Dal 20 al 27 settembre prossimo avrà luogo, a Vienna, la riunione della commissione mista cattolici-ortodossi. L’augurio è che il dialogo dopo le lentezze degli ultimi anni, riprenda slancio. È per noi importante tuttavia conoscere meglio una realtà non sempre facile da decifrare. Per questo il presente “Speciale” intende offrire ai nostri lettori una panoramica dei punti di contatto e delle divergenze che tuttora sussistono nel cammino verso l’auspicata unità. Ma ci vorrà ancora molto tempo e pazienza prima che ciò avvenga.


Nel 1155, quindi dopo lo scisma, Basilio di Achrida, metropolita di Tessalonica, di origine slava, scriveva al papa Adriano IV: «Noi non abbiamo altro fondamento della nostra fede di ciò che è già stabilito da Cristo. Questo fondamento, insieme a te, a me e a tutti quelli che appartengono al grande trono apostolico di Costantinopoli, riconosciamo e predichiamo. In ambedue le chiese è la stessa fede che si predica; esse offrono lo stesso sacrificio, Cristo l'agnello che toglie i peccati del mondo. Questo stesso sacrificio è offerto sia dai sacerdoti dell'occidente che celebrano sotto (l'obbedienza) della tua somma altezza, sia da quelli che in oriente ricevono lo splendore del sacerdozio dalla sede sublime di Costantinopoli. Sebbene alcune piccole cose siano intervenute in mezzo a noi e ci separino, tuttavia unisce i molti il medesimo ed unico Spirito»
Nel 1995, Giovanni Paolo II, un papa slavo, scriveva nella Lettera apostolica Orientale Lumen, riferendosi alle Chiese orientali ortodosse: «Abbiamo in comune quasi tutto; e abbiamo in comune soprattutto l'anelito all'unità» (n. 3).
Oggi, all'inizio del secolo XXI, possiamo ancora esprimerci, cattolici e ortodossi, con lo stesso ottimismo? Forse non tutti risponderebbero affermativamente. Sebbene ci siano elementi nuovi rispetto al passato che manifestano un cambiamento positivo nel mutuo atteggiamento fra le due Chiese, oltre alle difficoltà dogmatiche, persistono anche altre forze centrifughe che non è sempre facile controllare.

Alcune premesse

È difficile parlare in generale della «Chiesa Ortodossa». Si può dire che dal punto di vista strutturale e canonico non esiste un'unica «Chiesa ortodossa», ma varie Chiese autotocefale con le loro tradizioni e le loro specificità. Le chiese ortodosse autocefale riconosciute come tali, e perciò in comunione tra di loro, sono oggi 15, suddivise in patriarcati maggiori (Costantinopoli, Alessandria, Gerusalemme, Antiochia), minori o più recenti (Georgia, Bulgaria, Belgrado, Bucarest, Mosca), in arcivescovadi maggiori (Cipro, Grecia, Finlandia) e in metropolie (Albania, Polonia e Cecoslovacchia). «Autocefalia» significa indipendenza amministrativa di ogni Chiesa. Ciò significa per esempio che ogni fedele presente nel territorio italiano dipende dalla sua Chiesa di origine, eccetto per gli ortodossi greci della diaspora che non dipendono dalla chiesa greca, ma dal patriarcato di Costantinopoli. Il fatto dell'autocefalia fa sì che in una stessa città si possono trovare vari vescovi ortodossi a seconda della chiesa autocefala che rappresentano.
Questo fenomeno è difficile a essere compreso da noi cattolici abituati a sentirci parti di una Chiesa di nome e di fatto universale unificata sotto un'unica autorità, quella del vescovo di Roma. Per gli ortodossi non esiste un “papa”, per essi l'autorità suprema, che può parlare a nome di tutte le chiese riconosciute e legiferare per esse, è il concilio ecumenico. D'altra parte non esiste una teologia ufficiale ortodossa dei tempi postconciliari perché dai tempi dei grandi concili ecumenici celebrati insieme non esiste più un magistero vivo nelle chiese ortodosse che proponga una dottrina ufficiale o detti delle norme per tutte le chiese ortodosse.
Si può capire allora come sia rischioso parlare in generale della “chiesa ortodossa”. Sebbene il dogma per tutte le chiese ortodosse sia uguale, esiste tuttavia una grande differenza, per es., tra gli ortodossi greci e quelli rumeni o quelli russi.
Tuttavia mi si permetta, prima di parlare del tema principale a me proposto, di accennare ad alcuni elementi comuni a tutti i nostri fratelli ortodossi e che, per noi occidentali presentano alcune difficoltà per essere compresi, ma che vi aiuteranno a comprendere meglio gli ortodossi presenti in territorio italiano.

