È questa una delle espressioni oggi ricorrenti che sembra richiamare l’attenzione su ciò che possiamo ancora realizzare dando per scontato ciò che non si riesce più a fare. Ma quello che maggiormente oggi frena la vita religiosa è proprio l’insufficiente consapevolezza di ciò che non può più fare.
Nel mese di ottobre 2009 la Cism-Usmi del Triveneto ha promosso a Torreglia un incontro sul tema Vita consacrata nel territorio per una presenza profetica. Altrettanto è stato fatto a livello nazionale con il convegno di Assisi su Il Vangelo nelle opere di carità. In tutte e due queste occasioni mi pare sia stato messo in luce che «la grandezza del carisma della carità rischia di essere mortificato se ci si accontenta di erogare servizi» .

Dal “fare” alla profezia

Il discorso sul «fare» della VR non è nuovo. Qualche anno fa p. Bisignano al termine del suo mandato da presidente CISM disse: «la VC concluda la sua diuturna stagione dell’utilità per passare a quella della profezia». Questa espressione si ritrova come «canto fermo» all’interno di una sinfonia di voci. La presidente dell’ USMI disse nella Assemblea 2003: «Un millennio di fioriture di opere sembra chiudersi per far fiorire segni di umanizzazione e di prossimità senza strutture, per affiancarci di più e più direttamente all’uomo d’oggi» . E p. Schalück (ex generale ofm): «La missione fondamentale non consiste prima di tutto nell’efficienza caritativa ma nella capacità di creare spazi di incontro dove Dio può essere sperimentato pure oggi». Già nel 2004 il mandato del congresso internazionale è stato: «Scendere da cavallo (ciò che si è sempre cavalcato) per inventare gesti di tenerezza».
Che la stagione dell’utilità debba volgere al termine è auspicato anche dal documento della S. Sede, Ripartire da Cristo ove si dice che «le persone consacrate sono obbligate a cercare nuove forma di presenza, e a porsi non pochi interrogativi sul senso della propria identità e del loro futuro», intravisto nel «recuperare il proprio compito essenziale di lievito e di fermento» (13).
Non si tratta di svalutare quelle opere che sono testimonianza dell’amore, ma di correggere una tendenza, dovuta al mutamento in atto che rischia di svuotare di profezia la vita di molti istituti che in questo momento sono impegnati ad offrire servizi, in competizione con i tanti offerti da uno stuolo crescente di soggetti. La maggior parte delle opere oggi si trova in una situazione completamente diversa dal tempo in cui si è attivata, non più frutto ed espressione dell’istanza carismatica di un ente, ricco di generosità e di idealità ma sempre più esplicita espressione di un contratto (stato-ente) dalle forti connotazioni commerciali, che corre il rischio di rendere uguali tutti i servizi. La residualità numerica dei Religiosi/e e l’esuberante presenza di professionisti «dipendenti» ha portato le opere ad evolversi come un modello d'impresa, ed in tal modo negli anni, l'operatore sociale si è portato sovente ad essere prevalentemente lavorista, rendendo fragili le logiche di “dono” necessarie nella relazione di aiuto.
Conseguenza di tutto ciò è che l’istituzione, insabbiata nell’attuale guado culturale, è portata a spendere tutte le sue forze nella gestione strumentale delle risorse avendo ormai di proprio, in molti casi, soltanto il titolo di possesso dell’immobile e della convenzione con lo stato. Scelte queste che sembrano nascere dalla nostalgia della sicurezza che l’Opera un tempo offriva ma che ora, mancando il ricambio generazionale, tengono o terranno soltanto per il prolungarsi degli anni di vita delle persone. Pensando al futuro, in ogni caso, lo sguardo non può essere unicamente rivolto alle opere ma al carisma dell’istituto.

Tempo di resistere o di traghettare?


