progressiva presa di coscienza che ciascuno di noi non vale tanto per quello che fa o produce, ma per quello che è, per le sue doti di mente e di cuore;
- la consapevolezza che, quando si serve il prossimo, ciò che anzitutto gli possiamo “offrire” è una disponibilità personale fatta di calma, cortesia, attenzione e ascolto: cose tutte che assai difficilmente si possono trovare in chi è preso dall’ansia di fare e accumula tensione a causa di un lavoro continuo;
- la consapevolezza che imparare a riposarsi è un allenamento prezioso e quasi un esercizio preparatorio per affrontare un giorno con umiltà e spirito di distacco un riposo “forzato” – in quanto previsto dalla normativa civile o canonica o dalle leggi … imposte dall’età.

Il coraggio di riposare

La capacità di dedicare del tempo al riposo non consiste semplicemente nell’astenersi dal lavoro e stare senza far niente; si tratta piuttosto di imparare a far propri determinati atteggiamenti, alcuni dei quali possono richiedere anche fatica e coraggio.
Serve il coraggio di vincere una certa pigrizia, abitudini consolidate, quella routine quotidiana che dà sicurezza e affrontare situazioni nuove e schemi di vita diversi dai soliti.
È necessario soprattutto avere il coraggio di fare la verità in noi stessi e cercare di superare con pazienza e perseveranza quegli ostacoli che, dentro di noi, ci rendono difficile o addirittura impossibile sperimentare le diverse forme di piacere legate ai momenti di tranquillità e riposo. È necessario avere il coraggio di scoprire le “vere” – non le “buone” – ragioni che ci portano a non trovare il tempo per riposarsi.
Da un punto di vista psicologico – che è quello che qui interessa – riuscire a proteggersi dal pericolo di una vita stressante è anzitutto il risultato di un lavoro di consapevolezza: questo è il punto centrale. «È bene non farsi illusioni su se stessi, cogliere le proprie zone d’ombra, i propri ripostigli, come si farebbe con una vecchia casa ricevuta in eredità. I limiti fanno parte delle cose stesse, come le cicatrici fanno parte del corpo» . Si tratta di un lavoro certamente non facile, a volte, perché si richiedono la forza e il coraggio di vincere certe forme di dipendenza o superare conflitti interni non risolti.
I motivi, più o meno inconsci, che portano all’attivismo e rendono difficile o anche impossibile un riposo autentico possono essere diversi. A volte si deve parlare di una certa incapacità di sopportare la solitudine. Questo può avvenire sotto la spinta di un bisogno che spinge a fuggire da un’angoscia acuta, la quale tende ad affiorare quando la persona è sola con se stessa (un antico biografo di s. Benedetto elogia il santo anche per la sua capacità di “stare con se stesso”: secum vivebat). Per evitare di prendere coscienza dei propri conflitti interni si fugge il silenzio e la solitudine, ci si proietta costantemente nell’agire, riempiendo la giornata di tante cose che – si dice – sono “urgenti” e “si devono assolutamente” fare. Non si bada a sacrifici, non si temono sforzi, non ci si concede tregua; se poi dovessero mancare cose da fare, può capitare di cadere nella depressione o avvertire disagi fisici (ad esempio, mal di testa), arrivando perfino ad abbandonarsi a stati di ebbrezza di qualsivoglia natura. Pascal diceva che «tutta l’infelicità degli uomini viene dal fatto che non sanno restare in pace in una camera» .
In altri casi è il bisogno di sentirsi accettati, compresi, amati, che spinge a darsi al lavoro senza risparmiarsi. La persona è come perseguitata da un senso di disistima e di non accettazione di se stessa - ciò che ha fatto dire a Nietzsche: «il vostro amore del prossimo è il vostro cattivo amore per voi stessi».
Può anche capitare che la persona sia tiranneggiata da un eccessivo senso del dovere e, di conseguenza, incalzata da un acuto senso di colpa: dire no alle persone che chiedono o interrompere il proprio servizio provoca loro un vago senso di disagio, che cerca di superare non “fermandosi” (quasi) mai.
Non è da escludere, in certi casi, che l’incapacità a sospendere il lavoro sia legata a tendenze narcisistiche. Spinta dall’ambizione e dalla smania di protagonismo, la persona può nutrire fantasie grandiose e un elevato concetto di sé che la spingono a progetti di apostolato ambiziosi e a un impegno senza sosta, come dimostrazione di efficienza e di capacità di successo.
Anche un particolare bisogno di compensazione può spingere la persona a darsi senza sosta all’attività apostolica. Quando, ad esempio, la sua dedizione totale e senza sosta è rivolta in modo particolare, se non esclusivo, verso una qualche particolare categoria di persone (ad esempio: i ragazzi, le donne/gli uomini, i bambini…), non si può escludere che inconsciamente stia ricercando la soddisfazione di bisogni affettivi e sessuali ai quali non ha rinunciato in modo consapevole e libero. Queste esperienze di contatti interpersonali funzionano da surrogato affettivo-sessuale. Non è necessario essere discepoli di Freud per immaginare quanto la sessualità (che, ovviamente, non si identifica con l’espressione genitale) giochi un ruolo fondamentale nelle nostre relazioni interpersonali anche nell’ambito dell’apostolato.
Infine, si può citare anche il rifiuto del “limite” e della morte come molla inconscia che spinge la persona a mantenersi costantemente in attività e quindi a provare disagio se si ferma. Quando si avverte il declino delle proprie forze o si profila il momento dell’abbandono di una carica per raggiunti limiti di età o si constata che il proprio Istituto si impoverisce progressivamente di persone e di risorse avviandosi a una lenta scomparsa, allora si può trovare nell’attivismo un modo concreto per non accettare “la fine”, per rifiutare il limite, per esorcizzare l’angoscia del sentirsi inutili e dipendenti. L’attivismo può prendere il volto della persona anziana che si spende in un frenetico e commovente donarsi per la causa, ignorando magari certi suoi limiti vistosi, al punto che chi ne è testimone non può nascondere un vago senso di disagio (compassione).
Il coraggio di fare la verità in se stessi porta anche a cogliere alcuni possibili segnali di un disagio interiore che impedisce di sperimentare la gioia pacificante del riposo. Ad esempio: un persistente senso di tensione interiore; il disagio nel vivere determinati momenti “obbligati” di riposo, come i giorni di festa (significativa l’espressione coniata da V. Frankl che parla di “nevrosi domenicale”) o i periodi di vacanza; la difficoltà o l’incapacità a stabilire contatti umani profondi e cordiali con le persone e provare un autentico interesse empatico; forme accentuate di ansia e preoccupazione per gli esiti del proprio impegno apostolico; la mancanza di altri interessi o di qualche hobby particolare; qualche sintomo psicosomatico persistente e apparentemente impossibile da eliminare.