La presenza del divino nell'icona

Mentre noi cattolici sottolineiamo la presenza di Cristo nell'Eucaristia e ad essa tributiamo il debito culto anche fuori della messa, gli ortodossi, senza negare e rispettando la presenza di Cristo nell'Eucaristia, hanno l'icona come segno della presenza di Dio e del suo mistero e a questa offrono il debito culto. Infatti nell'icona Dio, pur non identifi¬candosi con le proprie rappresentazioni, vuole essere presente in essa. Non si tratta di una semplice presenza simbolica ma di una presenza personale. L'icona non vuole rappresentare un semplice ricordo di un fatto, di un volto ma è il segno di una presenza attuale. Dio non attua da lontano la salvezza degli uomini. Anche la sua presenza nell'icona ha come scopo di portare l'uomo alla comunione con lui per trasformarlo in lui, per divinizzarlo. Ovviamente tale presenza che ha qualcosa di “sacramentale”, rimanda alla presenza viva di Cristo, della Madre di Dio e dei santi nella gloria e alla misteriosa comunione che la Chiesa vive con loro quaggiù sulla terra. Sono quindi presenze misteriose strettamente collegate con la massima presenza sacramentale di Cristo nell'Eucarestia e con le altre presenze nei sacramenti, nella parola, nella preghiera della Chiesa.
Non bisogna quindi meravigliarsi della grande devozioni che i nostri fratelli ortodossi hanno per le icone. Non si tratta solo di “devozione popolare” di vera teologia vissuta della “presenza”. In questo senso va interpretta anche la loro grande devozione per le reliquie dei santi. Per essi la grazia divinizzante non riguarda solo l'anima, ma anche il corpo. Il corpo del santo, quindi, rimane divinizzato anche dopo la morte.

Il concetto di salvezza

Un altro elemento che bisogna tenere presente per capire i nostri fratelli
ortodossi è il concetto di salvezza e di redenzione. Ci possiamo domandare come mai dalla loro spiritualità manchi e non è tanto sviluppato il concetto di riparazione, di sacrificio. Perché nella sacra Liturgia essi non insistono sul concetto di sacrificio, ma soprattutto su quello del cielo che si cala sulla terra per rendere tutto l'universo – cielo e terra – gloria a Dio. La risposta è perché essi, non solo in teologia, ma inconsapevolmente anche nella spiritualità, posseggono un concetto di salvezza un po' differente da quello nostro.
L'occidente, interpretando il peccato originale, soprattutto a partire da Agostino, come colpa interpretò spesso la morte di Cristo in termini giuridici, come soddisfazione della giustizia di Dio. Massimo esponente, come si sa, di questa teoria fu Anselmo di Aosta con la sua opera classica Cur Deus homo ? (1098). Non è questo il luogo né è nostro compito esporre che cosa veramente Anselmo volesse sostenere nella sua tesi soteriologica . Il fatto certo è che nella tradizione scolastica la tesi della soddisfazione di Anselmo assunse contorni fortemente giuridici.
Questo modo di concepire la Redenzione ha avuto come tendenza di staccare l'opera salvifica di Cristo dall'amore misericordioso di Dio e dalla libertà dell'uomo, vedendola così «come la conseguenza dell'esigenza della giustizia di Dio che può essere 'placata' solo con l'offerta di un omaggio di portata infinita, grazie alla dignità del soggetto che l'ha presentata. L'immagine derivata da tale posizione – un Dio offeso che deve e può essere “placato” solo dal Sacrificio del suo Figlio – è stata una delle rappresentazioni dottrinali cristiane che più ha allontanato l'uomo moderno dall'adesione alla fede cristiana» .
L'oriente cristiano, sia patristico che bizantino e moderno, ordinariamente non ha coltivato il concetto giuridico di peccato originale, ma quello ontologico (l'uomo con il peccato distrugge la comunione con Dio e perciò è morto), ebbe come tendenza di interpretare la Redenzione di Cristo in modo più coerente con l'affermazione che Cristo, ricapitolando in sé tutto il genere umano, con la sua Incarnazione, vita, passione, morte e risurrezione, riportò l'uomo a quella comunione con Dio che era stata interrotta con il peccato. Gesù Cristo per mezzo della sua morte, evento necessario derivante dal fatto che egli assunse la natura umana decaduta, con tutto ciò che essa comporta, concesse all'uomo l'immortalità che era stata interrotta dal peccato. La necessità della morte deriva non dal fatto che era necessario soddisfare la giustizia di Dio, ma dal fatto che egli era “uomo perfetto” e quindi anche soggetto alla morte. «Egli prese un corpo, un corpo che non è diverso dal nostro, scrive Atanasio, egli prese da noi una natura simile alla nostra e poiché noi tutti siamo soggetti alla corruzione e alla morte, egli consegnò il suo corpo alla morte per noi» .

