Chi è così bene armato da pronunciare un sì per tutta la vita, rivolto a Dio? Il “sì” espresso oggi è frutto di un storia, dove ha avuto luogo un misterioso dialogo. Il Signore parla al cuore della creatura e l’uomo balbetta un voto, una promessa al suo Creatore, s’impegna a mantenere la sua parola in risposta alla Parola divina sentita “in un sussurro di brezza leggera” (1 Re 19,12).
“Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto” (Lc 1,45). È una grandezza, una nobiltà, un successo della creazione, la cui portata supera tutto ciò che si può percepire e che richiede in sovrappiù un approfondimento fino all’ultimo giorno. È una consolazione, un movimento interiore, uno slancio che fa pensare alla meraviglia del bambino davanti alla bellezza della vita ed esprime la sua gioia con la lode e il canto. È un punto culminante della vita quaggiù che ne dice il significato più profondo, ed è una soglia che consente di entrare “poi un po’ a lungo nei veri sentimenti dell’amore” (Péguy). È un indicibile che fonda tutta la vita, un segreto tra ciascxuno e Dio.

Due Chiese domestiche

Ci sono due grandi realizzazioni visibili di questo “sì” immenso: quella del matrimonio, in cui, per mezzo della grazia del sacramento, il “sì” a Dio è mediato dal “sì” rivolto al coniuge: “Vuoi…?”; “sì, lo voglio…!”, e quella della professione religiosa, in cui il “sì” è direttamente promesso al Creatore e Signore, non senza la presenza della comunità religiosa.
In questo caso si indicano in genere tre punti di riferimento fondamentali. Anzitutto quello dell’azione, del compito da adempiere in cui il combattimento spirituale apre due vie opposte: quella del potere, del dominio e degli interessi materiali ed economici, e quella della povertà dei mezzi: “non procuratevi né oro né argento, né denaro nelle vostre cinture…”. Abbiamo davvero coscienza della gioia e della pace di poter vivere e lavorare così, stando attenti certo a non lasciarsi irretire dalla routine, dall’insensibilità o dalla pigrizia?
C’è inoltre la via del cuore in cui si oppongono l’angoscia e la purezza. La castità è una rettitudine dello sguardo sul mondo che ci circonda e sui prodotti dell’immaginazione (e del computer….), ma essa è più ancora una qualità della relazione con Dio, nonostante tante miserie: “beati i puri di cuore perché vedranno Dio”. Si potrebbe comprendere questa affermazione in maniera moralistica (bisogna essere puri per vedere Dio), ma si può darle anche un senso mistico: vedere Dio è il cuore stesso della purezza. Senza dubbio “Dio nessuno lo ha mai visto, (ma il Figlio unigenito che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18). Di qui la fiducia in Cristo che ci dona di poter andare sempre a Dio, qualunque siano le nostre miserie: “tu sei puro; io non lo sono, ma so che posso avvicinarmi a te”. Un punto importante del combattimento spirituale sarà in questo caso il problema di alimentare il rapporto con Dio, poiché l’angoscia sembra essere anoressica, senza preghiera, senza lode. Perciò la purezza è una premura a nutrire sempre la propria relazione con Dio.
C’è infine la missione, come vincolo con l’autorità amante che ne costituisce la sorgente. Si apre qui la via del “non servirò" di fronte a quella della modestia e della libertà. Solo l’uomo libero e modesto può obbedire e solo l’uomo che obbedisce è libero, “indifferente” in senso ignaziano.
Ecco alcuni modi di rivolgersi a Dio, in una parola, di convertirsi ogni giorno. Sembra che per questo sia necessario custodire un cuore che si lascia meravigliare dalla creazione sensibile e dai volti, e che riceve così, nella lode un nutrimento che supera tutti gli altri della terra. E questo, nel mondo attuale dove la parte di violenza, di anoressia spirituale, di sottomissione a ciò che è impersonale non è sottile.