Ho letto ciò che tempo fa p. Bruno Secondin scriveva: «Io a volte paradossalmente ho affermato – perfino a scuola nelle austere aule della Gregoriana – che dall’esperienza storica della vita consacrata (penso al famoso libro di R.Hostie, Vie et mort des ordres religieux) non più 150 anni si devono calcolare come tempo ottimale per la maturazione e apogeo degli Istituti, ma forse solo 30-40 anni. E dopo? Dopo forse sarebbe meglio … ricominciare da un’altra parte da capo» .
Questo dire, che a qualcuno può sembrare temerario, apre a necessarie riflessioni sul futuro del carisma la cui vita non sta nel preservare e migliorare le faticose conquiste fatte ma in possibilità e occasioni da non perdere. È un dire rivolto a persone e comunità in grado di soffermarsi nell’attuale spaesamento, capaci di stare nell’inquietudine dell’incontro con il nuovo e il diverso, per raccoglierne valore e promessa. È il tema, non nuovo, della rifondazione in funzione del poterci essere.
Ogni carisma nel suo sorgere ha in sé un potere straordinario ma proprio per questo limitato nel tempo. Esso – dice Weber – è particolarmente efficace solo in statu nascenti. In seguito il carisma si oggettiva e si irrigidisce. I membri nel periodo di stato nascente (Alberoni) sono uniti da un legame forte. Non sono solo le idee ad unire. Al di sotto delle idee c’è un rapporto emotivo che costituisce lo sfondo su cui esse si sviluppano. Le idee sono ispirate da questo tipo di influenza emotiva (motus). In questa situazione di «movimento» i membri hanno una grande capacità auto organizzativa anche perché in questa fase i suoi membri sono portati istintivamente ad anteporre i fini collettivi a quelli personali. Il sogno di coloro che hanno parte in questa fase di «movimento» (tutti i carismi nascono così) è di perpetuare lo stato nascente, renderlo eterno. È un sogno ricorrente ma è un’illusione. Lo stato nascente non può perpetuarsi perché appena cerca di farlo innesca il processo di istituzionalizzazione.
Il significato di questo dire è che il Carisma di un istituto esprime il meglio di sé in situazione di stato nascente, successivamente – specie dopo la morte del fondatore/trice – si apre il registro del tempo che lo porta ad essere sfidato dalle minacce che sorgono dal suo seno, in un ciclo senza fine. Può cercare di nascondere i segni del tempo (aggiornamento), ma non il peso e le conseguenze degli anni; può rimodellare il viso (rinnovamento), ma non ritornare alla forza del tempo in cui è nato.

Allora cosa possiamo ancora fare?

Ricominciare da capo? Da un’altra parte? Le forme di VR nascono sempre in un periodo storico determinato e ne conservano le tracce e ovviamente anche in qualche misura la relatività . La rivoluzione culturale che ha investito l’occidente ha cambiato tutto; l’unica a illudersi di non cambiare è la VR per cui oggi, nelle terre di antica cristianità, non trova più il luogo storico ove manifestare i propri valori. Scriveva J. C. Guillebaud: un’istituzione, qualunque sia, è sempre tentata di obbedire a una sindrome di rigidità e di permanere nel suo dover essere riformata. È quello che in una parte dell’Europa risulta evidente. L’unica via possibile sembra dunque essere quel «ricominciamento», che parte dal credere ad un’ altra forma atta a incarnare gli stessi valori, al di fuori di tradizioni acquisite. «Senza l’ipotesi che un altro mondo è possibile non c’è politica, c’è soltanto la gestione amministrativa degli uomini e delle cose» . La via di uscita allora è di ricominciare, che significa riattivare il processo dell’origine che implica l’irruzione di situazioni inedite qui o altrove dove sia possibile esprimere «il nucleo centrale, per godere della trasparenza, per ritrovare la chiarezza delle linee portanti, la leggerezza e la flessibilità» .
Senza questa ri-creatività il carisma resta solo memoria catalogata e l’identità diventa mera identità giuridica.