Il significato del monachesimo

Un altro elemento diffide capire per noi cattolici è il significato del
monachesimo. Noi siamo abituati con i vari ordini e congregazioni religiosi, la maggior parte dei quali sono di vita attiva e sono destinati a «compiere qualche opera apostolica nella Chiesa».
È impossibile comprendere la Chiesa ortodossa se non si afferra il significato del monachesimo. I monaci non sono una classe sopra la Chiesa, ma lo stato più alto all'interno di essa. Essi sono «i veri e autentici cristiani», come li chiamò san Basilio. I monaci sono considerati come la forza intima della Chiesa: sono i suoi eroi spirituali, gli archetipi della sua pietà, i modelli della castità, i totalmente impegnati. Essi sono quei cristiani che misteriosamente perfezionano la Chiesa e l'intera umanità perfezionan¬do se stessi. Ciò è realizzato soprattutto attraverso l'ascetismo. La visione di fondo dell'Ortodossia, è essenzialmente ascetica. Per il cristianesimo, infatti, la sofferenza umana, è causa non della vendetta di Dio, ma del potere del demonio sugli uomini mediante la morte. Così l'ascesi acquista un ruolo determinante nella spiritualità ortodossa. Il monaco, essendo il modello del cristiano, diventa colui che ha preso sul serio questa progressiva deificazione attraverso l'ascesi, la sua vita diventa un continuo processo di purificazione. Questo cammino implica la preghiera, i sacramenti ma anche una costante lotta contro le passioni, per vincere il vecchio uomo che ancora coesiste con l'uomo nuovo. Il monachesimo rappresenta il modo radicale per condurre questa lotta contro il demonio. Egli è il vero atleta di Cristo in costante combattimento contro le sue radici peccaminose per poter permettere a Cristo di prendere sempre più possesso di lui. Ecco perché il monaco non ha bisogno di «giustificare» la sua esistenza da monaco con opere esterne, la sua esistenza da monaco è già opera di apostolato.
Con questi nostri fratelli noi siamo chiamati ad entrare in dialogo.