Umiltà e coraggio come condizioni per sperimentare gioie autentiche

Afferma s. Tommaso: «Il rimedio alla fatica dell'anima, come a quella del corpo, è il riposo. Ciò che riposa l'anima è il piacere. Occorre dunque rimediare alla fatica accordandole alcuni piaceri che interrompano la tensione dello spirito» . Osservazione piena di saggezza: il riposo è necessario per il nostro corpo e il nostro spirito, ma ciò che in definitiva riposa l’anima è la capacità di provare piaceri e gioie autentici
Tale capacità rientra tra gli importanti segni di salute mentale e non la si può dare affatto per scontata in ciascuno di noi. Può capitare, infatti, di incontrare persone che ne sono avide al punto da diventarne schiave, oppure altre la cui vita, in seguito a particolari esperienze educative (ad esempio: l’aver sperimentato una precoce responsabilizzazione o una disciplina piuttosto rigida), è vissuta più sul registro del dovere che del piacere. Vi può essere perfino qualcuno che avverte un sottile disagio quando è felice, quasi si trattasse di un’esperienza “non dovuta” e non “normale” (Otto Rank ha coniato una definizione bellissima per questo modo di vedere la vita: «rifiutare il prestito della vita per non dover pagare il debito della morte».
Si capisce facilmente, dunque, che i momenti di riposo possono essere anche “obbligati” (le ferie, i giorni di festa…), ma se è vero che, come ricorda s. Tommaso, un aspetto essenziale del riposo è la gioia, allora bisogna riconoscere che i periodi di riposo si possono comunque organizzare e prevedere, la gioia no. Già Nietzsche affermava che: «L’abilità non sta nell’organizzare una festa, ma nel trovare persone capaci di trarne gioia».
Torna allora di nuovo utile il richiamo del papa a “trovare ed avere l’umiltà e il coraggio di riposare”: l’umiltà di fare silenzio e mettersi in ascolto, l’umiltà di cercare la fonte ultima della gioia (che, per il credente, è Dio stesso: “Chi può mangiare e godere senza di Lui?” ; “Il giusto gioirà nel Signore e riporrà in lui la sua speranza” ), il coraggio di rimuovere gli ostacoli interiori e i condizionamenti che impediscono di fare l’esperienza della gioia autentica. Benedetto XVI è tornato anche recentemente ad ammonirci: «Viviamo in una società in cui ogni spazio, ogni momento sembra debba essere “riempito” da iniziative, da attività, da suoni; spesso non c’è il tempo neppure per ascoltare e per dialogare. Cari fratelli e sorelle! Non abbiamo paura di fare silenzio fuori e dentro di noi se vogliamo essere capaci non solo di percepire la voce di Dio, ma anche la voce di chi ci sta accanto, la voce degli altri» .
La persona che non riesce a sottrarsi all’attivismo apostolico può essere tormentata da due pensieri: avere troppe cose da fare, avere niente da fare. Sarà dunque necessario ricercare continuamente un equilibrio tra lavoro e riposo tale che ci permetta di vivere nella pace e nell’armonia con noi stessi e ci renda strumenti docili ed efficaci nelle mani di Dio per la diffusione del suo Regno. Sant’Agostino ha parole illuminanti a questo riguardo: «la carità della verità ha bisogno di un santo “ozio”, l’urgenza della carità si fa carico di un giusto impegno» (otium sanctum quaerit charitas veritatis, negotium justum suscipit necessitas charitatis ).