Sono trascorsi ormai vent’anni dal ritorno alla casa del Padre di dom
Giuseppe Nardin osb, abate della basilica di S. Paolo fuori le Mura a Roma. Chi
l’ha conosciuto lo ricorda come un uomo dell’ascolto della Parola, felice di
essere monaco, «una persona – come era solito dire lui stesso – che vive
nell’oggi del tempo di Dio con un orecchio teso in ascolto del tempo del mondo».
Uomo di profezia, capace di guardare lontano, oltre le angustie di spazi
ristretti, che immaginava sempre più ampi perché la capacità di amare dilata il
cuore e spinge verso orizzonti infiniti.
Uomo di silenzio e intensa contemplazione, che trasformava in straordinaria
capacità di azione e di impegno, anche quando le forze negli ultimi mesi di vita
lo stavano abbandonando.
Uomo delle Beatitudini, di cui ha incarnato lo spirito nella sua vita.
Uomo di giustizia che ha compiuto scelte anche controcorrente, in coscienza e
responsabilità, nella convinzione che l’unico comandamento sia quello
dell’amore.
Una vita tutta donata
Saverio Nardin nasce a Faver (Trento) in val di Cembra il 7 dicembre 1931,
secondogenito di dieci fratelli e sorelle: a dieci anni passa un breve periodo
presso la Congregazione di Gesù sacerdote fondata da P. Mario Venturini. A
sedici anni, in occasione di un pellegrinaggio al Santuario della Madonna di
Pinè, sente la chiamata per l’Ordine di San Benedetto: entra così nel Monastero
di S. Pietro a Perugia e prende il nome di Giuseppe. Sacerdote dal 1956, si
laurea al Collegio Sant'Anselmo nel 1961 con una tesi sul movimento di unione
degli ordini religiosi. In clima di rinnovamento conciliare inizia il lavoro
all'interno della Congregazione per i religiosi e gli istituti secolari e,
successivamente come segretario e poi vicepresidente della CISM nazionale. Viene
anche nominato rappresentante della CISM presso la Caritas italiana come membro
del Consiglio nazionale. Nel 1981 dà vita alla Fraternità Monastica Missionaria,
con la finalità di offrire all’uomo di oggi un’esperienza di ricerca di Dio, di
promozione della persona e delle famiglie. La Fraternità è una famiglia
spirituale che coniuga la vita contemplativa con il servizio ai fratelli e
realizza una condivisione di vita tra persone consacrate nella verginità e nel
matrimonio.
Convinto sostenitore di una Chiesa che si riscopriva popolo di Dio all'interno
di un'unica vocazione battesimale, una volta divenuto abate all'Abbazia di San
Paolo, fonda l'Institutio Familiaris per la formazione di operatori di pastorale
familiare.
Studioso dei Padri e della storia del monachesimo, lavora con passione per un
rinnovamento della vita monastica tra le novità del Vaticano II e la fedeltà al
carisma dei Fondatori. Una Chiesa, e in particolare una vita religiosa, libere
da tentazioni clericali e monasteri aperti e accoglienti, soprattutto del povero
e dello straniero, secondo la Regola di san Benedetto: sono queste le premesse
per la sua azione sul territorio, che definisce “monachesimo pastorale” unito a
un'intensa spiritualità.
Si rende disponibile ad accompagnare spiritualmente i giovani, trasmettendo
l’amore per l’ascolto della parola di Dio, la preghiera, la Chiesa e i poveri. È
per i tanti ragazzi a rischio delle borgate romane che fonda i Gruppi di
accoglienza San Benedetto, ma è anche collaboratore della Caritas di Nervo, Di
Liegro, e Pasini – come membro del Consiglio nazionale – assistente della ACISJF
(Casa della Giovane) e del SAE (Segretariato Assistenza Famiglie). Nel gennaio
1980 è nominato Abate dell'Abbazia di San Paolo e partecipa di diritto alla CEI.
Con lui la Basilica diventa luogo di incontri e dialogo ecumenici, sempre aperto
al contributo dei laici. Nel 1987 le dimissioni. Un anno dopo il manifestarsi di
un cancro che non gli impedirà fino agli ultimi mesi di attraversare l'Italia
per incontri, conferenze, esercizi. Perché – diceva – «lo Spirito ci incarna
nella storia, ci chiama a camminare nella realtà, non a sorvolare».
Rimangono di lui le pubblicazioni di diversi studi e saggi sulla vita monastica
e sulla famiglia in riviste monastiche italiane ed internazionali, in periodici
della Caritas italiana, in collaborazione con lo Studio Biblico Teologico
Aquilano e con l’Azione Cattolica.
Uomo felice e sereno
Il card. Paul Augustin Mayer, a un anno dalla morte, ricordava come dom Giuseppe
Nardin rispose alla domanda su quale ruolo avesse la vita religiosa oggi. Nardin
rispose senza esitazione: «Formare persone felici e soddisfatte». Il pontificato
di Giovanni XXIII e la ventata del concilio con la riscoperta dell’universale
chiamata alla santità e del sacerdozio comune dei fedeli, l’avevano confermato
nelle sue riflessioni sull’identità del monaco: pienamente realizzato nella sua
umanità, capace di vivere nella storia e di camminare a fianco di tanti, non un
gradino sopra.
«Il ricordo che conservo di lui è quello di un uomo di una serenità
straordinaria – dice Lucia Borzaga, trentina e sorella del servo di Dio, padre
Mario, ucciso a 27 anni in Laos nel 1960 – erano anni di grande speranza per la
Chiesa che si respirava soprattutto negli ambienti della Congregazione per i
religiosi e lì è nato quel termine “rinnovamento” che p.Nardin ha cercato di
portare avanti con entusiasmo e passione per tutta la sua vita».