Dialogo dell'amore

Era incominciato e, per un certo periodo, proseguito con i migliori auspici, il dialogo con le “chiese orientali ortodosse”. Da notare che con questa ultima espressione si vuole distinguere queste chiese da quelle che non avevano accettato ufficialmente le definizioni dogmatiche dei concili ecumenici di Efeso (431) e di Calcedonia (451) comunemente chiamate chiese precaldonesi.
Durante il concilio Vaticano II, con le sue aperture ecumeniche, gli osservatori ortodossi, con la propria presenza e consigli, avevano addirittura influenzato la stesura di alcuni documenti conciliari! Nel 1964, Paolo VI e il patriarca Atenagora, per la prima volta dopo lo scisma, si incontravano a Gerusalemme, tutti e due pellegrini nella terra di Gesù. Seguiva un altro atto di grande importanza ecclesiale per i rapporti delle due Chiese: il 7 dicembre del 1965, a conclusione del concilio Vaticano II, con una cerimonia parallela a Roma e a Costantinopoli, si è proceduto all'abrogazione delle scomuniche che nel 1054 avevano inflitte il cardinale Umberto di Silva Candida e il patriarca Michele Cerulario.
Atenagora e Paolo VI si incontrarono ancora due volte: una al Fanar (Instanbul) nel luglio del 1967 e l'altra a Roma nell'ottobre dello stesso anno. Paolo VI nel suo viaggio a Costantinopoli consegnava al patriarca il Breve Anno ineunte in cui sintetizza l'ecclesiologia delle chiese sorelle già presente nel Decreto conciliare sull'ecumenismo: «Questa vita delle Chiese sorelle – scriveva il Papa – è stata da noi vissuta per secoli, celebrando insieme i concili ecumenici che hanno difeso il deposito della fede contro qualsiasi alterazione. Ora, dopo un lungo periodo di divisione, il Signore ha concesso che le nostre Chiese si riscoprano sorelle, nonostante gli ostacoli che erano sorti fra noi nel passato».

Dialogo teologico

Alla base dell'ecclesiologia delle chiese sorelle si trova il riconoscimento ufficiale da parte del concilio Vaticano II della validità dei sacramenti degli ortodossi e di conseguenza della loro “ecclesiologia” anche se non nella sua pienezza. Il decreto sull'ecumenismo, infatti, afferma che «i dogmi fondamentali della fede cristiana: della Trinità e del Verbo di Dio incarnato da Maria vergine, sono stati definiti in concili ecumenici celebrati in oriente» e che le chiese ortodosse, nonostante l'assenza della piena comunione con il vescovo di Roma, sono vere chiese, perché «hanno veri sacramenti e soprattutto, in virtù della successione apostolica, il sacerdozio e l'Eucaristia», e perciò «restano ancora unite con noi da strettissimi vincoli» (cf. UR 15)
Già da allora quindi si incominciò a parlare delle chiese ortodosse non più come “chiese separate”, ma come chiese in comunione con la chiesa di Roma, anche se non in maniera piena.
Per arrivare a questa «piena mutua comunione» nel 1979 Giovanni Paolo II e il patriarca di Costantinopoli Demetrios I decisero l'istituzione di una Commissione Mista Internazionale per il dialogo teologico tra la chiesa cattolica e la chiesa ortodossa. Questa, che ha iniziato a lavorare nell'80, attraverso il dialogo, aveva come scopo «il ristabilimento della piena comunione tra le due Chiese».

Insuperabile difficoltà l' “uniatismo”?