L’offerta

Possiamo allora domandarci: chi è così forte da pronunciare un sì del genere e fondare su di esso tutta la vita? Malgrado tante miserie, sia in noi come nell’ambiente che ci circonda, Cristo ci guarisce e ci conduce al sì della conversione a Dio; è una testimonianza essenziale della vita religiosa che rende così visibile una guarigione in atto nel cuore di ogni vita, quella di ogni uomo, quella dello stesso pagano (Ef 3,6)».
Possiamo meditare questo impegno dell’uomo con la prima domanda che segue all’istituzione durante l’Eucaristia: «ti preghiamo umilmente: per la comunione al corpo e al sangue di Cristo lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo…» (can. II). Visione di una Chiesa, Corpo di Cristo, che non ha frontiere, poiché comprende nel suo seno tutti coloro che si avvicinano in processione in ogni Eucaristia, per comunicare al Corpo e Sangue del Signore, tutti coloro inoltre la cui vita è offerta (come nella professione religiosa) e tutti coloro la cui vita è sacrificata (o dagli altri o da se stessi…).
Più ancora, questa comunione è partecipazione alla missione del Salvatore e grazia di elezione: «Il Signore Gesù, di cui tu segui i passi, ti conceda di rivivere nella tua carne il suo mistero di morte e di risurrezione» è detto nell’ultima benedizione di questa Eucaristia. Questa preghiera ricorda la ragione per cui i voti sono stati pronunciati davanti al Corpo e al Sangue di Cristo, dopo che il celebrante ha detto: “Ecco l’Agnello di Dio…”.
Di nuovo è la grazia della comunione eucaristica ed è per questo che colui che avanza in processione esprime senza parole, con il gesto, la richiesta che corrisponde a questa grazia: «Signore, donami, se tu lo vuoi, di partecipare con tutto il mio essere alla tua missione redentrice, di fare la tua volontà, come Gesù» (Eb 10,7 -9). Certamente nel corso della vita c’è una parte di sofferenze che ci permettono di comunicare a questo mistero di salvezza ( di sé come degli altri) ma c’è l’iniziativa personale dell’offerta come nel colloquio della meditazione del Regno negli Esercizi di sant’Ignazio. E ci si può chiedere se esiste una libertà possibile senza una tale preghiera, senza una tale offerta, senza un tale voto. Forse è una grazia più determinata dalle circostanze presenti: «Padre, conduci la mi vita in Gesù, tuo Figlio».

La presenza

Finora abbiamo soprattutto contemplato la relazione nei riguardi di Dio. È necessario ora tornare al mistero della Chiesa a cui abbiamo accennato parlando delle due “chiese domestiche” della famiglia e della vita religiosa.
Sulla strada del “sì” dove Cristo ci guarisce e ci rende alla gloria del “sì” a Dio, c’è ancora un aiuto, quello di un “dialogo” misterioso e molto concreto.
Possiamo contemplare nella “presenza” di Maria alla sua cugina Elisabetta, presenza di una giovinezza divina e materna, consegnata all’umanità invecchiata, benedizione e prova allo stesso tempo, che infonde coraggio al movimento di offerta presente in ciascuno. Questa mediazione del “terzi interposti” donati in Cristo da Dio all’umanità si realizza per eccellenza nel ruolo della Chiesa, della congregazione, della superiora generale senza cui non si può comprendere l’affermazione stupefacente della formula dei voti: «Prometto a Dio nostro Signore e a te…. nostra superiora generale che tiene il posto di Dio….».
In altre parole, nel dialogo in cui si determina l’obbedienza per la missione, sembra che, mediante una grazia legata alla Chiesa, il superiore intervenga accanto a Dio. In certo modo c’è qui, sul piano dell’azione, una traduzione, per quanto piccola, di queste parole del Vangelo: “Ciò che avrai legato sulla terra, sarà legato anche nei cieli”. Affermazione inaudita, quando è così vista al suo vertice e che unisce il mistero della Chiesa al sacramento dell’Ordine. Per una buona parte (ciò è quanto sottolineano le Costituzioni delle suore di Madre Teresa, noi pratichiamo l’obbedienza appoggiandoci sull’obbedienza naturale che è in definitiva quella dei bambini ai loro genitori. Ma forse oggi dovremmo comprendere maggiormente, o in ogni caso non perdere mai di vista che il mistero dell’obbedienza viene come a raggiungere quello dell’attestato divino nel cuore di ciascuno.
Bisogna sempre rispettare e approfondire questo dialogo in cui c’è un combattimento spirituale senza frontiere; è di fatto il dialogo del mondo d’oggi con la Chiesa, per la quale domandiamo in ogni Eucaristia: «falla crescere nell’ amore (che viene da te) in comunione con… tutti i suoi pastori»; fa crescere nella pastorale dell’amore «queste pecore con la potenza del Signore» (Mi 5,3) al di là di tutti gli argomenti che potrà suscitare la loro debolezza!

La conferma

Come è ripetuto nel corso della liturgia, la professione è un approfondimento del battesimo. Non solamente come una incarnazione nelle acque del nostro mondo, ma come una conferma che il Vangelo traduce nella parola del Padre: “tu sei il mio figlio amato, tu hai tutto il mio favore”. Chi non può non darne testimonianza, non potendo allo stesso tempo dire così poche cose? L’invio in missione non si comprende unicamente a partire dal suo inizio. L’attestato che risale fino a Dio, per la missione, non cessa di accompagnare colui che è inviato e costituisce ciò che possiamo chiamare la conferma divina. Così la presenza e il dialogo di colui o colei che «tiene il posto di Dio» dona ugualmente a colui che è in missione la pace della voce intesa nel battesimo del Signore: “questi è il Figlio mio l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento” (Mt 3,17).
Il sì di tutta la vita ha senza dubbio un duplice nutrimento: l’offerta di sé per vivere come Gesù; la conferma paterna divina in cui si interpongono il Cristo e il superiore religioso. È ancora l’opera del Padre in ciascuna esistenza, in ciascuna delle nostre vite, senza la quale il cammino sarebbe troppo lungo (1 Re 19,7) ed è la fonte di un’immensa pace.