Uomo di contemplazione, era capace di entusiasmo di fronte a un paesaggio delle
sue montagne come del mare nelle regioni del Sud; il cielo stellato lo ammirava
in silenzio.
Uomo di montagna, apprezzava anche la pioggia perché disseta la terra o la neve
del bosco, di cui aveva sincera nostalgia quando era a Roma!
Uomo di cultura, amava la bellezza dell’arte e della musica, secondo la grande
tradizione benedettina. Mostrava una serenità interiore non comune: quanti
l’hanno incontrato ricordano la mitezza con cui si rivolgeva all’interlocutore,
la pazienza nell’affrontare e risolvere un problema, la sincerità nel
riconoscere i propri errori. Sapeva mediare i valori del Vangelo, l’obbedienza
alla Chiesa, l’attenzione alle realtà concrete, con la sapienza del
“contemplativo” che guarda a Dio e riconosce la sua azione nel cuore degli
uomini e della storia. Dove la Chiesa viveva la sofferenza della lacerazione,
l’abate Nardin era presente come uomo di dialogo e di comunione, promotore di
riconciliazione e di pace.
La premura per l’altro non gli è venuta meno nel corso dei mesi di malattia.
Sembrò quasi intensificarsi nei limiti delle forze che gli restavano: «se la
penna faceva fatica a scrivere, si affidava al telefono, non prima di essersi
accertato che la voce non tremasse per non preoccupare chi era lontano».
Religiosi, sentinelle di Dio
È quasi un’arringa appassionata quella di p.Nardin a favore di un cambio di
mentalità per la pastorale della Chiesa postconciliare. Il richiamo al
“rinnovato slancio missionario” invocato dal documento Mutuae relationes (n. 19)
o all’urgente rinnovamento delle tradizionali forme di apostolato e alla
creazione di nuove presenze, lo vedono in prima fila per passare dalla parola
all’azione, ma è soprattutto negli incontri con i religiosi che non manca di
ricordare quel suo “esserci, starci dentro” nel mondo, fra la gente, nella
cultura. Nel 1988, all’assemblea provinciale dei marianisti, indicava i
religiosi come sentinelle rivolte verso l’assoluto ma anche verso il movimento
della storia, segni visibili e credibili dei beni futuri ma anche capaci di
stare dentro il presente con concretezza e coinvolgimento. Uomini e
donne-sentinelle, capaci di discernimento profetico, che presi dall’amore di Dio
per l’uomo e per il mondo, si aprano a ciò che è positivo nella storia, in
cammino con tutta l’umanità, con la Chiesa pellegrina, capaci di nuovo esodo.
«Se siamo presenti nei vari rami della missione della Chiesa – diceva p.Nardin –
sappiamo perché e per chi ci siamo. E se siamo presi da Cristo, non possiamo non
sentire gli interrogativi dell’uomo e della donna di oggi e non dar loro
risposta».
Promotore di dialogo ecumenico
Nella sua opera di attuazione del Concilio e dell’approfondimento della figura
di S. Paolo – cui si era dedicato dall’arrivo all’Abbazia, luogo della tomba del
santo – p. Nardin dona tante energie anche per l’impegno ecumenico. Rende la
basilica di S. Paolo un luogo per incontri di preghiera e dialogo ecumenici e un
centro di diffusione delle traduzioni interconfessionali della Bibbia in lingua
corrente, frutto del lavoro dell’Alleanza Biblica universale, della quale fu per
anni prezioso collaboratore anche per la sua buona conoscenza delle lingue.
Diede anche avvio all’esperienza dei Vespri ecumenici internazionali al martedì
sera in basilica. L’abbazia di S. Paolo diventa così in quegli anni sede di
incontri significativi tra papa Giovanni Paolo II e rappresentanti della Chiesa
ortodossa e altre confessioni religiose. «Il tempo di Nardin – scriverà a un
anno dalla morte il pastore Bertalot – è stato quello di una bella primavera
ecumenica, il cui profumo è ancora tra noi».
Ma la basilica costituisce sempre di più un luogo di incontro per gruppi di
ascolto della Parola, momenti di preghiera, esercizi spirituali aperti a tutti
coloro che desiderano fare esperienza di un monastero che apre la porta della
spiritualità ai laici.
La malattia e le dimissioni
Nel 1987 Nardin rassegna le dimissioni da abate per motivi di salute. Libero
dagli
impegni precedenti, intensifica il lavoro alla Caritas. Sarà anche ospite di
mons. Tonino Bello con cui aveva già condiviso alcune coraggiose scelte
pastorali. Il 1988 è segnato da avvisaglie del male incurabile che annienterà
inesorabilmente il suo fisico fino alla morte, all’alba del 4 febbraio 1990.
Così lo ricorda Alessandro Maria Gottardi, arcivescovo emerito di Trento, pochi
giorni dopo la sua morte: «Ricordando non soltanto le tappe della malattia,
soprattutto dolorosa negli ultimi mesi e vissuta fino all’ultimo con semplicità
e generoso abbandono, ma anche ripensando ad altre cause del suo travaglio, è
facile comprendere quanto pesanti siano stati per lui i motivi di angoscia: nota
a Dio, ma esemplarmente nascosta agli uomini e custodita in dignitoso silenzio.
Ore difficili e dure egli visse, quale personale tributo di grazia, anche nel
ministero di abate, a costo di personale sacrificio; ma proprio allora rifulse
più autentica la sua virtù: salda fede, serena fortezza, amore alla Chiesa,
eroica obbedienza. Fu così che, proprio quando venne messo in disparte, meglio
apparve la sua luminosa figura di uomo, di cristiano, di religioso».