Tuttavia, fin da principio si sono presentate enormi difficoltà in questo dialogo. La Chiesa cattolica doveva affrontare, come un unico blocco, ben 14 chiese ortodosse: i patriarcati di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme, Mosca, Serbia, Romania, Bulgaria, Georgia e le chiese autocefale nazionali di Grecia, Cipro, Polonia, Cecoslovacchia, Finlandia che spesso non sono in grado di mettersi d'accordo tra di loro . Inoltre manca, nelle due tradizioni teologiche, un comune strumento ermeneutico della sacra Scrittura. Infatti, i criteri interpretativi della Bibbia sono differenti nel campo cattolico e in quello ortodosso ufficiale. Ciò, tuttavia, che ben presto ha avvelenato il dialogo è stato il problema del cosiddetto “uniatismo”. Con questo termine si vuole designare la realtà delle chiese orientali che si unirono alla chiesa di Roma come quelle che risalgono all'unione di Brest (1595-1596) in Ucraina, all'unione di Uzhorod (1646) dei ruteni e degli slovacchi in Ungheria, all'unione dei romeni di Siebenbürgen (1698). Le Chiese ortodosse non avevano mai accettato questo dato di fatto e usarono tutti i modi per riportare questi cristiani alle loro antiche chiese.
Nel 1946 a Leopoli, su pressioni di Stalin, in un gruppetto di preti, radunati in sinodo, (illegale, secondo Roma e secondo la gerarchia greco-cattolica) dichiarò che gli “uniati” tornavano ortodossi. Quanti non accettarono la decisione subirono persecuzioni e il carcere. Gli edifici sacri “uniati” furono incamerate dallo stato o dati, in parte, agli ortodossi. Con il ritorno della libertà religiosa in Urss, dal 1989, gli “uniati” hanno chiesto, e quasi sempre ottenuto («con la violenza», accusa Mosca, ma gli interessati smentiscono), la restituzione degli edifici loro sottratti nel 1946. La chiesa russa considerò, e considera, intollerabili i modi e i tempi con cui gli «uniati» si sono ripresi gli edifici contesi. Questa esigenza di giustizia e specialmente il loro ritorno in seno alla chiesa cattolica fu considerato dalle chiese ortodosse come un tradimento e come “proselitismo” da parte della chiesa cattolica. Questo ha influenzato in maniera disastrosa anche il dialogo ecumenico. Tre dei documenti ufficiali della Commissione mista – Freising, Germania, 1990; Ariccia, Roma, 1991: Balamand, Libano, 1993 – toccano espressamente l' “uniatismo”. Il documento di Balamand avrebbe potuto segnare una svolta riguardo questo problema perché la commissione mista riconosceva la chiesa cattolica e quelle ortodosse come “chiese sorelle” per cui si rinunciava al “metodo dell'uniatismo” come mezzo per arrivare all'unità delle chiese e si ribadiva invece la necessità del dialogo paritario. In quella riunione, però, erano rappresentate solo dieci chiese ortodosse; tra le assenti era anche quella greca. Ma anche varie chiese, come quella russa, che avevano firmato in Libano il documento finale, lo hanno poi di fatto respinto. Nel luglio del 2000, a Baltimora (Usa), la commissione mista ha ripreso il dialogo, proprio sull' “uniatismo”, ma senza riuscire a trovare alcun accordo in merito. I rappresentanti ortodossi, come condizione per risolvere il problema dell'uniatismo, posero la seguente scelta: o i cattolici di rito greco fanno ritorno alle loro chiese d'origine, diventano cioè ortodossi, o diventino latini. Evidentemente questo era un modo per interrompere di fatto il dialogo!

Ripresa del dialogo

Le due Chiese, dopo cinque anni di interruzione, decisero di riprendere il dialogo, mettendo da parte per il momento il tema dell' “uniatismo”. Esso fu ripreso, nel suo insieme, nel 2006 nella riunione della Commissione mista internazionale a Belgrado che preparò il testo completato a Ravenna il 13 ottobre 2007 e che porta il nome di questa città. Il Comitato misto di coordinamento riunitosi nell'isola di Creta dal 27 settembre al 4 ottobre 2008 preparò un testo da sottoporre alla Commissione mista internazionale col titolo oltremodo interessante: Il ruolo del vescovo di Roma nella comunione della Chiesa nel primo millennio.
La Commissione mista internazionale nel suo insieme si incontrò nell'sola di Cipro (a Pafo) per esaminare questo testo dal 16 al 23 ottobre del 2009. Dai rappresentanti delle varie chiese ortodosse mancavano solo quelli della chiesa bulgara che non prende parte a nessun dialogo.
Avevano preceduto quest'incontro manifestazioni di protesta da parte di gruppi integralisti ortodossi dalla Grecia che si opponevano al dialogo ecumenico con la chiesa cattolica. Queste manifestazioni influenzarono negativamente i membri ortodossi per cui la discussione sul testo proposto fu faticosa e oltremodo lenta. Siamo riusciti ad esaminare solo alcuni paragrafi rimandando il lavoro per il resto del testo alla riunione che avrà luogo a Vienna dal 20 al 27 settembre 2010, sperando che ne mentre gli animi saranno più sereni e più disposti ad dialogo veramente “fraterno”.