Passare dalle opere all’operare

Sia la storia che il tempo presente invitano a ridimensionare l’importanza degli apparati per mettere al primo posto il messaggio che la vita religiosa è chiamata a dare. Questo porta alla relativizzazione delle opere per favorire una «vita che visibilizzi i segni della presenza di Dio fra le case degli uomini» . È la vita che facendosi compagnia con altri può diventare annuncio come condivisione di una grande fortuna di cui la VR è beneficiaria e benefattrice. «Una vita caratterizzata da sentimenti di fraternità, coinvolgimento, sobrietà, solidarietà che porta i religiosi/e ad essere viandanti nelle strade della storia tra luci e ombre, gioie e amarezze, timori e speranze» . A spingere a ciò c’è la consapevolezza che «il senso della VC non è da considerarsi come inserimento in uno o più ambiti di impegno, ma piuttosto come un modo di essere in tutte le situazioni in cui si è chiamati a vivere» , coinvolti giorno per giorno nei problemi del quartiere e in quelli del mondo per far emergere la prospettiva evangelica scaturente dal proprio carisma. Fare questo è portarsi dalle opere all’operare, vale a dire dalla pastorale dei servizi alla pastorale della spiritualità. Una spiritualità in armonia con la vita, espressa con categorie appropriate alla mentalità secolarizzata, resa visibile da modelli evangelici che interpellino l’uomo del postmoderno.
Operare allora è «generare comunità che respirino e lascino respirare il profumo liberante e consolante del Vangelo, profondamente attraversate dall’interesse verso il “regno” piuttosto che all’autopromozione e all’autoconservazione» , con l’unica preoccupazione di originare tracce di cui altri, in momenti e contesti diversi, si possano servire per nuove inculturazioni. Ad Assisi il vescovo Bruno Forte così si è espresso: «È tempo di risposte provvisorie, umili per la situazione e il momento che ci è dato di vivere», risposte impastate (lievito) con quelle delle altre vocazioni che formano la Chiesa perché oggi più che mai la VR diventa sterile ogni volta che si chiude in se stessa e smarrisce gli orizzonti ecclesiali.
Ma per poter esprimere questo modo di essere ci vogliono religiosi/e propensi a interrogarsi per andare in profondità, decostruendo i propri miti senza accontentarsi di risposte accomodanti o di soluzioni ripetitive, uscendo se necessario da quella solitudine in cui spesso li confina la formazione avuta.
Tutto ciò sarà possibile se nel servizio di autorità ci saranno “artigiani” per sfornare lavori su misura attraverso una costante e approfondita attività di significazione delle domande e dei bisogni, diversi da quelli già catalogati; non servono «specialisti» che traggono le risposte dai loro classici repertori. Una autorità – direbbe p. A. Nicolàs, generale dei gesuiti – che si iscriva nell’insieme del processo di discernimento e non un agente esteriore.
Dove è possibile tutto ciò? Queste prospettive, lasciano forse intuire qualcosa di possibile per la vita consacrata in queste nostre terre di antica cristianità. Per queste la crisi attuale potrebbe rivelarsi una difficile ma reale opportunità per ripensare e riformulare il senso della via dei consigli evangelici nel quadro di una cultura postcristiana . Ma è pur vero che tutti gli sforzi (Capitoli su Capitoli) sono risultati improduttivi ai fini della rivitalizzazione per il fatto che la storia punisce chi arriva troppo tardi. Inoltre l’andamento demografico dei religiosi/e (per numero e per età) non fa certo intravedere una inversione di tendenza. L’occidente che fino a qualche decennio fa sembrava dover essere il vertice verso cui incamminarsi come società umana, oggi, come indica il suo nome è sulla via del tramonto. Lo spostarsi in terre di nuova evangelizzazione può offrire evidenti opportunità se l’istituto non cede alla tendenza di trasferire nel suo modo di essere e di fare ciò che in Europa ha prodotto la crisi. Vale a dire che se la VR sarà impostata e riconosciuta prevalentemente in funzione delle opere sociali, delle quali oggi queste terre hanno bisogno, fra qualche decennio quando saranno nella situazione di provvedere in proprio ai bisogni riconosciuti, gli istituti si troveranno nella stessa attuale sofferenza che in Italia stiamo sperimentando.