Problema principale non risolto

Ciò che frena, tuttavia, il dialogo tra cattolici e ortodossi, secondo la nostra opinione, non è tanto il papato, il Filioque o l' “uniatismo”, ma il problema non ancora chiarito del mutuo riconoscimento dell' “ecclesiologia” delle due Chiese, ossia del reciproco riconoscimento della validità dei loro sacramenti. Infatti, il primo e indispensabile presupposto affinché si possa parlare di dialogo tra le due Chiese, è sapere come una Chiesa consideri l'altra dal punto di vista ecclesiologico. Nel caso concreto, che cosa rappresenta per la chiesa cattolica la chiesa ortodossa e viceversa? In altri termini, una Chiesa considera l'altra come “chiesa sorella”? Detto ancora in modo più esplicito: l'una riconosce l'altra come Chiesa? I fedeli dell'altra Chiesa sono in realtà e a pieno titolo cristiani e usufruiscono della salvezza di Cristo non solo come individui, ma come membra di una comunità segno efficace della salvezza? E quindi i sacramenti amministrati sono considerati validi nell'altra Chiesa? Come ognuno può capire si tratta degli interrogativi di fondo la cui previa risposta è necessaria perché il dialogo possa avere una qualche credibilità e prospettiva. Diversamente, il dialogo nell'”amore” rischierebbe di imboccare un sentiero minato perché si fonderebbe su un inganno, fatto estremamente pericoloso per la credibilità delle nostre chiese.
È sintomatica la nota di fondo riportata dal Documento di Ravenna:
«Alcuni partecipanti ortodossi considerano importante sottolineare che l'uso dei termini "chiesa", "chiesa universale", "chiesa indivisa", e "Corpo di Cristo", nel presente documento e negli altri documenti elaborati dalla Commissione mista, non sminuiscono in alcun modo la comprensione che la chiesa ortodossa ha di se stessa quale chiesa una, santa, cattolica e apostolica, di cui parla il Credo di Nicea. Dal punto di vista cattolico, la stessa consapevolezza di sé implica che la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica sussiste nella Chiesa cattolica (LG 8); ma ciò non esclude il riconoscimento che elementi della vera Chiesa siano presenti al di fuori della comunione cattolica».
Come si sa, questa nota fu voluta dalla rappresentanza della chiesa russa e da quella della Georgia e fu accettata senza reazione dalle altre chiese ortodosse. Ciò, secondo noi, indica tutta la tragicità dell'equivoco nel dialogo tra cattolici e ortodossi, il non risolto problema del mutuo riconoscimento della loro ecclesiologia, almeno da parte ortodossa.
La chiesa cattolica, come appare anche dalla nota riportata sopra, ha già da tempo precisato la sua posizione in proposito: la chiesa cattolica riconosce ufficialmente la validità dei sacramenti dei fratelli ortodossi e quindi della loro “ecclesiologia” con tutte le conseguenze salvifiche.
Da una parte, quindi, possediamo oggi una posizione chiara e unanime della chiesa cattolica che riconosce ufficialmente la chiesa Ortodossa orientale come Chiesa e che quindi accetta la validità dei suoi sacramenti; dall'altra, per quanto riguarda l'atteggiamento della chiesa ortodossa circa la validità dei sacramenti della chiesa cattolica, abbiamo solo alcune affermazioni positive a livello di vertice. Queste affermazioni, però, non sono vincolanti, poiché soltanto un concilio potrebbe prendere una posizione affermativa o negativa in proposito. Le varie chiese ortodosse e soprattutto la teologia non la pensano come le dichiarazioni ufficiali dei patriarchi ecumenici. È noto anche che in occasione del dialogo ufficiale tra cattolici e ortodossi sono state espresse, da parte di qualche ortodosso, posizioni contrarie su questo tema, cosa che ha provocato turbamento nella commissione dei cattolici e non solo in essi. È sufficiente ricordare la messa in dubbio della validità dei sacramenti della chiesa cattolica da parte di alcuni teologi ortodossi in occasione della terza riunione della Commissione mista per il dialogo nel giugno del 1984 nell'isola di Creta .
Del resto personalità ortodosse chiaramente favorevoli al dialogo ammettono candidamente che non è possibile questo mutuo riconoscimento.

Sprazzi di speranza

Quanto abbiamo riferito fino a questo momento potrebbe dare l'impressione che nel dialogo con la Chiesa ortodossa ormai tutto sia negativo. Non è precisamente così. Esistono nel mondo ortodosso delle persone veramente illuminate e disposte al dialogo, contrarie a certe forme di nazionalismo tanto in voga oggi in certi paesi ortodossi e che tanto male hanno procurato a questi paesi e alla Chiesa stessa. Prova ne sia, il simposio ecumenico che ogni due anni viene organizzato dall'Istituto francescano di spiritualità della pontificia Università Antonianum di Roma con la Facoltà teologica dell'Università di Tessalonica. Esso offre sempre svolte molto positive.
I viaggi del papa Giovanni Paolo II poi, in diversi paesi ortodossi come la Romania, la Grecia, l'Ucraina, l'Armenia hanno lasciato un segno e un ricordo positivo indelebile nell'animo della maggior parte dei fedeli ortodossi.
Bisogna notare che la Chiesa non è fatta solo dalla gerarchia o dai monaci, ma soprattutto dai semplici fedeli i quali bramano l'unità delle Chiese. Essi sono coscienti che il pericolo non è rappresentato dal cattolicesimo, ma dal diffondersi delle sette fondamentaliste di varia provenienza.
Anche le visite di patriarchi e primati di varie chiese ortodosse che hanno visitato l'attuale pontefice, hanno lasciato una grande impressione positiva sull'opinione pubblica dei paesi di provenienza. È caratteristico l'esempio delle visite a Benedetto XVI del primate della Chiesa greca Christodoulos, di quello della Chiesa di Cipro Chrisostomos, dell' Albania Anastasios. La chiesa di Cipro ha ricevuto ora (4-6 giugno) la visita del papa.
Molte chiese ortodosse stanno passando un momento di assetto dopo più di 50 anni di comunismo o dopo la disastrosa crisi dei Balcani. Esse stanno cercando la loro identità e, come succede spesso, hanno bisogno di opporsi dialetticamente a qualcuno per ritrovarla anche perché esse non hanno avuto un “Vaticano II” come la chiesa cattolica che, in seguito a questo avvenimento, ha cambiato radicalmente il suo atteggiamento nei confronti degli ortodossi.
Del resto si nota nelle chiese ortodosse una grande ripresa di vita spirituale specialmente nel contesto monastico e la teologia si esprime in forme nuove ed originali. Se questa spiritualità è autentica, presto o tardi i nostri fratelli ortodossi dovranno superare quel momento di dialettica che li oppone alla chiesa cattolica e capiranno che le intenzioni della santa Sede sono sincere. Bisogna che anche loro facciano una purificazione della memoria storica e capiscano che non siamo più nell'epoca dei domini veneziani o delle crociate e quindi nessuno vuole più fagocitarli e umiliarli. Il mondo cattolico oggi ha una grande stima della tradizione orientale e fa di essa sempre più tesoro nella sua spiritualità e nella sua teologia. Quello che la chiesa cattolica chiede ai nostri fratelli ortodossi non è una sottomissione ad essa, come si faceva fin quasi alla vigilia del concilio Vaticano II. È necessaria una reciproca conoscenza e un superamento dei pregiudizi per affrontare insieme, in un clima di collaborazione, le sfide del terzo millennio.
È necessario che diventi convinzione di tutti che una chiesa divisa rappresenta un grave peccato contro lo Spirito Santo. «Una Chiesa divisa – scriveva o. Cullmann – è propriamente impensabile ... Ogni discussione sull'unità della Chiesa, come pure le nostre preghiere per l'unità, rischiano di perdere ogni significato, se non siamo pronti a fare con amore dei sacrifici per questa unità» . Sono sempre attuali le parole di Giovanni XXIII: «Nell'ultimo giorno sarà chiesto a ciascuno non se ha fatto l'unità, ma se ha per essa ha pregato, lavorato, sofferto; se si è imposto una disciplina saggia e prudente, paziente e lungimirante e se ha dato forza alle esigenze della carità» .